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L’università e i corsi online

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di Michele Marsonet.

 Le differenze tra il nostro sistema universitario e quello delle nazioni anglosassoni sono note, e bisogna purtroppo ammettere che la bilancia pende a loro favore. E’ verissimo che la crisi è ormai presente ovunque, e anche negli Stati Uniti si assiste da tempo a una diminuzione complessiva e costante degli iscritti. Pure in quel contesto, insomma, crescono i dubbi circa l’utilità della laurea e molti giovani preferiscono entrare subito nel mercato del lavoro rinunciando al titolo accademico.
Ammetto tuttavia di essere rimasto piuttosto sorpreso leggendo un articolo di Thomas L. Friedman sul “New York Times” intitolato “Revolution Hits the Universities”. Friedman è uno dei più noti editorialisti americani e vincitore del premio Pulitzer.
La rivoluzione di cui parla riguarda l’educazione “online”, vale a dire i corsi universitari impartiti con mezzi telematici senza che lo studente debba frequentare fisicamente le lezioni. Si apprende dall’articolo che negli USA tali corsi incontrano un successo crescente, tanto che alcuni dei più famosi atenei americani hanno imboccato con decisione questa strada.
Sono sorte numerose piattaforme informatiche utilizzate da università del calibro di Stanford, Harvard e M.I.T., con un numero di iscrizioni notevole e, come ho detto sopra, in crescita costante. Friedman ritiene che questa strategia sia molto utile per consentire a giovani di ottenere una buona formazione, e ai meno giovani di aggiornare le loro conoscenze per migliorare la posizione lavorativa.
Ovviamente i corsi online costano assai meno di quelli normali. E’ noto che la tassazione universitaria negli Stati Uniti è assai alta e spesso scoraggia l’iscrizione. Anche il sistema dei “prestiti d’onore” è entrato in crisi poiché, una volta terminato il loro percorso formativo, gli ex studenti non riescono a restituire alle banche i fondi in precedenza ottenuti a causa della difficoltà di trovare un impiego stabile. Il che induce a parlare di un’altra “bolla finanziaria” originata dai prestiti che gli studenti non possono restituire.
Naturalmente non tutto funziona alla perfezione. Il numero degli abbandoni, per esempio, è altissimo, e solo una minoranza giunge al termine del percorso. Inoltre si registrano spesse lamentele circa la scarsa interazione con i docenti, cosa abbastanza normale se si pensa ai numeri dianzi citati.
Friedman è tuttavia convinto che la situazione migliorerà via via che i corsi online verranno perfezionati. Non solo. Gli atenei USA non puntano unicamente al mercato interno, ma stanno espandendo l’offerta agli studenti di altri Paesi. Il vantaggio è evidente. Un cinese o un indiano che sogna di studiare negli Stati Uniti ha ora la possibilità di farlo senza muoversi da casa. Senza dubbio tali corsi rappresentano anche un vantaggio per la politica estera USA, contribuendo in modo massiccio ad avvicinare gli stranieri al loro modello educativo e a diffondere ancor più nel mondo la cultura americana.
Rafael Reif, presidente (rettore) dello M.I.T., è convinto che il trend continuerà con sempre maggiore successo in futuro, risolvendo pure parecchi problemi quali la garanzia della qualità dei corsi e la validità internazionale dei diplomi rilasciati.
Si tratta indubbiamente di una grande sfida, e a questo punto spiego perché – come ho scritto all’inizio – sono rimasto sorpreso dopo aver letto l’articolo del “New York Times”. La sorpresa è dovuta al fatto che, da noi, i corsi online ci sono ma hanno nella grande maggioranza dei casi una cattiva fama. Sono sorte pure delle università interamente telematiche le cui credenziali, tuttavia, non sono sempre limpide.
L’attuale situazione di emergenza, inoltre, ha spinto anche le università italiane a fare didattica online in modo pressoché esclusivo, ed è ora difficile appurare quali siano i risultati. Parecchi docenti sembrano entusiasti, mente altri manifestano seri dubbi.
Premetto che, personalmente, non credo molto ai corsi online, ma può anche trattarsi di un pregiudizio infondato da parte mia. Mi sembra comunque chiaro che, se anche in Italia si intenderà procedere con forza in questa direzione, dovranno essere le università più prestigiose e dotate di buone credenziali a farsi avanti.
Alcuni esperimenti sono già in corso, anche se i numeri non sono certo comparabili a quelli americani. Ma il “marchio di qualità” è fondamentale, poiché questo è un campo in cui la truffa è, se non proprio facile, almeno sempre in agguato. E l’abilità italica al riguardo è purtroppo nota.