Ma il Giappone sta cambiando pelle?
di Michele Marsonet. A pochi giorni dal 70° anniversario del primo olocausto nucleare della storia, il Giappone dà l’impressione di essere una nazione pervasa da nette contraddizioni. La bomba di Hiroshima fu infatti sganciata il 6 agosto 1945, l’ordigno di Nagasaki tre giorni dopo, il 9 agosto.
A seguito della sconfitta, che fu senza dubbio apocalittica (ancor più di quella inflitta alla Germania nazista), gli americani imposero al Paese una costituzione da loro redatta e d’impronta totalmente pacifista. All’Impero del Sol Levante venne concesso di mantenere soltanto una simbolica forza di “autodifesa”, con la proibizione assoluta di inviare le proprie forze armate all’estero.
L’imperatore perse le prerogative divine che, secondo la tradizione, gli spettavano in quanto discendente diretto della dea Amaterasu. Rimase nel suo palazzo con la funzione simbolica di rappresentare l’unità nazionale perché questo, in fondo, serviva agli Alleati per stroncare ogni velleità revanscista.
La natura divina dell’imperatore oggi può far sorridere gli occidentali, ma occorre rammentare che i giapponesi di allora la prendevano tremendamente sul serio. Se ne accorsero ben presto i soldati americani e inglesi quando, in un primo tempo, furono travolti da esercito, marina e aviazione imperiali. E poi, con il mutare delle sorti del conflitto, quando si trovarono di fronte a una resistenza fanatica per recuperare o conquistare isole minuscole ma strategicamente importanti come Tarawa, Iwo Jima e Okinawa.
Ancor oggi ci s’interroga circa la reale necessità di usare l’arma atomica, e il dibattito è tuttora aperto. Non bisogna però scordare che la conquista del territorio metropolitano giapponese avrebbe causato un numero di morti elevatissimo sia militari sia civili. La resa non rientrava nelle ipotesi contemplate dalla mentalità nipponica, secondo la quale non si difendeva un Paese qualunque, bensì la nazione che gli dei avevano scelto per governare il mondo.
La storia, tuttavia, prosegue il suo corso inesorabile. Bastarono pochi anni e alcuni avvenimenti epocali – per esempio la vittoria dei comunisti in Cina – per far capire agli Stati Uniti che i vecchi nemici potevano diventare alleati preziosi. Ecco quindi la “forza di autodifesa” trasformarsi in esercito di tutto rispetto, potente e tecnologicamente avanzato. Restava comunque la proibizione di impiegarlo al di fuori dei confini nazionali.
L’attuale premier Shinzo Abe ha sfatato anche quest’ultimo tabù, facendo approvare a larga maggioranza dal parlamento una serie di leggi che prevedono non solo l’ulteriore rafforzamento delle forze armate, ma pure la possibilità di inviarle all’estero in supporto agli alleati oppure autonomamente qualora il Giappone si sentisse minacciato in modo diretto da potenze straniere.
Inutile dire che è l’espansionismo cinese ad aver innescato questo processo, al quale finora credevano soltanto i nostalgici dei vecchi fasti bellici imperiali. La domanda da porre, a questo punto, è una sola. La maggioranza della popolazione è con Abe oppure no? La risposta non è facile.
Stando ai risultati delle elezioni politiche l’appoggio popolare parrebbe garantito. La minaccia della Cina, che pure ha i suoi problemi con i prolungati crolli delle borse valori, è molto sentita. E forte è anche il risentimento per essere stati scavalcati dalla RPC nella classifica delle potenze economiche mondiali. Proprio a Pechino, infatti, Tokyo ha ceduto il secondo posto (che prima era suo) passando al terzo.
Ma l’analisi, per l’appunto, non è così semplice. In realtà anche in Giappone il pacifismo ha preso piede. Vanta in parlamento un buon numero di seguaci, e assai frequenti sono le manifestazioni di piazza contro Abe e il suo partito. I giovani nipponici, inoltre, non assomigliano molto ai loro avi. Il culto dell’imperatore è ristretto a pochi circoli ed è arduo trovare qualcuno che creda ancora di appartenere a una nazione prescelta dagli dei.
Tuttavia è chiaro che il riarmo nipponico e la possibilità di proiettarsi oltre confine cambia il quadro militare e geopolitico in Estremo Oriente, anche perché stiamo parlando di un Paese avanzatissimo sul piano economico e tecnologico. Il futuro diventa incerto e, com’è ovvio, non dipende solo dal Giappone. Probabilmente si vedrà presto se il partito comunista cinese riuscirà davvero a frenare la caduta delle borse oppure no. E se un’eventuale crisi di grandi proporzioni consentirà alla leadership di Pechino la continuazione dell’attuale espansionismo militare.