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Accabadora: una visione critica

Sul superamento del tratto retorico-realista nella letteratura sarda contemporanea e sul suo futuro.

Quando commentai La leggenda di Redenta Tiria e La vedova scalza, le due opere che portarono all’attenzione dei più l’arte scritturale di Salvatore Niffoi, cominciai scrivendo che “Niffoi non è Kafka”. Ultimata la lettura di Accabadora (Premio Campiello 2010, Einaudi), a mantenere lo stesso approccio dovrei forse scrivere che se Niffoi non è Kafka la Murgia non è Niffoi.

L’impressione, infatti, è che con Accabadora(1) muoia definitivamente il filone magico-realista trapiantato in quel di Sardegna e su cui mi soffermavo in quella passata occasione, muoia l’ossimorico tratto retorico-realista che, nella mia visione delle cose, caratterizzava l’opera dello scrittore oranese e vengano meno molti altri elementi tecnici caratterizzanti il fortunato movimento letterario sardo-contemporaneo che ha tentato, con una data determinazione, di scuotersi di dosso la pesante eredità deleddiana. Tutto questo defungere procurato – si intende – da situazioni differenti, da mancanze oggettive determinate da limiti sia interni che esterni all’impianto strettamente narrativo del romanzo in questione e alla più importante impalcatura morale (in senso lato) che, a mio modo di vedere, avrebbe dovuto sostenerne le necessità.

Accabadora: il problema nella scrittura

La semplicità della scrittura in Accabadora è elemento da leggere con la dovuta attenzione. Da un punto di vista meramente tecnico l’andamento è abbastanza discontinuo. Dopo un inizio sicuramente incerto (per lo più dovuto al reiterato utilizzo del ridondante filler un-po’ – l’avrò contato una ventina di volte – e alla presenza di alcune espressioni gergali odierne quali “fatti i cazzi tuoi”(2), anche queste usate in maniera reiterata, e difficilmente credibili nel contesto quotidiano di una Sardegna interna, per quanto ideale, degli anni ’50; una Sardegna dove il linguaggio – e soprattutto l’utilizzo di una lingua Italiana maccheronica, spesso grottescamente caricata – restava comunque questione di status, ovvero c’erano is sennores che osavano usarla, e gli altri cristi il cui destino restava legato a doppio spago al destino de sa mammalimba sarda e alle sue coloratissime metafore, anche scurrili, ma sicuramente altre e diverse dai cazzi-nostri-e-vostri-di-oggidì), si raggiunge un climax scritturalmente più evoluto che da un punto di vista narrativo coincide con il periodo precedente e immediatamente successivo alla morte di Nicola Bastiu per mano dell’accabadora. È, infatti, quel segmento raccontato il momento in cui l’Accabadora-che-è-opera-letteraria meglio si presenta al suo pubblico di lettori. La parabola discendente (ovvero, la non perfetta riuscita del topos agnitivo di cui parleremo più avanti) inizia invece subito dopo la scoperta, da parte di Maria Listru – sa filla de anima della sarta di Soreni Bonaria Urrai – di quale sia il vero mestiere della donna che l’ha accolta in casa. Sempre da un punto di visto tecnico, questa parabola discendente  si concretizza in una scrittura se possibile ancora più asciutta, lineare, affrettata, dove il discorso diretto quasi scompare. Questo accade con una modalità finanche più marcata durante tutto il periodo torinese di Maria (Torino è la città dove la ragazza si rifuggia dopo avere avuto certezza dell’attiva parte in causa avuta da Bonaria Urrai nella precoce dipartita di Nicola Bastiu da questo mondo), un segmento narrativo per certi versi difficile a comprendersi nella sua effettiva necessità di essere e che si impone nel contesto del substrato primario (quello di matrice sarda), come un quadro attaccato alla parete a forza viva ma che resta fondamentalmente estraneo al nuovo ambiente in cui è costretto. A riportare il lettore nella dimensione-temporale originariamente concepita – quella degli anni ’50 – provvede di tanto in tanto questo o quell’altro lemma tipico di una quotidianità andata (parlo, per esempio, alla ripetuta menzione del termine “cartamodelli”, i.e. gli attrezzi da lavoro della vecchia sarta di Soreni e della stessa Maria), ma sono momenti rari che quando si impongono sorprendono e quando mancano raccontano l’indubbio “problema scritturale” (in senso tecnico e rispetto all’evoluzione delle cose della letteratura sarda contemporanea di cui abbiamo detto nell’incipit) che Accabadora pone.

Accabadora: la fine del gioco d’imagery

Rispetto alla vivacità retorica dei testi di Niffoi, Accabadora marca senza dubbio alcuno anche la fine di un sofisticato gioco d’imagery. Ad una settimana dalla sua lettura, nella mia memoria sono rimaste impresse solamente due situazioni metaforiche, peraltro indovinate, capaci di dare colore e sostanza alla significazione. Faccio riferimento, nello specifico, alla particolare interpretazione del ruolo della Religione, nella visione del sofferente e impedito Nicola Bastiu (Nicola ha subito l’amputazione di una gamba a seguito di un “incidente” procurato da incomprensioni legate a questioni di confine e di sconfino; di fatto, sarà proprio questa sua menomazione fisica a spingerlo a richiedere i servigi de s’accabadora): “Arrivare a beccare nel dolore altrui , certo. Un bell’impegno, vi ci guadagnerete di sicuro il paradiso. Ma non sperate, don Frantzì, che solo perché mi manca una gamba io adesso sia in cerca di una stampella(3)”.

La seconda circostanza custodita nel ricordo è una bellissima quanto fugace immagine di quel villaggio sardo (e forse di tutti i villaggi sardi, in verità), nel quale, le case, le abitazioni, addossate le une alle altre, ci vengono mostrate dalla voce-narrante alla stregua di imbriachi abbracciati e colti nell’atto di confortarsi a vicenda.

Degni di nota sono anche i molteplici quadretti a ricordo della Prima Guerra Mondiale (peccato per quel “La guerra che poi sarebbe stata battezzata come Grande…”(4) che ci riporta alle problematiche scritturali già analizzate nel paragrafo precedente), i quali hanno il merito di rinfrescare la memoria sulla questione Grande-Guerra, un conflitto che vide migliaia di giovani sardi richiamati-a-forza senza sapere né come, né dove, né perché e del cui destino ultimo non si parlerà mai abbastanza.

Qualche altro raro pun considerato, a mio modesto avviso, Accabadora non fa utilizzo di nessuna altra possibilità retorica (intesa, naturalmente, nella sua accezione più alta) per sostenere il suo impianto narrativo. Intendiamoci,  lo status-quo non è necessariamente un male. Il fatto è che se vengono a mancare questi artifici creativi (ripeto, faccio riferimento sempre ad una retorica funzionale alla crescita del narrato e alla sua morale, in senso lato), qualche altro elemento tecnico deve necessariamente entrare in gioco per compensarne la mancanza (la scrittura professionistica, infatti, non può vivere senza lo sviluppo di una sua qualità artigianale che vada oltre l’urgenza dello scrivere). In particolare, gli elementi che secondo me dovrebbero entrare in gioco sono una visione sharp dell’impianto narrativo as a whole, mirante ad identificare il suo messaggio di fondo (che non significa esternazione di un improbabile intento didattico quanto piuttosto affermazione-dell’essenza e delle intenzioni creative autorali senza se e senza ma), insieme ad una indiscussa capacità argomentativa e di introspezione (a vari livelli). Tutti elementi, questi, imprescindibili quando si tratta di creare spessore e soddisfare la curiosità intellettuale. Secondo me però, come dimostrerò nel prossimo paragrafo, tali tratti costitutivi mancano comunque nel pur fascinante tocco-narrativo proposto da Accabadora.

Accabadora: la latitanza dell’introspezione psicologica e il problema nell’impianto narrativo (o della non perfetta riuscita del topos agnitivo).

A mio modo di vedere, il problema principale in Accabadora è dunque un problema nell’impianto narrativo, il quale si oggettiva in una non-perfetta-riuscita del topos agnitivo. Nello specifico, ad un incipit (in senso lato, e dunque anche a livello di tematica trattata dentro il testo) strepitoso, capace di catturare il lettore-accorto e mediamente evoluto, nonché di tenerlo incollato alla storia-che-diviene, non corrisponde un climax ed una conclusione degna dell’orizzonte d’attesa stuzzicato.

Mi sta bene senz’altro la pragmatica decisione di Bonaria Urrai di procedere a accabae Nicola Bastiu. La decisione è logica, assolutamente in linea con il suo ragionare pratico e con il ragionare pratico delle molte altre grandi donne sarde che hanno vissuto sulla loro pelle le incredibili, spesso disgraziatissime, storie di Sardegna, nel passato, nel presente, nel baccano ma, soprattutto, nel silenzio. Tuttavia, da una prospettiva meramente letteraria, una simile decisione porta seco delle conseguenze. In particolare, implica una capacità di dealing autorale non indifferente. Insomma, il minimo che ci si aspetta da uno scrittore che va a toccare un tema così importante – un tema di eutanasia-giustificata-dal substrato socio-culturale di riferimento, come è quello proposto da Accabadora – è che abbia tutte le carte in regole per saperlo affrontare. A mio modo vedere, la modalità di confronto (con tale difficilissima-tematica) scelta dalla Murgia, ovvero quello della “fuga” affrettata dalla Sardegna della protagonista Maria, non risponde a queste necessità.

E non vi risponde perché quel periodo torinese appare, finanche al lettore distratto (quale sono io), quasi come un cammeo mal riuscito appiccicato a forza viva (già detto) sul risvolto di una giacca che non fa alcun pendant con i pantaloni e il corpetto indossati. Detto altrimenti, questa parentesi-continentale risulta incomprensibile nella sua staticità, nel suo moralismo scontato, nell’anonimia delle figure forestiere raccontate, nella prevedibilità dei loro discorsi e delle loro azioni. Ma non vi risponde, anche perché da Maria (e quindi da chi per lei) ci si sarebbe aspettati ben altro. Ovvero, la dimostrazione di una tempra morale, filosofica, capace di fronteggiare l’importante problema posto, di sviscerarlo, di presentarlo agli altri non caricato di risposte preconfezionate ma quale sorgente di domande-nuove. Quale energica spinta intellettuale ad investigarlo oltre… quel problema.  Oltre il testo. Oltre la storia presentata. Oltre il destino segnato di Maria Listru, di Nicola Bastiu e di Bonaria Urrai.

Non è questione da poco. Di fatto, un esaustivo dealing rispetto alle necessità del climax-narrativo è la prova del nove per ogni grande scrittore. È il momento della verità, quello da cui si intuisce che la scrittura professionistica, oltre ad essere qualità artigianale è prima di tutto destino. Meglio ancora, è espressione ultima delle necessità di un’anima per sua natura… diversa.

Un altro aspetto da considerare è la mancanza in Accabadora dell’introspezione psicologica che rendeva il deleddismo di Cenere, di Elias Portolu e di tante altre opere deleddiane, l’elemento in-più capace di far-crescere e dare spessore alle vicende e ai personaggi raccontati. Elemento in-più, in grado di farli esistere e resistere nel Tempo, con buona pace degli incauti detrattori della loro autrice. Per essere completamente onesti nel metodo, occorre comunque sottolineare che le opere appena citate sono frutto di un percorso, di una maturazione personale e artistica che può venire soltanto a posteriori, ovvero quando la scrittura che è qualità artigianale e destino del singolo ….diventa esperienza creativa condivisa nella memoria dei tanti.

Letteratura sarda: quale futuro?

Se guardiamo ad Accabadora come l’ultima perla incastonata nella corona indubbiamente preziosa che è la letteratura sarda degli ultimi cento anni (opere deleddiane escluse), è indubbio che occorra domandarsi quale sarà il futuro di questa corona.

Di sicuro, Accabadora le regala una maggiore pragmaticità nel narrato,  che diventa quindi meno “magico” e più aderente ad una quotidianità vissuta. Da considerare vi è anche il fatto che questo nuovo pragmatismo non vive a spese del fascino sempiterno che sa donare alle sue storie il particolarissimo universo di riferimento. Ovvero, quello nostro. Quello sardo. Quello che – mode letterarie considerate – vivrà per milioni di anni ancora e  il cui destino sarà probabilmente tuttuno con il destino dell’ultima roccia di Sardegna in ansiosa attesa di venire inghiottita dal mare.

Un modo come un altro per dire che noi Sardi non riusciremo mai ad essere troppo moderni, o  modernisti. Difficile immaginare un Eliot o un Kafka nato in Sardegna. Vecchie storie.

Per certo, occorre lavorare con quel che c’è. E proprio per questi motivi, sarebbe certamente auspicabile, augurabile, che Michela Murgia possa tornare presto in libreria con altra storia da raccontare che non lasci dubbio alcuno sul percorso di maturazione letteraria intrapreso. Le buone premesse ci sono tutte e dunque non resta che attendere. Fiduciosi. In bocca al lupo.

(1) M. MURGIA, ACCABADORA, pag. 164, Einaudi, 2009.

(2) Ibidem, pag. 58

(3) Ibidem, pag.73

(4) Ibidem, pag.83

 

Rina Brundu

02/02/2011

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3 Comments on Accabadora: una visione critica

  1. Vorrei inserire qui una sorta di nota a piè di pagina e ringraziare con la stessa Salvatore Niffoi, caso mai passasse da queste parti, dato che non lo ho mai fatto prima. Una comune amica mi disse che Salvatore aveva letto e apprezzato la mia critica in forma di saggio breve “Salvatore Niffoi: l’Ars retorico-realista al servizio di Sua Sardità
    (Breve analisi tecnico-testuale ed altre considerazioni minime dopo una prima lettura de La leggenda di Redenta Tiria e de La vedova Scalza)”.
    Ritengo, infatti, che un grande scrittore possa esistere solamente in simbiosi con un grande uomo (o una grande donna), mentre un grande uomo (o una grande donna) non possa essere tale quando incapace di considerare la visione “diversa” altrui. Rina Brundu.

  2. Carissima, intanto è un onore averti qui. Spero tu stia per il meglio. Ho ricevuto copia del testo che riporta la tua corrispondenza con Mario Verdone e lo leggerò quanto prima. Ringrazia l’editore da parte mia.
    Per quanto riguarda Accabadora… ti confesso che sto ricevendo e-mail da più parti in quel di Sardegna. Da numerosi scrittori. Alcuni rigettano totalmente la nouvelle vogue dove Accabadora pure viene inquadrata… altri mi mettono in guardia da eventuali liste di proscrizione etc etc. Centu concas centu berrittas.
    Tu che mi conosci sai che tendo a raccontare ciò che vedo. Lo faccio negli articoli giornalistici che pubblico e lo faccio in queste prove di analisi testuale. Io non racconto una verità. Racconto una percezione che era vera nel momento in cui ho letto. Magari una seconda lettura mi suggerirà altrimenti. Epperò ritengo la cosa improbabile dato che i miei pareri (odio il termine giudizi) cerco sempre di sostenerli portando degli exempla, e così ho fatto pure in questa occasione. Nel complesso, ritengo che Accabadora sia una prima prova affascinante per Michela Murgia, che sono certa saprà crescere al meglio e saprà raccontare altre storie bellissime e di spessore tale da soddisfare i migliori palati. Di sicuro, ci sono attualmente nella meravigliosa terra di Sardegna altri scrittori valentissimi in attesa di essere scoperti… Magari riusciamo a dare una mano pure noi. Questo è quanto volevo dirti.
    Tieniti bene e stati bene, so quanta sofferenza vivi e ciò che mi stupisce sempre è la tua forza d’animo, insieme alla tua grande generosità. Intellettuale. E di cuore. Un abbraccio. RB

    ps. Per inciso il testo è ancora in fase di revisione… quindi scusa refusi e quant’altro.

  3. Vorrei ringraziare i tanti che hanno letto questo articolo. Il mio consiglio però sarebbe di acquistare Accabadora, leggerlo ed eventalmente riportare qua sotto i diversi pareri. Meglio se discordanti. Si impara qualcosa ogni giorno proprio grazie alle diverse prospettive di visione.

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