Tregua vera o falsa nella guerra dei dazi Usa-Cina?
di Michele Marsonet.
Qualcuno parla di “disgelo” tra Stati Uniti e Cina nell’ormai lunga guerra commerciale, basata sui dazi, che Donald Trump ha dichiarato alla Repubblica Popolare. In effetti segnali in questo senso ci sono, anche se è troppo presto per capire se si tratta di una tregua reale.
Il presidente americano è stretto tra due esigenze contrapposte e incompatibili. La prima esigenza è la seguente. In campagna elettorale aveva promesso il “decoupling”, vale a dire il “disaccoppiamento” tra le economie del suo Paese e quella del gigante asiatico, che sono molto più interconnesse di quanto lo stesso Trump voglia ammettere.
Molte aziende Usa, soprattutto nel settore hi-tech, hanno negli ultimi decenni delocalizzato parti importanti delle loro attività in Cina per sfruttare i costi del lavoro assai più bassi. Valga per tutti l’esempio della Apple. La conseguenza è stata una crescente dipendenza dai componenti fabbricati in Cina su licenza Usa (ad esempio per quanto riguarda personal computer e smartphone).
A ciò va aggiunta un’ulteriore dipendenza americana nel settore delle cosiddette “terre rare”, cioè i minerali indispensabili nello stesso settore hi-tech, per la produzione degli smartphone e degli armamenti sofisticati. La Repubblica Popolare è il maggiore esportatore mondiale di terre rare, e Pechino ha più volte adombrato il blocco dell’esportazione verso gli Usa.
E’ un dato di fatto che la politica dei dazi ha sì danneggiato la Repubblica Popolare, ma al contempo pure gli Usa, causando ricadute economiche pesanti in entrambi i Paesi. Nel gennaio di quest’anno era dunque stato siglato un accordo per impostare i rapporti commerciali tra le due nazioni su basi più razionali.
Si era convenuto, in base all’accordo suddetto, che la Cina acquistasse 200 miliardi di dollari aggiuntivi di prodotti americani, in cambio della sospensione da parte Usa dell’escalation tariffaria che ha raggiunto il suo apice l’anno scorso.
Tuttavia Trump deve anche tener conto del cambiamento di scenario apportato dal virus proveniente da Wuhan, ed è questa la seconda delle esigenze dianzi menzionate. La pandemia ha infatti fatto crescere negli Stati Uniti le tendenze anti-cinesi. Del resto in crescita, sempre a causa del virus, anche nei Paesi europei (ad eccezione dell’Italia, dove il nostro Ministro degli Esteri continua a spingere per rafforzare i rapporti con Pechino).
Lo scenario è inoltre complicato dal fatto che la pandemia sta causando guai economici a non finire tanto negli Stati Uniti quanto nella Repubblica Popolare. Di quanto accade negli Usa a questo riguardo sappiamo praticamente tutto. Disoccupazione a livelli record con una possibile crisi sociale incombente.
Vista la strettissima censura praticata dal regime molto meno sappiamo di quanto sta accadendo in Cina, anche se i segnali d’allarme sono numerosi. Il rallentamento dell’economia del Dragone c’è, e pure forte. La domanda interna è in calo, e il rallentamento del commercio globale peserà soprattutto sulla Repubblica Popolare, maggior Paese esportatore del mondo.
Ecco perché Trump non ha ancora deciso se dare seguito all’accordo già raggiunto oppure proseguire nello scontro. Per ora si è preso una pausa di riflessione, attento come sempre agli umori del suo elettorato e alle mosse più convenienti in vista delle imminenti elezioni, nelle quali si giocherà il secondo mandato.
Mai come ora, però, è chiaro che i due giganti della politica e dell’economia mondiali sono – “obtorto collo” – costretti a riconoscere che risultano, almeno in questa fase, legati l’uno all’altro. Il “disaccoppiamento” non è per nulla facile e, qualora avvenisse, avrebbe conseguenze imprevedibili sul piano globale.