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SULLA NATURA DEL MALE – Collaboratori del Male

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Estratto

È curioso come, malgrado l’approccio epidermico che la Arendt adotta quando si tratta di denunciare con forza i crimini dell’imputato Eichmann e i crimini collettivi della Germania nazista, ella riesca a scrollarsi di dosso, completamente, questa strana ritrosia quando denuncia il crimine collaborazionistico perpetrato da diversi agenti nelle comunità ebraiche. Come ho già sottolineato il suo intento critico è lodevole, ma mal gestito anche rispetto al discorso paratestuale, stilistico e letterario, ed è fuori luogo nel contesto più generale del processo Eichmann. È fuori luogo non perché non si potesse parlare di collaborazionismo in quel frangente, ma perché il rischio, attualizzatosi in parte, era quello di mondare Eichmann dalle sue responsabilità per caricarle su altre spalle. Su spalle che avevano già dovuto portare il peso tremendo di un nazismo tedesco che non ha mai realmente pagato tutto il suo debito con la Storia e con la comunità di esseri umani morali.

Ci sono ovviamente diverse prospettive di analisi del crimine collaborazionistico, laddove non importa se il collaboratore del Male che è stato il nazismo fosse un tedesco, un ebreo o persino un governo straniero incapace di interventismo per bloccare il diffondersi della cancrena. Quando il collaborazionismo si attualizza come azione criminale, si fa colpa e crimine oggettivo degli individui o delle società che lo hanno attualizzato, dovrebbe essere punito con le leggi deputate a regolare la tipologia di crimine che è stato commesso. Quando il collaborazionismo si fa invece mero degrado morale, anche imposto sugli individui per atto di coercizione, soverchieria e intollerabile sopruso (come accadeva quando i capi delle comunità ebree venivano costretti a compilare le liste degli ebrei da deportare, e magari portavano avanti quel compito anche anteponendo la salvezza dei propri cari a quella di individui terzi), diventa molto più difficile puntare il dito. Cosa dà garanzia alla Arendt che, nelle stesse circostanze, lei stessa non si sarebbe comportata in quel modo? Nulla, naturalmente! Per certi versi, il comportamento di quei capi religiosi non è diverso dagli artisti ebrei che cantavano e ballavano, perché coscienti che fin quando sarebbero stati impiegati nel cabaret destinato a divertire i gerarchi nazisti, avrebbero potuto rimandare la loro deportazione; e non è diverso dal comportamento di ogni individuo che in un contesto socioculturale malato, come era quello tedesco dell’età hitleriana, si rassegna ad adottare la legge della giungla, perniciosamente evoluzionistica: adattarsi per sopravvivere, anteponendo la salvezza personale se necessario. In dati momenti, insomma, tutti noi possiamo diventare vittime e complici del Male[1]. Il dolore e la paura, inoltre, possono diventare strumenti che servono questa forzata alleanza, che si nutre quindi anche delle nostre debolezze caratteriali (vedi i casi Dönitz e Keitel nella Germania nazista[2]). È verosimile dunque, che l’immenso dolore provato da Hitler dopo la morte della madre, testimoniato dal suo medico ebreo, possa avere segnato in maniera definitiva il suo percorso di anima abbandonata che si sentiva in rotta con il mondo, elemento estraneo allo stesso. Così come è plausibile che tanti leader ebrei abbiano agito in maniera non-morale perché vittime della paura: non possiamo essere tutti eroi e anche questa è una conseguenza logica del carattere “strumentale” del Male che si estrinseca in un universo materiale. Visti da questa prospettiva dolore e paura si fanno accessori della lotta contro il Male, che sono anche peccato, cioè assumono un ruolo funzionale alle sue necessità. Allo stesso modo, peccato, ed elemento funzionale ai disegni malefici, si fa il servilismo[3], dovunque e comunque si manifesti. Il servilismo è una evidenza plastica dell’avvenuta vittoria del Male, una conseguenza capace di titillare davvero il suo orgoglio di Messia-ormai-manifesto. D’altro canto, in certi momenti, ribellarsi al Male può essere controproducente, specie se non si è attrezzati a farlo, come purtroppo sperimentarono gli abitanti di Lidice, uno dei due villaggi della Cecoslovacchia rasi al suolo dai nazisti dopo l’assassinio del “boia” Heydrich[4].

Il collaborazionismo dei leader religiosi ebrei, di tutti gli individui con un regime malato, è una colpa? Certamente sì, ma se si limita ad essere degrado morale, ovvero una possibilità di peccato, la sua espiazione sarà inevitabilmente faccenda privata di ciascuna anima, proprio come le colpe di Eichmann erano solo sue, non di Ben-Gurion o del Mossad che lo hanno arrestato, non della Corte che lo ha giudicato, non delle deficienze legali e procedurali, non delle vittime di cui è stato aguzzino. Ribadire questo concetto con forza e con chiarezza è dovere imprescindibile di chi vuole, a qualsiasi titolo, discutere di questi temi drammatici con una parvenza di serietà e di capacità di raziocinio!

[1] Cfr. 1.5

[2] Cfr. 7.6

[3] Cfr. 7.6

[4] Cfr. 5.7