Amarcord. 2010 – 2020 Dieci anni di Rosebud – Albert Einstein e Olinto De Pretto: la vera storia della formula più famosa del mondo – Parte prima
di Umberto Bartocci.
A Francesca gentile,
che con la sua discreta presenza
e il suo amore senza pretese
mi ha donato un po’ di forza
per rialzarmi e riprendere
un difficile cammino…
Ho rivelato queste cose
agli umili e ai semplici,
e le ho tenute nascoste
ai ricchi e ai potenti.
L’autore dedica questo lavoro, con profonda stima per le loro qualità di uomini e di scienziati, agli indimenticabili amici Ing. Arch. Piero Zorzi (scomparso prematuramente nel gennaio del 1991, proprio quando questo scritto, il cui contenuto era già stato succintamente presentato al LXXVI Congresso della Società Italiana di Fisica, tenutosi a Trento nel mese di Ottobre del 1990, stava per essere completato nella sua prima versione), ed al suo inseparabile compagno di studi e ricerche Prof. Omero Speri (scomparso anch’egli nel 1995). E’ ad essi che si deve se la memoria originale del De Pretto è stata riportata alla luce, attraverso una corretta valutazione non soltanto del suo valore in sé, ma anche della sua importanza in relazione ai primi lavori di Albert Einstein sulla teoria della relatività ristretta. Senza l’apporto di questi due studiosi, pensatori originali ed acuti indagatori dei fenomeni naturali – tanto da essere stati tra i primi ad ipotizzare la possibilità dell’esistenza di processi di “fusione a bassa energia” in alcuni eventi spontanei biologici e geologici, e ad aver tentato di ripeterli artificialmente in laboratorio – il presente contributo alle origini storiche della teoria della relatività non avrebbe mai visto la luce.
Ringraziamenti
L’autore desidera esplicitamente sottolineare che non gli sarebbe stato possibile portare a compimento questo lavoro nella presente forma senza la preziosa fattiva collaborazione della Dott.ssa Bianca Mirella Bonicelli, diretta discendente di Silvio De Pretto, fratello di Olinto, la quale gli ha cortesemente fornito tante indispensabili informazioni, oltre ad aver curato la nota biografica apposta in appendice, nella quale si ricostruiscono in modo brillante l’ambiente ed i tempi dello scienziato di Schio.
Si menzionano anche il Sig. Silvano Besso, che ha aiutato a chiarire qualche punto oscuro relativo alla storia della sua famiglia, e i Proff. Silvio Bergia, Giorgio Dragoni, e la Sig.ra Paola Fortuzzi, del Dipartimento di Fisica dell’Università di Bologna, per la loro cortese disponibilità in ordine alla consultazione di materiale bibliografico presso la Biblioteca di quel Dipartimento.
L’autore ringrazia infine gli amici Roberto Monti e Rocco Vittorio Macrì, compagni isolati nella condivisione delle critiche alla teoria della relatività, che lo hanno fatto sempre sentire meno solo (il primo dei due va ricordato in modo speciale non solo per diverse interessanti informazioni utilizzate nel seguito del libro, ma anche per avere aiutato l’autore a ‘crescere’ quale egli attualmente è).
Capitolo I
La terrificante energia dell’atomo
e la teoria della relatività
Se chiedete ad un qualsiasi uomo di scienza quando la più famosa formula della fisica sia stata concepita vi risponderà senza dubbio che fu nel 1905 che Albert Einstein, considerato ai nostri giorni il più grande scienziato di tutti i tempi, pubblicò la sua congettura secondo la quale la massa di un qualsiasi corpo, come dire il suo contenuto di materia, non è altro che una misura dell’energia che esso è in grado di produrre, nella famosa proporzione:
E (energia) = m (massa) per la velocità della luce,
che viene indicata solitamente con la lettera c, al quadrato,
ovvero, più sinteticamente, come tutti sanno:
E = mc2.
Al primo membro di questa equazione troviamo l’energia totale E racchiusa in un qualsiasi corpo fisico, ed al secondo la sua massa m, moltiplicata per il quadrato della “costante universale” c (costante almeno secondo la teoria della relatività einsteiniana), vale a dire la velocità della luce nel “vuoto”, pari a circa 300.000 Km al secondo. L’equazione si dice esprimere l’equivalenza tra massa ed energia, perché va intesa non soltanto nel senso che una massa è capace di produrre energia, esperienza che tutti abbiamo fatto bruciando un pezzo di legno in un camino per ricavarne calore, ma anche viceversa che l’energia è capace sotto certe condizioni di trasformarsi in massa, in materia. La formula precedente va interpretata in altre parole nel senso di una totale convertibilità, quasi identità tra i due termini, anche se ciò che interessa naturalmente per le applicazioni pratiche è piuttosto il passaggio da m ad E che non quello inverso!
Per quanto riguarda quest’ultimo, deve comprendersi bene che un siffatto grande valore come il quadrato della velocità della luce al secondo membro della precedente formula fornisce un valore molto alto per l’energia situata al primo membro, anche soltanto a partire da una sola unità di massa, ed in effetti è oggi opinione comune che l’equazione in parola ricevette la più terribile delle conferme dalle esplosioni nucleari che devastarono alla fine del secondo conflitto mondiale le sventurate città giapponesi di Hiroshima e Nagasaki. Fu allora che tutto il mondo, attonito, dovette prendere ufficialmente atto della reale esistenza dell’energia contenuta nell’atomo: un’energia enorme, nascosta in ogni grammo di materia, capace di produrre una trasformazione senza precedenti nella storia dell’umanità, fornendo alle nazioni capaci di controllarla un predominio assoluto su tutte le altre.
Tale possibilità, si dice, era stata prevista sin dal 1905 da Albert Einstein, e come vedremo quasi un corollario alla sua teoria della relatività, la quale sembrò ricevere quindi da quelle immani catastrofi una delle conferme più spettacolari di tutta la storia della scienza. Ed in verità, il ruolo di Einstein in tale occasione non si limitò a quello del lontano precursore teorico: fu proprio lui ad intervenire, con tutto il peso della propria autorevolezza scientifica, a favore del celebre “Progetto Manhattan”[1] con due lettere (1939-1940) indirizzate all’allora Presidente degli Stati Uniti d’America Franklin Delano Roosevelt, quando si facevano più insistenti le voci relative alle ricerche da parte degli scienziati del III Reich aventi per obiettivo la costruzione di una superbomba capace di capovolgere le sorti di un prevedibile futuro conflitto. Citiamo dalla prima di queste: “Signor Presidente, alcune ricerche svolte recentemente da Enrico Fermi e Leo Szilard, di cui mi è stata data comunicazione in manoscritto, mi inducono a ritenere che un elemento, l’uranio, possa essere trasformato nell’immediato futuro in una nuova ed importante fonte d’energia…” (corsivo aggiunto).
Il fatto che la fisica di questo secolo sia stata così profondamente coinvolta in avvenimenti di questa portata rende naturalmente ogni discussione su di essa assai delicata, ed ogni critica sospetta quasi di ‘alto tradimento’, per non dire di peggio. I ‘fisici’, o gli scienziati in generale, sono divenuti oggetto della venerazione popolare, la loro opinione è ricercata dai mezzi di informazione ed accolta come un tempo venivano accolti i pareri dei nobili o dei principi della Chiesa, i loro ‘drammi’ psicologici, i loro dubbi, fatti oggetto dell’attenzione di scrittori e registi: ricordiamo come caso esemplare il dramma “I fisici”, di Friedrich Dürrenmatt (Einaudi, 1972).
Qualsiasi possa essere il giudizio etico di ciascuno di noi su quei non troppo lontani avvenimenti, e sul comportamento degli scienziati che vi furono coinvolti, non si possono non ricordare le lucidissime parole di uno dei pochi, per non dire l’unico, tra i protagonisti che ebbero il coraggio di effettuare una scelta radicalmente antitetica. Si tratta di Franco Rasetti, uno dei famosi “ragazzi di via Panisperna”, che lavorarono alla fissione dell’atomo sotto la guida di Enrico Fermi, e che espresse nel 1945, in una lettera ad Enrico Persico, un altro compagno di studi di Fermi, il seguente pensiero: “Sono riuscito talmente disgustato delle ultime applicazioni della fisica (con cui, se Dio vuole, sono riuscito a non avere nulla a che fare) che penso seriamente di non occuparmi più che di geologia e di biologia” (e Rasetti mantenne la promessa!). Persico rispose ammettendo che era “un vero peccato che la fisica si sia così contaminata con interessi politici e militari, ma credo che al punto in cui erano le cose ciò era praticamente inevitabile e non se ne possa far colpa a nessuno”.
Il lettore interessato potrà trovare eco di questa polemica in Edoardo Amaldi, Da via Panisperna all’America, a cura di Giovanni Battimelli e Michelangelo De Maria (Editori Riuniti, Roma, 1997), nel quale i curatori commentano al riguardo dicendo che: “Se si può restare affascinati di fronte alla coerenza morale degli argomenti di Rasetti, non si può tuttavia evitare di rilevare che la sua condanna della bomba nucleare e dei fisici che l’avevano realizzata prescinde totalmente, con un distacco aristocratico e ‘apolitico’ dalla storia, da qualsiasi giudizio sulle circostanze di quegli anni – la guerra mondiale scatenata dai nazisti e la paura che Hitler arrivasse primo alla bomba atomica – che avevano motivato l’impegno nel Progetto Manhattan di molti scienziati, e in particolare dei suoi antichi amici Fermi, Rossi e Segrè”, dimenticando però che, quando le bombe, per qualsiasi ‘buona ragione’ costruite, furono fatte esplodere, la Germania nazista era già capitolata, ed il Giappone era ormai alla resa…
Comunque sia, quella accennata è certamente una delle ragioni per cui il 1905 viene considerato nella storia della fisica di questo secolo come uno degli anni più significativi, e tanto più se si tiene conto di altri ben 4 lavori pubblicati in quello stesso anno dal fino allora quasi sconosciuto Albert Einstein. Uno di essi, quello sull’effetto fotoelettrico, gli valse addirittura il premio Nobel, anche se soltanto nel 1921, o, come vedremo più esattamente, nel 1922, attraverso vicissitudini che val forse la pena di rammentare.
Accade infatti che questo riconoscimento sia stato assegnato ad Einstein per le sue ricerche sull’effetto fotoelettrico, e non per la sua ‘creatura’ scientifica più nota, vale a dire la teoria della relatività, sicché la motivazione ufficiale non può non essere considerata niente più che un ripiego, per un premio che ‘doveva’ essere comunque assegnato ad Einstein, per presumibili ‘intese’ che esulavano dall’ambito strettamente scientifico. Il fatto è che questi rappresentava al tempo sostanzialmente l’unico scienziato sul quale la fisica tedesca poteva far leva per riprendere il suo ruolo di leadership mondiale dopo la Grande Guerra, durante la quale tutti gli altri fisici tedeschi, con appunto quell’eccezione, si erano schierati apertamente su posizioni nazionaliste, sottoscrivendo una dichiarazione a favore delle ragioni degli Imperi Centrali nel conflitto. La conseguenza fu, al termine delle ostilità, che essi si trovarono emarginati dalle potenze vincitrici, tanto da non essere più invitati a convegni o ad altre occasioni del genere. E’ in questo contesto, ma non solo, come avremo presto l’occasione di discutere, che si cominciò ad operare su larga scala per costruire il mito del grande scienziato, ed è ad esempio circostanza poco nota che Einstein era così sicuro di ricevere il premio che gli era stato promesso sin da alcuni anni prima che ciò effettivamente si verificasse, tanto da farne menzione nell’atto di divorzio, sottoscritto nel 1919, dalla prima moglie Mileva Maric, alla quale sarebbe dovuto andare il relativo importo.
Per quanto riguarda poi la motivazione per il Nobel, si incontrarono troppe obiezioni a che fosse menzionata per esso la teoria della relatività, che, nonostante oggi si pretenda limpidissima costruzione intellettuale, e come tale somministrata agli studenti di fisica sin dai primi anni senza fare troppe storie, all’epoca contava invece ancora molti autorevoli critici. Il fatto è che le bombe atomiche non erano ancora esplose, il raccordo tra relatività ed equivalenza massa-energia non aveva ancora prodotto i suoi frutti concettuali, e non era evidentemente bastata tutta la ‘propaganda’ che era stata messa in atto a favore della relatività al tempo delle celebri osservazioni di Eddington (1919). Ricordiamo che questi avrebbe ‘confermato’ con le sue misurazioni nel corso di un’eclisse le previsioni della teoria della relatività generale in ordine ad una prevista deflessione dei raggi luminosi in prossimità di un campo gravitazionale, ed i risultati della spedizione furono diffusi con grande clamore. Peccato per l’obiettività della scienza che sia meglio stendere un velo pietoso sull’imparzialità dimostrata dall’astronomo inglese in tale occasione, e sul modo con il quale selezionò accuratamente le poche misure favorevoli alle previsioni di Einstein, ignorando tutte le altre[2].
Naturalmente, nell’importante, ma scritta con intenti apologetici, biografia di Abraham Pais (‘Subtle is the Lord…’ The Science and the Life of Albert Einstein, Oxford University Press, 1982) non si fa cenno a queste ‘voci’, ma si può desumere comunque (pp. 502 e segg.) come al tempo ci fossero ancora forti resistenze all’accettazione della teoria della relatività, per le sue caratteristiche del tutto contro-intuitive – avremo modo di discuterle più avanti – che la rendevano sgradevole anche a molti pur eminenti intelletti. Nell’approfondito ed abbastanza neutrale testo di Stanley Goldberg Understanding Relativity – Origin and Impact of a Scientific Revolution (Clarendon Press, Oxford, 1984), che compie un’analisi ampia e rigorosa sull’accoglienza riservata alla teoria della relatività, sulle sue accettazioni e sui suoi rifiuti, si trovano invece conferme (p. 153) dell’opinione che fu solo dopo il così rumoroso successo dell’esplosione della bomba atomica, considerata la prova più appariscente ed indiscutibile della trasformazione della materia in energia prevista da Einstein, che la teoria della relatività si è definitivamente affermata[3].
L’opinione comune riguardo al valore della teoria di Einstein è oggi arrivata addirittura al punto che si possono esprimere correntemente opinioni di questo genere (corsivi aggiunti): “La possibilità che un dubbio sulla teoria della relatività possa essere accolto è la stessa che avrebbe un dubbio sul sistema copernicano” (Tullio Regge, Cronache dell’Universo, Ed. Boringhieri, Torino, 1981); “Nessun fisico, a meno che sia folle, può mettere in dubbio la teoria della relatività” (Isaac Asimov, The two masses, Mercury Press, 1984); “Special relativity: Beyond a Shadow of a Doubt ” (Clifford Will, Was Einstein right?, Oxford University Press, 1988); e così via, le quali hanno l’ovvia conseguenza che, chi invece qualche dubbio in cuor suo lo avverta, si faccia forza e lo taccia, appunto per la vergogna[4] di poter essere considerato un “folle”, o, e chissà cos’è sentita come peggiore, una persona corta d’intelletto, che nutre dei dubbi soltanto perché non ce la fa a capire quello che invece tutti gli altri capiscono benissimo[5].
E’ abbastanza comico peraltro osservare che in siffatti termini di ‘sicurezza’ si esprimevano anche i fisici della fine del secolo scorso quando difendevano invece la teoria dell’etere – che è, come vedremo nel prossimo capitolo 3, la principale rivale della teoria della relatività – la quale era allora ben viva e vegeta: “L’unica nube nel cielo limpido della teoria dell’etere è il risultato dell’esperimento di Michelson-Morley” (di cui pure presto diremo), Lord Kelvin, 1900; “La probabilità dell’ipotesi dell’etere sfiora la certezza”, Chwolson, 1902; mentre è per contro abbastanza drammatico che le condizioni nelle quali versa attualmente la fisica teorica del nostro Secolo diano origine a difficoltà intellettuali quali quelle in cui mostra di dibattersi un certo G. Della Casa[6]. Questo autore presta evidentemente troppa attenzione alle speculazioni degli scienziati, e troppa fede nella superiorità delle loro argomentazioni, probabilmente perché, al contrario di quelle dei ‘filosofi’, basate sui ‘fatti’, e quindi più certe. Scrive di conseguenza: “Bisogna ammettere che non si riesce a farsi un’immagine mentale soddisfacente di certe astrazioni della fisica moderna, ma tali difficoltà non possono essere considerate come argomenti validi contro una visione del mondo che ha dalla sua parte l’esperienza e la logica. La causa di queste difficoltà deve pertanto ricercarsi nella nostra struttura o nell’inerzia a modificare abiti mentali di lungo uso […] [la teoria della relatività] non si addice troppo al modo di funzionare del nostro povero cervello di mammiferi primati”!
Ed appunto quale povero mammifero primate che il presente autore si permette di esortare il lettore a considerare invece quanto mai azzardate le varie speculazioni filosofiche che si appoggiano sulle teorie oggi più accreditate della fisica contemporanea, all’unico scopo di ricevere così una sorta di attestato di maggiore “credibilità” rispetto ad altre che non mettono in atto tale espediente. Facendo così dimostrerebbe di ignorare che i pretesi ‘fatti’ non sono sovente altro che “implicazioni remote di teorie possibilmente erronee”[7], e che nella pratica scientifica attuale si apprezza di più la produzione di ricette efficaci allo sviluppo della tecnica, che non la formulazione di teorie sulla realtà naturale che siano tra loro logicamente consistenti. In effetti il quadro conoscitivo che offre la nostra attuale fisica teorica è ben descritto dal famoso matematico René Thom, uno dei pochi ingegni che ai nostri giorni ha il coraggio di dire che: “I fisici in genere sono delle persone che, da una teoria concettualmente mal messa, deducono dei risultati numerici che arrivano alla settima cifra decimale, e poi verificano questa teoria intellettualmente poco soddisfacente cercando l’accordo alla settima cifra decimale con i dati sperimentali! Si ha così un orribile miscuglio tra la scorrettezza dei concetti di base ed una precisione numerica fantastica […] purtroppo pretendono di ricavare un risultato numericamente molto rigoroso da teorie che concettualmente non hanno né capo né coda ” (corsivi aggiunti)[8].
Per coloro che non hanno voglia di affrontare certi problemi fondazionali risulta quindi utilissima l’assurda connessione della teoria della relatività con la questione generale della II Guerra Mondiale, del nazismo e dell’antisemitismo[9], dal momento che questa sorta di rimando ideologico ha fatto sì che a critiche anche fondate si sia instaurata l’abitudine, considerata più che giustificata, di non rispondere affatto (ma vedremo più avanti che la strategia di non rispondere viene applicata anche in assenza di siffatte coperture pseudo-politiche); addirittura, nei casi più rozzi, con il semplice espediente di assimilare quasi gli autori delle critiche ai responsabili dell’Olocausto, e di emarginarli quindi immediatamente dagli ambienti accademici nei quali ci si fa un punto d’onore di essere “politicamente corretti”, a prezzo talvolta anche della ‘verità’, della morale e dell’obiettività scientifica.
Merita forse a questo proposito illustrare quanto asserito con una quasi incredibile testimonianza personale del presente autore. Questi infatti, accogliendo un suggerimento del citato amico e ‘compagno di studi’ Rocco Vittorio Macrì, ha promosso recentemente, insieme ad altri, un convegno internazionale dedicato a “Cartesio e la scienza”, con l’intento di celebrare il IV centenario della nascita del grande filosofo francese, e di approfittare dell’occasione per tentare di riproporre l’attenzione sulla posizione centrale che il pensiero cartesiano dovrebbe occupare nella storia della fisica (di ciò riparleremo nel capitolo 3). Un po’ dopo la fine del convegno, e quindi ‘a freddo’ (si era per l’esattezza nel mese di Novembre; l’incontro si era svolto presso il Dipartimento di Matematica dell’Università di Perugia dal 4 al 7 Settembre 1996), comparve sulla rivista Micropolis, un supplemento mensile del quotidiano Il Manifesto, un articolo (il nome del cui autore non val la pena citare) che riferiva all’organizzazione del convegno, definito una “cloaca […] pestilenziale ed oscena”, l’appellativo “Una cattiva azione”, e proseguiva poi con accuse di irrazionalismo, quello stesso irrazionalismo di cui “si è nutrito il fascismo”. Il commentatore proseguiva nella sua foga intimidatoria avvertendo anche che “Di questa cattiva azione, i responsabili, in una forma o nell’altra, un giorno o l’altro, dovranno pur rendere conto. Noi ci staremo attenti. Terremo gli occhi aperti. Caccia alle streghe? No! Caccia ai cretini (forse non così irresponsabili come sembra) che minano la democrazia”! Ed ecco così dimostrata almeno in un caso la connessione latente “critica alla scienza – attacco alla democrazia” di cui stiamo qui parlando. Un tale ridicolo attacco non è stato senza conseguenze, dal momento che premurosi colleghi si sono precipitati a chiedere preoccupati in sedi ufficiali quale potesse essere il danno in termini di ‘immagine’ che siffatte polemiche possono avere arrecato al ‘prestigio’ delle strutture di cui lo scrivente fa ancora parte (e suggerendo quindi che tali attività non fossero più nel futuro autorizzate). Ma qual è il peccato che viene rimproverato agli organizzatori da parte di questo misterioso gruppo di vigilanza, naturalmente se quel “Noi” non è un plurale majestatis che l’articolista si concede quale auto-ricompensa per la propria integrità morale? Di avere concesso in una sede universitaria libertà di parola, in onore di Cartesio e del suo “dubbio sistematico” nei riguardi di ogni imposizione culturale, a tutti coloro che, anche non dell”ambiente’, si sentissero comunque capaci di portare qualche ‘critica’ nei confronti delle teorie correnti, o qualche contributo che avesse trovato difficile ascolto attraverso i normali canali della comunità scientifica – di solito così in altre faccende affaccendata da non aver tempo di concedere almeno un po’ di soddisfazione a quelle poche persone che si occupano ancora per diletto di questioni scientifiche (ma al convegno hanno anche partecipato illustri personalità del mondo scientifico ‘ufficiale’, quali il René Thom dianzi citato, o il Waldyr A. Rodrigues che pure citeremo poco più avanti; e l’autore cessa qui l’elencazione per non fare ulteriore torto a nessuno). La concessione di mezz’ora di tempo per un intervento libero viene definita frutto di “insana stupidità”. che non può giustificarsi con uno “pseudo-liberalismo”, soprattutto perché “Non si gioca con l’oscurantismo quando ‘è ancora gravido il ventre della bestia immonda’ “[10]. Di fronte a tanta violenza verbale di una persona (o di persone) che, pur professandosi sinceramente democratiche, sono evidentemente di opinione fortemente contraria a quella di Pietro Abelardo, secondo il quale “Nessuna dottrina è così falsa da non contenere qualche verità […] nessuna discussione tanto frivola da non poter trarre da essa qualche insegnamento”[11], c’è da stupirsi poi se la maggioranza dei responsabili dell’educazione delle future generazioni cerca soprattutto di vivere tranquilla, e si preoccupa principalmente di stringere e mantenere alleanze che consentano qualche possibilità di carriera e di ‘onori’ a se stessi ed ai propri ‘protetti’?!
Nei confronti delle diverse concezioni che possono proporsi in alternativa con l’impostazione einsteiniana (e di cui diremo brevemente nel prossimo capitolo 3) non si può neanche mostrare qualche interesse, sia pure con la scusa di qualche finalità puramente ‘storica’: all’affermazione di Einstein e dei suoi seguaci si è accompagnato un vero e proprio atteggiamento di dileggio e di compatimento nei confronti dei sopravvissuti irriducibili avversari di concetti quali la dilatazione dei tempi, cronotopi curvi, quarte e quinte dimensioni, big-bang e big-crunch, etc.. Oggi chi osasse parlare negli ambienti scientifici in modo serio di “etere” o di altre consimili questioni, passerebbe per un ignorante, un oscurantista, o peggio per un provocatore, come colui che intervenisse ad un convegno medico riproponendo agli astanti l’importanza dell’influsso degli astri nell’evoluzione di una qualche malattia; un inguaribile nostalgico, che dimostra con il suo comportamento di voler restare fuori dal progresso scientifico, irrimediabilmente legato a teorie che non rappresentano altro che “il ciarpame della storia della stupidità umana”[12]. In realtà, a parte il fatto che ciascuno ha il diritto di fare tutte le ipotesi che vuole su tutto quanto non si sa per certo, e che è poi in fondo quasi tutto[13], quella che dà più fastidio nel tipo di fenomeno sociologico descritto è la confusione di campo che ne risulta: dove sono in effetti il razionalismo e l’irrazionalismo, per ciò che questi due termini possono ancora significare? Nella parte degli anti-relativisti, come chi scrive queste pagine, che vorrebbero una ‘fisica razionale’, nella quale spazio e tempo significano quel che hanno sempre significato per il nostro intelletto, ed ha senso pensare ad oggetti in modo indipendente dagli osservatori, a relazioni di causa ed effetto tra eventi, etc.? O in quella di chi, usando descrizioni di tipo matematico sempre più avulse dalla ‘realtà’ e dalla logica naturale, pretende di sostenere che un evento che appartiene al futuro di un osservatore è nel passato di un altro, la possibilità di viaggi nel passato e nel futuro (magari passando attraverso un “buco nero”), o di bilocazioni[14]?
E non si pensi al solito che si stia qui esagerando: è il famoso relativista Arthur Eddington, di cui abbiamo già parlato a proposito della sua imparzialità scientifica’, ad informarci nel suo Spazio, Tempo e Gravitazione (Ed. Boringhieri, Torino, 1971) che “qualsiasi entità con una velocità superiore a quella della luce potrebbe essere in due luoghi nello stesso tempo”. Va da sé, la teoria di Einstein non prevede la possibilità di un superamento della velocità della luce, ma oggi che di questa possibilità si comincia a parlare sempre più spesso[15] ed anche concretamente (si è annunciato che il fisico Gunter Nimtz a Colonia avrebbe inviato un messaggio contenente la sinfonia N. 40 di Mozart a velocità diverse volte superiore a quella della luce) ecco che tali fenomeni di ubiquità dovrebbero cominciare ad essere presi in più seria condiderazione!
Per tornare al punto, va anche tenuto ben presente, soprattutto da parte di coloro che sono più indifesi sotto certi aspetti, che la circostanza che certe teorie siano espresse nel linguaggio della matematica non vuol dire assolutamente nulla in ordine alla loro eventuale significatività, o al loro maggiore valore nei confronti di altre teorie che non hanno la stesse credenziali formali, dal momento che la matematica è come il cappello di un prestigiatore, da cui può uscire fuori qualsiasi cosa vi sia stata messa dentro prima. Chi è abile nel suo trattamento può utilizzarla per sostenere tesi di qualsiasi tipo, anche se naturalmente spesso attraverso contaminazioni occulte tra diversi livelli del discorso. Non c’è nulla di così assurdo che un buon matematico non sarebbe capace di descrivere con qualche struttura, purché naturalmente non contraddittorio: basta battezzare una certa funzione cervellotica con il nome di ‘tempo’, ed ecco che poi questo tempo può avere un’origine e una fine, e quant’altro si vuole[16]. Una matematica che si trasforma, con grande dolore del presente autore che è un matematico di formazione, in una sorta di latinorum per diversi moderni don Abbondio, che la utilizzano come espediente retorico per giustificare mode culturali o ben di peggio[17], confondendo la testa alla gente ed allontanando gli intelletti più sensibili dalla ‘scienza’. Chi di noi non ha presente qualcuno di quei libri che vaneggiano di immaginarie corrispondenze tra le concezioni cosmologiche moderne ed apocrifi testi pseudo-orientali, o para-normalisti che invocano a sostegno della possibilità dei fenomeni da loro descritti l’autorevolezza di teorie quali la relatività o la meccanica quantistica? Niente divisione tra ‘amici’ o ‘nemici’ della scienza dunque, tanto più se la si volesse utilizzare per porre un libro come questo nella schiera dei nemici; ma se la si vuole per forza introdurre, che allora si comprenda almeno bene chi è il vero nemico, e chi no!
Ritorniamo ancora una volta a cercare di persuadere il lettore del fatto che lo sconsolante quadro descritto non sia un’esagerazione, informandolo che addirittura si ritiene nel 1985 (proprio così, non nel 1685!) “non idoneo all’insegnamento nelle Università quale professore associato” il fisico palermitano Giuseppe Cannata, a lungo docente di fisica presso l’Ateneo di quella città, noto per alcuni suoi tentativi di revitalizzazione del concetto di etere (vedi il successivo capitolo 3), con la motivazione che le sue interessanti ricerche “si ostinano ad indulgere a idee […] che dimenticano che la fisica moderna ha nella teoria della relatività una delle spiegazioni più semplici”, e che quindi “tali posizioni sono evidentemente sbagliate ed arretrate”[18]. Per il generale atteggiamento persecutorio ed intollerante in proposito della comunità scientifica internazionale (considerata almeno a livello dei suoi “quadri dirigenti”, visto che si può ritenere fondatamente che la gran parte dei suoi componenti, ovvero la maggioranza dei ‘professori’, sia soltanto sotto l’effetto di quella “vergogna” di cui si parlava poc’anzi), si possono consultare ad esempio i tre volumi, fortemente autobiografici, del fisico-matematico Ruggero Maria Santilli (Documentation – Il Grande Grido, The Institut for Basic Research, Cambridge, Massachusetts, USA, 1984), o quelli del fisico bulgaro Stefan Marinov, The Thorny Way of Truth, East-West, Graz, nove volumi stampati in proprio dall’autore negli anni dal 1982 fino al 1991 (dal 1992, e fino alla morte, sopraggiunta per una tragica scelta nel 1997, l’autore curò la pubblicazione di una sua personale rivista, dal titolo estremamente significativo di Deutsche Physik).
Tutto ciò mostra evidentemente che ‘l’affare relatività’ coinvolge questioni non soltanto scientifiche ma anche ideologiche, o addirittura politiche, e la spiegazione di questo fenomeno può essere trovata nello studio del processo “storico” e delle “cause” di varia natura che portarono all’affermazione così indiscussa e reclamizzata del “personaggio” Albert Einstein e delle sue teorie[19].
Fatto sta che furono proprio i contrasti al tempo ancora vivi nei confronti della relatività la causa della non attribuzione del premio Nobel per la fisica relativo all’anno 1921, e quando si legge il nome di Einstein vicino a questa data nell’elenco degli insigniti dal riconoscimento bisognerebbe ricordare che i fautori di Einstein dovettero comunque accettare un’altra motivazione per il premio, rinunciando a veder citata la teoria della relatività, e che esso fu assegnato soltanto nell’anno successivo – con i fondi del 1921, che erano stati appunto inutilizzati – sicché nel 1922 ci furono in realtà due distinti premi Nobel per la fisica[20]!
Ecco quindi che appare giustamente fondato un particolare interesse per l’equazione in parola, e per la sua asserita connessione con la teoria della relatività, che saranno l’oggetto delle riflessioni esposte in questo libro. Ripetiamo che questa equazione, oltre ad essere stata tra le varie previsioni relativistiche quella forse meglio verificata dal punto di vista sperimentale, grazie anche al successivo sviluppo della fisica delle particelle, fu anche certamente uno degli elementi più influenti a favore dell’affermazione definitiva di una teoria la quale, se la formula in parola può dirsi appunto più che celebre, potrebbe essere fondatamente definita la più famosa al livello popolare delle teorie scientifiche del XX Secolo. Oggi si sente parlare anche a sproposito di relatività in films ed in romanzi, e la sua conoscenza viene assurta paradigmaticamente a ‘campione’ per la misura delle capacità intellettuali di una persona. Per comprendere allora meglio il senso di questo libro, e soprattutto agevolare il confronto tra le idee di Einstein e quelle esposte nel successivo capitolo 9, conviene dare qualche ragguaglio su quale sia il significato essenziale di questa teoria, e perché sia capace di suscitare così profondi amori od altrettanto profonde avversioni (ed il lettore avrà già capito che chi scrive queste pagine è sotto l’influenza di una di queste ultime!). Sentimenti questi la cui presenza in discussioni di questo genere riuscirà forse incomprensibile a chi, pensando si tratti comunque di scienza, sia indotto a credere che i suoi contenuti ed i suoi metodi oggettivi siano in grado di allontanare da essa la contaminazione proveniente da queste passioni dell’anima, inevitabilmente presenti invece in altro tipo di indagini, quali quelle storiche, filosofiche, sociologiche, etc.. Sarà allora risultato non secondario della fatica dell’autore se riuscirà a persuadere almeno che, come nell’ambito di tutte le attività dell’uomo, anche nel campo della scienza, e delle sue diatribe, si ritrovano pienamente dispiegate tutte le caratteristiche della nostra condizione di esseri umani, dalle più nobili alle più ripugnanti, e che l’evoluzione della scienza nella storia è stata più spesso influenzata da ‘pregiudizi’ di natura concettuale che non da obiettive indiscutibili osservazioni.
Allo scopo di permettere al lettore di superare quello che è un atteggiamento molto ingenuo e diffuso nei confronti delle proposte formulate dal pensiero scientifico, val forse la pena di sottolineare anche se in poche parole quale sia la vera natura della relazione tra il dominio della teoria e quello dell’esperimento, ammesso pure (ma non è sempre il caso, come avremo modo di vedere anche in seguito) che il secondo abbondi di quell’oggettività che dovrebbe allontanare dal campo della scienza i temuti effetti delle nostre passioni. Tale connessione è spiegata invece molto bene ad esempio da Stefan Goldberg[21], quando dice per esempio che “Einstein sapeva bene che c’è un numero infinito di teorie che soddisfano al criterio di non contraddire l’esperienza”, e più in particolare che “I postulati della teoria della relatività ristretta non sono soggetti né a diretta conferma né a refutazione per via di esperimenti. Questo è un punto sottile e importante che viene spesso mancato da coloro che parlano delle relazioni tra esperimenti e teoria”[22].
E purtroppo questo “punto sottile ed importante” viene mancato molto spesso anche dagli addetti ai lavori, quando di fronte a qualche contestazione meglio fondata di altre non sanno cosa replicare, se non un generico “ma se la teoria fosse sbagliata come mai riuscirebbero giuste tante sue previsioni che verifichiamo ogni giorno nel nostro laboratorio? Non può essere una coincidenza!”. Ovvero, come capita troppo spesso di sentire in discussioni di pura logica anche a livelli che dovrebbero essere elevati: A implica B, io vedo B tutti i giorni, e quindi A deve essere vera! A chi di noi non è mai capitata l’esperienza di assistere a certe discussioni nelle quali si contrapponeva a chi osava avanzare qualche perplessità nei confronti di teorie ufficialmente condivise argomenti del tipo: “ma la scienza ha inventato l’aereo, e la televisione”; e quante volte non è capitato allo scrivente di sentirsi replicare ad alcune sue faticosamente meditate obiezioni su certi aspetti fondazionali di teorie fisiche: “ma non vedi come la corrente ti arriva bene in casa ed accende le tue lampadine? Se tu avessi ragione come potrebbero funzionare così perfettamente le nostre centrali”?, come se saper far arrivare bene la luce in una casa fornisca allo scienziato maggiori garanzie di essere preso sul serio quando parla di cose che non ha mai visto, quali la costituzione interna di una stella, come era fatta la Terra qualche milione di anni fa, o, peggio, l’universo pochi istanti dopo il mitico big-bang (la situazione ricorda da vicino quella dello stregone di qualche tribù primitiva, che, sulla base del merito reale guadagnato in relazione alla capacità di far guarire alcuni mali con le erbe, si allarga fino al punto di voler far credere di essere capace di produrre la pioggia quando danza). E si vuole pietosamente sorvolare su accuse più ruvide ed efficaci del tipo: “ma allora vuoi proprio sputare sul piatto dove mangi?”, con riferimento alla funzione (ed allo stipendio!) di docente in una Facoltà scientifica dello scrivente.
In effetti, e soprattutto dopo la tanto decantata analisi epistemologica di Karl Popper, che viene dovunque citata anche a sproposito allo scopo di mettere in pace le coscienze, tutti sanno in realtà assai bene che un’asserzione di tipo generale sulla natura può ricevere tante conferme senza che si possa mai essere certi che essa non verrà in futuro confutata da qualche nuova osservazione; e questa banale analisi epistemologica si completa con l’affermazione che, quando questo capita, ovvero che una teoria sia contraddetta da qualche esperienza, la famosa oggettività del pensiero scientifico riconosce questa circostanza, e dichiara la teoria sconfitta. Ovvero, più sinteticamente, mille conferme non possono mai convalidare una teoria, mentre una sola confutazione la invalida: è in questa caratteristica metodologica che risiederebbe la peculiarità (e la superiorità?!) della scienza rispetto ad altre discipline.
Quanta ingenuità nel sottovalutare la forza di una teoria viva e condivisa, che eminenti personalità hanno sostenuto con impegno e passione, e sulla quale hanno edificato la propria autorevolezza: si può pensare davvero che esse ammettano il loro fallimento senza mettere in atto tutti gli artifici tecnici e dialettici, tutta l’influenza ‘politica’ di cui sono capaci? Del resto, un tale atteggiamento è considerato non privo di risvolti positivi, ed ammesso dallo stesso Popper, quando riconosce che: “L’atteggiamento dogmatico consistente nell’aderire a una teoria il più a lungo possibile, ha una notevole importanza. Senza questo non potremmo mai scoprire quale è l’effettivo rilievo di una teoria – ce ne libereremmo prima di poter constatare la sua efficacia; e, di conseguenza, nessuna teoria potrebbe svolgere il proprio ruolo, [che consiste] nel conferire al mondo un ordine”[23]. Peccato però per il concetto di ‘democrazia’ nella scienza che sia proprio questo il momento in cui la straordinaria influenza delle élites dirigenti possa giocare le sue carte migliori, vale a dire nella scelta delle teorie che verranno testate ed insegnate per decenni prima che ce se ne possa sbarazzare, e naturalmente allora con altre teorie sempre suggerite da quei gruppi che sono in grado di controllare case editrici, politica editoriale delle riviste, concessione dei finanziamenti ai diversi progetti di ricerca, riconoscimenti pubblici, avanzamenti di carriera, etc.. Per evitare fraintendimenti e facili falsificazioni di una siffatta teoria (che viene detta spesso con disprezzo “cospirativa”), va detto subito a questo proposito che non è necessario immaginare i gruppi a cui si fa riferimento come monoliticamente coerenti, provvisti al loro interno di uniformità d’opinioni e rigida disciplina. Quello che si può ritenere invece, almeno dall’esterno, è che alcune discussioni fondamentali, anche polemiche, e le conseguenti scelte, avvengono esclusivamente in certi ambiti, e che se si ha l’impressione di un coinvolgimento di più ampi strati di persone è soltanto perché ad un certo punto l’acquisizione del ‘consenso’ è comunque un elemento indispensabile per quella che dovrà alla fine risultare la teoria ‘vincente’ (e la teoria della relatività non sfugge a questo quadro concettuale neppure per quel che riguarda le fiere avversioni che suscitò anche in sede d’élites). Un’analisi di siffatti moderni meccanismi del ‘progresso’ della storia esula certamente dalle possibilità di questo libro, ma si può rinviare il lettore interessato ad avere almeno un sentore del punto di vista interpretativo che qui si segue al libro del presente autore America: una rotta templare – Un’ipotesi sul ruolo delle società segrete nelle origini della scienza moderna, dalla scoperta dell’America alla Rivoluzione copernicana, Ed. Della Lisca, Milano, 1995, ed agli affascinanti scritti di Maurizio Blondet: Gli “Adelphi della Dissoluzione – Strategie culturali del potere iniziatico, Ed. Ares, Milano, 1994; Complotti I, II, III, Ed. Il Minotauro, Milano, 1995. 1996, 1997.
Ed infine, se ci si interroga sulle possibilità realmente esistenti di abbandono di qualcuna delle teorie imperanti ai nostri giorni, non bisognerebbe sottovalutare ciò che è stato denunciato come un grave pericolo dal fisico-matematico Clifford A. Truesdell[24], secondo il quale se al tempo della polemica tra tolemaici e copernicani i primi avessero posseduto un computer la vittoria finale sarebbe senz’altro andata a loro, dal momento che questo strumento rende possibili continui riaggiustamenti ad hoc, nei quali nessuno è più capace di orientarsi, “che avrebbero potuto modificare il sistema di Tolomeo per renderlo perfettamente coerente con le osservazioni per altri 1000 anni”[25].
Un esperimento ‘falsificante’ può essere ridimensionato sotto una moltitudine di aspetti, fino a coinvolgere la competenza e la moralità degli autori: significa esattamente quello che hai affermato nei confronti della teoria, la hai compresa davvero bene?, hai eseguito tutte le misure a regola d’arte?, non hai trascurato qualche possibile fattore di disturbo? non avevi per caso bevuto un po’ troppo?, e così via di questo passo. La fisica accredita il ‘mito’ democratico della ripetibilità degli esperimenti, ma di solito questa ripetibilità resta solo ad un livello puramente potenziale, visto che poi di fatto nella storia le vere ‘ripetizioni’ si contano sulle dita di una mano. Eh sì, perché non è in effetti facile ripetere un esperimento, bisogna essere dotati di tutte le apparecchiature di cui sono dotati gli altri, e poi gli esperimenti costano (chi può mai davvero ripetere ad esempio qualcuno di quei complicatissimi e costosissimi esperimenti che si fanno oggi nei grandi laboratori, autentiche cattedrali di una nuova forma di religione?); per non dire poi del fatto più semplice ed importante, e cioè che ogni fisico ama piuttosto fare i propri esperimenti, che non ripetere quelli degli altri! La verità è che finché le cose tornano secondo le aspettative allora va tutto bene, ma quando questo non è il caso allora sono guai (e lo sperimentatore prudente sa a priori che non è proprio il caso di andarsi ad impegolare in qualche esperimento ‘falsificante’, tra i tanti più innocenti e remunerativi che potrebbe invece effettuare).
Ci sono naturalmente anche diverse altre strategie per ignorare il più a lungo possibile le eventuali confutazioni, la più semplice delle quali è di minimizzarle e di ignorarle (quando non addirittura di falsificarle[26]). Questo è quanto capitò ad esempio a Dayton C. Miller negli anni ’20, al termine di una serie di esperimenti che avrebbero secondo lui confutato il punto di vista dei relativisti: i suoi risultati furono ignorati fino al 1955, quando Shankland[27] mise a posto la coscienza di tutti (o di chi ne aveva ancora qualche rimasuglio) avanzando, in modo per la verità non del tutto convincente, un’ipotesi su una possibile sorgente di errore sistematico in cui Miller sarebbe potuto incorrere[28], ma i suoi esperimenti non vennero mai ripetuti né si può essere certi che lui sia davvero incorso negli errori sperimentali postumamente rimproveratigli.
La stessa identica sorte capita al nostro Quirino Majorana, fisico dell’Università di Bologna e zio del più famoso Ettore di cui parleremo diverse volte in questo libro. Questi infatti, al termine di diverse sue ricerche sperimentali che gli sembrano contraddire i principi della relatività, si trova costretto a scrivere: “Penso che i relativisti dovrebbero prendere in considerazione il mio punto di vista, decisamente contrario alla relatività di Einstein. Se il loro silenzio dovesse continuare, mentre io da anni manifesto il mio pensiero, ciò dovrebbe interpretarsi con l’impossibilità di dimostrare l’inesattezza dell’insieme delle mie considerazioni. Invece, la serena discussione, potrebbe chiarificare una questione, che tanta importanza avrebbe per il progresso della scienza” (“Considerazioni sulle forze nucleari”, Rend. Sci. Fis. Mat. e Nat., Acc. Naz. Lincei, Vol. XIII, 1952, p. 103)[29].
Tra le diverse strategie che possono mettersi in atto da ultime c’è poi anche quella di dichiarare quel singolo esperimento un'”eccezione”, o qualcosa in attesa di spiegazione, aggiustando la teoria con successive correzioni ad hoc che la rendono capace di assorbire i colpi più duri, in un gioco di eventualmente infiniti rimandi, che cessa di fatto soltanto quando la fatica di ricorrere a continui aggiustamenti diventa superiore al desiderio di sorreggere il quadro concettuale più gradito a coloro che hanno il potere di dettare gli indirizzi culturali della comunità scientifica. Si pensi ad esempio a ciò che accadde quando si scoprirono all’interno del nucleo atomico delle particelle con carica elettrica positiva (i cosiddetti protoni), che se ne stavano lì tutte attaccate insieme senza respingersi come avrebbero dovuto in base alle ordinarie leggi dell’elettricità (cariche di ugual segno si respingono, cariche di segno contrario si attraggono), ed altre ‘stranezze’. Si dichiarò forse confutata la Legge di Coulomb, od altre leggi fondamentali della fisica? Certamente no, si introdussero piuttosto nell’ambito della fisica atomica e nucleare non soltanto una ma ben due nuove forze necessarie per far quadrare i conti, le cosiddette interazione forte e forza nucleare debole, e gli esempi si potrebbero naturalmente moltiplicare a piacere.
Per coloro che avessero qualche perplessità sul fatto, del resto già accennato, che ristretti gruppi d’élite possano fino a tal punto condizionare le opinioni degli scienziati ‘normali’ – anche attraverso l’espediente di favorire il più possibile nei riconoscimenti scientifici la ‘specializzazione’, che rende di fatto la maggioranza dei ‘professionisti’ incapaci, e restii, ad inquadrare le questioni sotto il loro aspetto più generale, e li costringe a basarsi quindi sempre più su una ‘fede’ aprioristica nella validità del giudizio collettivo di una fantomatica ‘comunità scientifica’ – val forse la pena di rammentare la testimonianza del famoso epistemologo “anarchico” Paul K. Feyerabend, fisico di formazione ed autore di un molto controverso ed avversato Contro il metodo (Ed. Feltrinelli, 1984), relativa ad un altro momento importante della storia della fisica di questo Secolo, l’affermazione della cosiddetta interpretazione ortodossa della Meccanica Quantistica (di cui qualcosina si dirà nel capitolo 3): “In tali manifestazioni si udiva spesso la frase: ‘ma von Neumann ha dimostrato…’ e questo chiudeva la discussione in quanto allora non c’era quasi nessuno che conoscesse nei particolari la dimostrazione di von Neumann o che osasse contestarne l’autorità: la discussione scientifica fu decisa da una ‘voce’ autorevole. La storia della fisica e quella della matematica abbondano di esempi di questo genere […] i ‘contributi’degli scienziati alla costruzione della società vanno trattati con la più grande prudenza” (dal capitolo “Gli esperti sono pieni di pregiudizi”, in La scienza in una società libera, Ed. Feltrinelli, Milano, 1981, p. 136). Ciò che è buffo sottolineare, è che il teorema in parola è ‘sbagliato’, o meglio che è errato il suo utilizzo nella questione in discussione, dal momento che, come del resto tutti i teoremi matematici, presuppone per la propria dimostrazione delle ipotesi che non sono necessariamente verificate nella situazione reale che pretenderebbe viceversa di aver chiarito.
Per tornare al caso relatività, le seguenti citazioni (i corsivi sono aggiunti), scelte tra le innumerevoli possibili, possono dare al lettore qualche esempio “del mistico entusiasmo”[30] con il quale i partigiani di Einstein hanno dichiarato il loro ‘amore’ per le sue teorie – e sarebbe interessante stabilire se è l’amore il padre della sicurezza che abbiamo visto dianzi ostentata, o viceversa tanta sicurezza l’ispiratrice di un così fervente amore: “Einstein’s Theory of Relativity has advanced our ideas of the structure of the cosmos a step further. It is as if a wall which separated us from Truth has collapsed” (“Truth” ha iniziale maiuscola nel testo, anche se probabilmente non per “responsabilità” dell’autore, peraltro un illustre matematico, bensì per eccessivo entusiasmo del traduttore, tenuto conto che nell’originale tedesco il corrispondente “Wahrheit” è in maiuscolo di necessità, come si conviene a tutti i sostantivi nella lingua tedesca! (Hermann Weyl, Space – Time – Matter, Dover Pub.ns, New York, 1952); “Un oscuro impiegato dell’Ufficio dei brevetti di Berna vide la verità laddove scienziati autorevoli l’avevano sfiorata senza riconoscerla” (Tullio Regge, Appendice a Spazio, Tempo e Gravitazione di A. Eddington, già citato); mentre per quanto riguarda Einstein si possono trovare espressioni di questo genere: “genio prodigioso, che ogni campo della fisica ha rischiarato di nuova luce”, e porta impresse nel suo viso le tracce delle “aspre battaglie d’una vita intensa, d’una lotta gigantesca dell’intelletto verso visioni sempre più alte […] segni dell’Uomo superiore, del fisico sommo, del pensatore che scruta l’atomo e l’universo, tutto illuminando d’una luce nuova” (l’iniziale maiuscola è nell’originale!).
Val forse la pena di sottolineare come certo modo di fare divulgazione della scienza sta a confutare palesemente quel comodo ‘rifugio epistemologico’ che gli scienziati moderni si sono così ben costruito, a partire dalla tesi secondo la quale le teorie scientifiche non sono altro che dei “modelli” che vengono elaborati a fini di “utilità” negli esperimenti e nelle applicazioni, che non hanno quindi mai alcuna pretesa di “verità”. Se questa fosse di fatto l’impressione che la comunità scientifica lascia trapelare al suo esterno ci sarebbe poco da rimproverare, ma le cose non stanno così, e proprio perché gli scienziati verrebbero altrimenti a perdere parte del prestigio che viene loro conferito nelle società moderne basate sullo sviluppo tecnologico. E del resto non può essere che così, perché nonostante la copertura costituita dallo “scetticismo” filosofico, pure qualunque essere umano tende ad elevare a sistema le conclusioni alle quali perviene, ed a questa regola non sfuggono neanche la scienza e gli scienziati. Questi producono non soltanto risposte tecnologiche alle richieste di benessere materiale, ma anche ‘spiegazioni’ e teorie in risposta alle più profonde ed eterne esigenze umane di tipo spirituale, ed è difficile stabilire se il rispetto dal quale è circondata oggi la scienza si fondi più sulla prima funzione che non sulla seconda; anche se, ovviamente, la ‘filosofia scientifica’ trae la sua evidente incontrastata autorevolezza proprio dalla prima.
Ma facciamoci tutta la forza che ci vuole per cercare di superare certe assurdità ed incongruenze, ed andiamo avanti con la nostra analisi a stanare e ad affrontare finalmente il ‘mostro’ (ribadendo che i prossimi due capitoli, utili comunque per capire meglio il contenuto delle questioni, e scritti in modo il più semplice possibile, possono essere omessi almeno in prima lettura da chi desidera subito sapere come nacque davvero l’equazione più famosa del mondo…).
[1] E’ questo il nome del progetto al quale lavorarono negli Stati Uniti d’America gli scienziati che costruirono le prime bombe atomiche, ed al quale verrà dedicata qualche attenzione in un prossimo libro di questa stessa collana, dedicato all’improvvisa ed ancora oggi misteriosa scomparsa di un altro dei protagonisti della storia della fisica degli anni ’30, Ettore Majorana.
[2] Vedi ad esempio la ricostruzione che fa di questa vicenda l’obiettivo Marco Mamone Capria, “La crisi delle concezioni ordinarie di spazio e di tempo: la teoria della relatività”, in La costruzione dell’immagine scientifica del mondo – Mutamenti nella concezione dell’uomo e del cosmo dalla scoperta dell’America alla Meccanica quantistica, a cura dello stesso, con contributi di Jenner Barretto Bastos jr., Umberto Bartocci, Giuseppe Sermonti, Tito Tonietti, Napoli, 1998, in corso di pubblicazione a cura dell’Istituto Italiano per gli Studi Filosofici di Napoli. E peccato che l’autore citato imputi i tanti documentati ‘aggiustamenti’ in favore di Einstein ad una ‘fisiologica’ caratteristica dell’impresa scientifica, e non già alle circostanze del tutto eccezionali che si sono accompagnate all’affermazione della teoria della relatività.
[3] In una copertina della celebre rivista Time (1 Luglio 1946) è raffigurato un Einstein alle cui spalle si erge il caratteristico terribile fungo di un’esplosione atomica, e su di esso troneggia la famosa equazione oggetto della nostra storia!
[4] La lucidissima Viviane Forrester, nel suo inquietante L’orrore economico (Ponte alle Grazie Ed, Firenze, 1997) ci avverte a proposito dell’uso premeditato della vergogna da parte di chi tiene alla conservazione del proprio potere – di qualsiasi genere, anche quello di dettare mode culturali – che: “Niente indebolisce, niente paralizza come la vergogna. E’ un sentimento che altera sin dal profondo, lascia senza risorse, consente qualunque influenza dall’esterno, riduce chi la patisce a diventarne una preda: da qui l’interesse dei poteri a farvi ricorso e a imporla. E’ la vergogna che permette di fare leggi senza incontrare opposizione, e di trasgredirle senza temere proteste”.
[5] E se questo può essere invero qualche volta il caso, non può esserlo certo sempre, tenuto conto dell’illustre schiera degli anti-relativisti, almeno quelli dei primi tempi.
[6] In un articolo dal titolo “Fisica e Magia” apparso su Selezione dal Reader’s Digest; l’anno di pubblicazione è purtroppo ignoto al presente autore.
[7] Citazione dal bel libro di Herbert Dingle Science at the Crossroads (Martin Brian & O’Keefe, Londra, 1972, p. 122), il quale aggiunge che: “Si è sviluppata nella comunità scientifica la consuetudine di assumere che una teoria fisica è ben fondata quando la sua matematica è impeccabile: la questione relativa al se c’è nulla in natura corrispondente a questa impeccabile matematica non è considerata una questione”. Dingle rappresenta un altro dei numerosi casi che incontreremo in questo libro di uno studioso che ha trovato tutto facile finché era un convinto assertore delle teorie di Einstein, e che si è trovato invece “ignored, evaded, suppressed” quando si è reso conto che qualcosa non andava, ed ha cercato di comunicare queste sue impressioni (testo citato, p. 15).
[8] Da Parabole e catastrofi – Intervista su Matematica Scienza Filosofia, a cura di Giulio Giorello e Simona Marini, Il Saggiatore Ed., Milano, 1980, p. 27.
[9] Su tale particolare aspetto della questione avremo modo di tornare nel successivo capitolo 3. Per ora informiamo soltanto che in effetti la discussione sulla relatività fu inquinata anche da considerazioni di questo genere, e che una particolare ostilità alla teoria fu manifestata proprio in Germania nei difficili tempi del nazionalsocialismo. Sulla particolare situazione della fisica tedesca nel periodo del III Reich si veda l’interessantissimo testo di A.D. Beyerchen, Gli scienziati sotto Hitler – Politica e comunità dei fisici nel Terzo Reich, Ed. Zanichelli, Bologna, 1981. Va tenuto però presente che non furono solo dei fisici tedeschi ad opporsi alla teoria della relatività su basi (anche) ideologiche: la stessa cosa accadde ad esempio in Unione Sovietica, dove alla teoria fu contestata l’accusa di “idealismo” (vedi i ricordi del fisico russo Georges Gamow, uno dei primi teorizzatori della teoria del big-bang, in My World Line – An Informal Autobiography, Viking Press, New York, 1970).
[10] Una replica degli organizzatori ad una così esplicita intimidazione è stata pubblicata nel numero di Gennaio 1997 della stessa rivista, dopo aver ottenuto la promessa di un ‘confronto’ pubblico sui temi in discussione, confronto che naturalmente non è stato invece mai successivamente promosso.
[11] Dal Dialogo tra un filosofo, un giudeo e un cristiano .
[12] La citazione è tratta dall’Introduzione al libro di F. Böll ed altri, Storia dell’astrologia, Ed. Laterza, 1979.
[13] In realtà, il diritto all’espressione dei dubbi, di qualsiasi natura essi siano, dovrebbe essere assolutamente incondizionato, venendo meno in caso contrario la sua positività in ordine ad una possibile maturazione culturale di tutti. Il guaio è che oggi molti docenti parlano con ammirazione di personaggi come Socrate, e li additano ad esempio ai loro studenti, ma se fossero davvero chiamati a decidere se far bere o no la cicuta a qualcuno simile al grande filosofo greco non esiterebbero a rispondere di sì.
[14] E’ ben noto come alcune di queste ineliminabili conseguenze della relatività vanno in qualche modo a contrastare il principio di causalità, nel senso che le cause dei fenomeni dovrebbero essere sempre a lume di naso antecedenti gli effetti, mentre la teoria di Einstein non riconosce come assoluto l’ordine temporale degli eventi. In questo caso la relatività si salva, per usare un termine calcistico, in corner, dal momento che, si dice, anche se queste stranezze si possono invero verificare, rimane comunque impossibile per chi conosce il mio futuro informarmi di esso, dal momento che nessun segnale (almeno quelli “recanti informazione”) può viaggiare più veloce della velocità della luce, e quindi non si riuscirebbe a fare in tempo ad avvisarmi prima che l’evento futuro si sia già realizzato. Naturalmente, segnali più veloci della luce con contenuto di informazione potrebbero causare non piccoli problemi alla teoria, e di tale possibilità diremo presto qualcosa.
[15] Vedi ad esempio Waldyr A. Rodrigues e Jian-Yu Lu, “On the Existence of Undistorted Progressive Waves of Arbitrary Speeds in Nature”, Foundations of Physics, 27, 3, 1997, nel quale si dice apertamente che “The existence of superluminal electromagnetic waves implies the breakdown of the principle of relativity” (p. 473) – ma naturalmente i relativisti hanno già escogitato qualche trovata per dichiarare che tali esperimenti non sono in realtà contraddittori con le loro concezioni.
[16] A proposito ad esempio dell’uso della matematica in biologia, e dei tentativi di rendere comprensibile il fenomeno dell’emergenza dell’ordine dal caos. vedi del presente autore: “Le origini dell’ordine – Su un libro di S.A. Kauffman”, Rivista di Biologia, 87, 1994, pp. 387-394.
[17] Il noto studioso d’economia Geminello Alvi, di cui riparleremo ancora in altri Capitoli, ha espresso l’opinione che la matematica in economia non sia a volte altro che un espediente retorico per giustificare le scelte del potere.
[18] Val forse la pena di sottolineare che l'”idoneità” di cui si parla era un semplice attestato che venne concesso ad oltre il 90% dei docenti non ancora inseriti in ruolo ma con responsabilità da diversi anni in corsi di insegnamento universitario.
[19] Vedi ad esempio Alan J. Friedman e Carol C. Donley, Einstein as Myth and Muse, Cambridge University Press, 1985; ed inoltre, tanto per restare sul tema della fisica del primo ‘900, anche L.S. Feuer, Einstein e la sua generazione – Nascita e sviluppo di teorie scientifiche, Ed. Il Mulino, Bologna, 1990.
[20] Il secondo andò a Niels Bohr, un altro dei fisici che gli avvenimenti successivi vedranno poi coinvolti nel progetto Manhattan alla costruzione della prima bomba atomica.
[21] Nel suo bel libro già citato, p. 105.
[22] Anche se questa opinione è troppo estrema, in quanto, come vedremo, la scelta dei postulati di qualunque teoria poggia sempre comunque su un certo quadro sperimentale (reale o presunto), distrutto il quale viene meno anche la plausibilità della scelta. Per quanto riguarda la teoria della relatività in particolare, potrebbe essere possibile, come diremo nel prossimo capitolo, osservare fenomeni ‘non simmetrici’ in elettromagnetismo, e quindi falsificare direttamente uno dei presupposti fondamentali della teoria.
[23] Citazione da Imre Lakatos, “La falsificazione e la metodologia dei programmi di ricerca scientifici”, apparso in Critica e crescita della conoscenza, di autori vari, Ed. Feltrinelli, Milano, 1984, p. 254. L’articolo di Lakatos è particolarmente interessante per quanto riguarda l’argomento qui oggetto di discussione.
[24] In “Il calcolatore: rovina della scienza e minaccia per il genere umano”, compreso in una serie di saggi di autori vari apparsi con il titolo La Nuova Ragione (Ed. Il Mulino, Bologna, 1980).
[25] In effetti l’osservazione di Truesdell è molto più fondata di quel che non possa oggi apparire ai meno esperti, dal momento che la differenza tra i due sistemi, almeno da un punto di vista osservativo, è molto più esile di quel che non si possa a prima vista supporre (vedi ad esempio del presente autore: “Alle origini della costruzione dell’immagine scientifica del mondo: un problema storiografico”, in La costruzione dell’immagine scientifica del mondo, già citato).
[26] Quello delle vere e proprie falsificazioni operate dagli scienziati in difesa delle loro teorie è un terreno minato sul quale non vogliamo qui scendere in particolari. Rimandiamo il lettore interessato ai due libri di Federico Di Trocchio: Le bugie della scienza – Perché e come gli scienziati imbrogliano (Ed. Mondadori, Milano, 1993), Il genio incompreso – Uomini e idee che la scienza non ha capito (Ed. Mondadori, Milano, 1997), o a quelli di William Broad e Nicholas Wade: Betrayers of the Truth – Fraud and Deceit in Science (Oxford University Press, 1982), e Alexander Kohn: False Prophets – Fraud and Error in Science and Medicine (Basil Blackwell, Oxford & New York, 1986, Revised Edition 1988).
[27] R.S. Shankland ed altri, “New Analyisis of the Interferometer Observations of Dayton C. Miller”, Reviews of Modern Physics, Vol. 27, N. 2, 1955.
[28] Cenni almeno alla prima parte di questa vicenda, difficile da affrontare per i partigiani dell’oggettività nella scienza, si possono trovare nel libro di Emile Borel, scritto nel 1926, Space and Time, Dover Pub., New York, 1960, pp. 185 e segg.. Si veda anche il già citato articolo di I. Lakatos (p. 242). E si potrebbe aggiungere la circostanza poco nota che in realtà lo stesso Michelson, autore di uno degli esperimenti storicamente più utilizzati a favore della teoria della relatività, e che esamineremo nel prossimo capitolo, si mise a verificare con altri collaboratori le osservazioni di Miller negli anni 1928-29, ottenendo addirittura, secondo sue prime anticipazioni, il doppio dell’effetto riportato da quello sperimentatore, senza mai pubblicare però alla fine i dati sperimentali da lui ottenuti (vedi Roberto A. Monti, “Theory of Relativity: A Critical Analysis”, Physics Essays, Vol. 9, N. 2, 1996, p. 251).
[29] Altrove (stessa rivista, Vol, XIV, 1953, p. 740) Q. Majorana si lamenta che “gli organi competenti, per ingiustificate ragioni, non abbiano mai voluto conceder[gli] adeguati mezzi di lavoro sperimentale”, ma probabilmente tra queste “ragioni” ci doveva anche essere quella di non essere il richiedente un ortodosso einsteiniano!
[30] Usa quest’espressione nel 1923 Carlo Somigliana, un notevole nostro fisico-matematico, aggiungendo che di tale “illimitata fede aprioristica […] non abbiamo mai avuto esempio nel campo scientifico. E ciò fa pensare che esista alla radice di questo movimento d’idee qualche fatto anormale, che turba la serena visione delle cose”. Aveva espresso la stessa sensazione nel 1921 Giovanni Boccardi, un astronomo torinese, secondo il quale “Dall’accanimento (è la parola) che alcuni mettono a sostenere la nuova teoria si deve dire che vincoli più forti di quelli scientifici leghino lo Einstein ai suoi partigiani. Così si spiega il can-can che oggi stordisce tutto il mondo”. Le citazioni sono tratte dall’assai interessante: Roberto Maiocchi, Einstein in Italia – La scienza e la filosofia italiane di fronte alla teoria della relatività (Ed. Franco Angeli, Milano, 1985), il quale si schiera però subito in favore dell’ortodossia aggiungendo che era facile “dimostrare l’inconsistenza di questa tesi”, citando una replica (1921) di un altro famoso matematico, Guido Fubini, al Boccardi: “Io non so quali interessi possono accomunare gli astronomi anglo-sassoni, Hilbert, il massimo matematico vivente, e, per non citare altri, il Klein, sottoscrittore della famigerata lettera degli scienziati tedeschi ai neutrali, mentre Einstein [..] è tutt’altro che un nazionalista… “, dimostrando con queste parole di non essere in possesso di molta ‘fantasia’ storica (oltre a quanto abbiamo detto precedentemente sullo stato della fisica tedesca al termine della Grande Guerra).
Continua….
Nella fotografia Niels Bohr e Albert Einstein (dicembre 1925)
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