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Cina tra confucianesimo e marxismo

di Michele Marsonet.

C’è una domanda che, oggi, può apparire persino fantascientifica. Il quesito è il seguente: “e se Xi Jinping facesse la fine di Gorbaciov?”. Mi si risponderà subito che allo stato dei fatti non esistono segnali in tale direzione. L’attuale Repubblica Popolare e la defunta Unione Sovietica nel suo ultimo stadio, infatti, non sembrano neppur lontanamente paragonabili. Eppure non è proprio così. In un recente discorso il leader cinese ha pronunciato delle affermazioni un po’ inquietanti e subito riprese dai media internazionali. In sostanza ha detto che la lotta contro la corruzione e per la riforma dello Stato andrà avanti senza tener conto di alcun ostacolo.
Si tratta, come appunto dicevo prima, di frasi che destano non soltanto sorpresa, ma anche una certa inquietudine. Testimoniano inoltre che la situazione nel colosso asiatico non è affatto tranquilla come il regime si sforza di far credere a tutti, amici e avversari. E’ sufficiente andare con una certa frequenza nella Repubblica Popolare per percepire subito una distanza notevole tra il partito da un lato e gran parte della popolazione dall’altro. E’ vero che il PCC conta milioni di iscritti piazzati ovunque, e che essi garantiscono un controllo pervasivo e capillare della vita politica e sociale. Ma per quanto numerosi gli iscritti siano, costituiscono pur sempre una piccola frazione del miliardo e oltre 300 milioni di cittadini cinesi. Una goccia nel mare, anche se tale goccia detiene tutto il potere senza residui di sorta. Il problema è capire quanto sia davvero capillare il succitato controllo.
Si potrebbe credere, per esempio, che la proibizione assoluta di Facebook e degli altri social network occidentali tagli fuori i cittadini da ogni canale di comunicazione. Non è vero. Molti hanno scoperto come aggirare l’ostacolo dal punto di vista tecnico, per cui possiedono un normale profilo FB che usano facendo, ovviamente, più attenzione di noi. E’ evidente che con una massa tale di individui l’equivalente della nostra polizia postale non riesce a controllare tutto. E pure nelle università la distanza tra partito (spesso definito “mafia” dai non iscritti) e popolazione si può percepire stando attenti. Il marxismo-leninismo nella sua versione maoista è tuttora la dottrina di Stato ufficiale. Tuttavia gli studiosi che la coltivano in quelli che corrispondono ai nostri dipartimenti di filosofia sono piuttosto isolati dal resto del corpo accademico. Tanto che, quando si chiede di incontrarli, capita di essere guardati in modo strano.
Il partito ha già dichiarato più volte di voler conservare tutto il potere. Memore di quanto accadde nell’ex Urss, Xi Jinping si comporta esattamente come i suoi predecessori a partire da Deng Xiaoping. Massima libertà – per alcuni – di accumulare patrimoni enormi. Negozi di gran lusso e le principali griffe occidentali (italiane incluse) nei centri delle metropoli. Ferrari e Lamborghini che circolano in numero sorprendente, e via di questo passo. Tutto, però, sotto lo stretto controllo di un partito che si autodefinisce ancora comunista senza che se ne comprenda bene la ragione. Ecco quindi l’espansionismo in politica estera per tenere tranquilli i generali, anche se parecchi sono stati imprigionati per corruzione. La RPC fa la voce grossa con i Paesi vicini per rinfocolare un nazionalismo che, per la verità, non sembra molto diffuso.
Certo Xi appare più scaltro di Gorbaciov, e assai attento a non seguirne i passi. Il problema è capire fino a quando potrà durare una situazione così strana, con l’immensa nazione marxista-leninista-maoista nella teoria e capitalista nella pratica. Giacché appare sempre più evidente che al partito interessa soprattutto conservare il monopolio assoluto del potere. L’equilibrio regge, probabilmente, grazie al successo economico, pur se si intravedono segni di rallentamento. Qualora dovesse verificarsi una crisi nel settore economico-finanziario, è ragionevole prevedere che il PCC avrà difficoltà enormi a mantenere il quadro attuale.
Da qualche tempo si parla, inoltre, del progetto di ripristinare lo “Stato etico” in Cina. Tale progetto non è in fondo molto distante dalla forma istituzionale caldeggiata da Hobbes e da Hegel, nella quale l’istituzione statale rappresenta il fine ultimo cui devono tendere tutte le azioni dei singoli individui. Gli indizi che conducono in tale direzione sono più d’uno. Per esempio i governanti di Pechino si sono accorti che l’obbligo del figlio unico sta conducendo il Paese a un decremento demografico superiore alle attese. Mentre in precedenza la campagna che imponeva tale obbligo intendeva porre un limite drastico alla sovrappopolazione, ora si è capito che essa ha prodotto l’effetto contrario. Il rischio, ben noto in Italia e in altri Paesi occidentali, è che nei prossimi anni gli anziani prevalgano largamente sui giovani, così causando il collasso del sistema previdenziale e pensionistico. In ambito cinese, tuttavia, non ci si è persi in chiacchiere. Il partito ha invitato i giovani a sposarsi e le coppie a generare più figli. Finora la reazione della popolazione è tutt’altro che entusiasta, e resta da capire se obbedirà davvero all’ordine calato dall’alto.
Altro indizio importante è il giro di vite imposto alle attività religiose. Xi Jinping e l’intero gruppo dirigente hanno chiarito che tutte le confessioni religiose devono subito adeguarsi agli obiettivi della società socialista. Si parla apertamente di “sinizzazione della religione”, di modo che quest’ultima non ostacoli gli obiettivi di cui sopra. Naturalmente tale direttiva è problematica, soprattutto per quanto riguarda le numerose comunità islamiche. A preoccupare non sono soltanto gli Uiguri dello Xinjiang, che da sempre resistono ai tentativi di sinizzazione della loro area. Di recente si sono mossi anche gli Hui, una comunità musulmana moderata che non aveva mai causato problemi.

Terzo indizio è il tentativo sempre più massiccio di controllare in modo capillare stampa e mass media ponendo barriere ai contatti con l’estero. Ed è entrato nel mirino delle autorità pure il settore dei videogiochi, che in Cina come altrove rappresenta un business enorme. La motivazione è che i videogiochi corrompono la gioventù, allontanandola dai già citati obiettivi della società socialista. Tutto ciò può sembrare naturale ove si rammenti che, nella Repubblica Popolare, il marxismo-leninismo, con l’aggiunta del pensiero di Mao Zedong, è tuttora l’ideologia ufficiale e unica. Tale fatto però non basta a spiegare le mosse più recenti del partito comunista. Occorre infatti rammentare che da tempo è in atto la riabilitazione del confucianesimo, che venne in pratica bandito nell’era maoista. Confucio sosteneva che il primo ambito sociale in cui gli esseri umani apprendono l’autenticità è la famiglia, nella quale il rispetto dei genitori è essenziale. Il secondo ambito è la società civile, nella quale si apprendono e si applicano la giustizia e l’altruismo. Ma più importante di tutti è il terzo livello, quello dello Stato. In quel contesto i cittadini sono tenuti alla lealtà e alla fedeltà: al sovrano ai tempi di Confucio, al partito ora. Ovviamente il sovrano – o il partito – deve governare con saggezza astenendosi dalla corruzione. In sostanza lo Stato è una sorta di “grande famiglia”, nella quale i cittadini rispettano i diritti e i doveri della loro condizione sociale attenendosi a un codice fisso e prestabilito che regola i rapporti tra centro e periferia. Il problema è che il sovrano-imperatore era in possesso di un “mandato ricevuto dal cielo”, il quale l’autorizzava a governare. Nella Cina di oggi il mandato del partito comunista non può essere celeste e, a ben guardare, l’unico appiglio esistente è ancora la Lunga Marcia e la vittoria conseguita nel 1949 contro i nazionalisti di Chiang Kai-shek.
Se a tutto questo si aggiunge che milioni di giovani cinesi si recano ogni anno a studiare nelle università occidentali, venendo così in contatto diretto con la libertà di stampa e di credenze religiose, è facile prevedere che per il gruppo dirigente capeggiato da Xi Jinping non sarà facile mantenere sotto controllo la situazione. Ecco quindi che la rivalutazione di Confucio appare come lo strumento principale che il partito comunista utilizza per evitare che la Cina diventi una “società aperta” nel senso popperiano del termine. Ed è davvero curioso che ciò accada. Ai tempi di Mao il confucianesimo veniva considerato il bastione della conservazione, utilizzato dalle classi dirigenti per mantenere lo status quo. Ora la posizione si è rovesciata. Ciò che al partito comunista interessa in primo luogo è mantenere l’ordine o, per dirla con Xi Jinping, “l’armonia sociale” (altro termine tipicamente confuciano).
Dunque si deve a tutti i costi impedire che il virus della democrazia, presente a Hong Kong, si espanda al resto dell’immenso territorio. I “ribelli” di Hong Kong, i gruppi di dissidenti che continuano con grande fatica ad opporsi nell’ambito metropolitano, gli indipendentisti uiguri e tibetani, non devono nutrire alcuna illusione. La morsa verrà mantenuta e, se possibile, addirittura rafforzata tramite il capillare controllo dei media e dei social network. La contraddizione tra la struttura rigidamente comunista dello Stato e l’organizzazione liberista dell’economia si risolve (in apparenza) mantenendo saldamente le redini dell’economia nelle mani del partito. E quest’ultimo non perde occasione per esaltare i successi ottenuti negli ultimi decenni, che hanno portato il Paese al ruolo di superpotenza globale. Mao aveva in più occasioni calpestato il passato, per esempio nella fase convulsa della Rivoluzione Culturale. Adesso si esalta invece l’importanza dell’eredità confuciana, che si tramanda da millenni e insegna a rispettare sempre le persone e gli eventi che ci hanno preceduti.
Xi parla di “felicità” da donare ai cittadini e di prosperità crescente da conseguire sotto la guida illuminata e attenta del partito. Rispolvera in sostanza concetti e aspettative che paiono assai più confuciani che marxisti, del resto in linea con la riscoperta di Confucio e gli inviti costanti a studiare il suo pensiero che da parecchio tempo hanno corso nel Paese asiatico. Il fatto è che questa svolta è del tutto in linea con l’immagine del Paese che la leadership di Pechino vuole costruire e propagandare, anche all’estero. Felicità, prosperità e progresso hanno bisogno, per essere conseguiti, di certezza, stabilità e ordine. La visione confuciana, che predica la sottomissione dell’individuo al corpo sociale nel suo insieme, è in pratica perfetta a questo fine. E il “socialismo” citato in continuazione mostra, per l’appunto, i tratti del grande filosofo nazionale piuttosto che quelli di Marx, Engels e Lenin. Chi si illudeva che la RPC evolvesse verso qualche forma di democrazia liberale è servito una volta per tutte. Il modello occidentale – e Xi l’ha fatto capire chiaramente – a Pechino è considerato fonte di caos, instabilità e disordine. Fukuyama viene smentito una volta di più. Si tratta ora di vedere se, dopo quasi settant’anni di dominio assoluto, la compattezza (almeno apparente) del partito riuscirà a controllare le tensioni sociali e politiche latenti che attraversano l’immenso territorio e la sterminata popolazione che lo abita.