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Cresce l’influenza turca nel Caucaso

di Michele Marsonet.

Recep Tayyip Erdogan vuole presentarsi come erede legittimo di Mustafa Kemal Ataturk, il fondatore della moderna Turchia. Con l’eccezione, ovviamente, del laicismo che il “padre dei turchi” introdusse e che Erdogan invece osteggia. Eppure, agli inizi della sua carriera politica, si era presentato come un moderato attento all’insegnamento di Ataturk e disposto a continuare, pur in modo diverso, la sua strategia di laicizzazione dello Stato.

Gli ultimi avvenimenti, con l’appoggio all’annessione azera del Nagorno-Karabakh abitato dagli armeni, e l’invasione del territorio siriano per neutralizzare i curdi, ci riporta alla vera natura del progetto di Erdogan, che presenta un mix di islamismo e nazionalismo turco. Nonostante le apparenze, è quest’ultimo a prevalere, giacché Erdogan non rinuncia al sogno di riportare in vita – pur adattandolo al tempo presente – l’impero ottomano.

Sembrerebbe un’utopia priva di fondamento ma, a ben guardare, vi sono elementi che possono far pensare alla sua realizzabilità. Occorre solo tener conto che le lingue di ceppo turco, e le culture ad esse correlate, non sono diffuse soltanto nel territorio nazionale, ma anche in molte aree tra cui l’Azerbaijan, il Turkmenistan, il Kazakistan e altre repubbliche ex sovietiche dell’Asia centrale (con l’ovvia esclusione dell’Armenia). Parlano una lingua turca anche gli uiguri dello Xinjiang cinese, popolazione musulmana le cui tendenze indipendentiste vengono represse dal governo di Pechino.

Erdogan sfrutta questa situazione promuovendo l’espansione culturale turca tra le popolazioni turcofone stanziate al di fuori dei confini nazionali. Notevole anche l’opera di proselitismo tra gli emigrati nelle nazioni europee, in primo luogo la Germania, e in Paesi come l’Albania che, anche dopo l’indipendenza, ha conservato un forte legame con Ankara.

Erdogan, insomma, ha in mente la “grande Turchia” identificata con l’impero ottomano e, non a caso, in un recente discorso ha detto: “siamo una grande famiglia di trecento milioni di persone dall’Adriatico alla Grande Muraglia cinese”. Si tratta di una nuova versione del “panturanismo”, movimento culturale e politico che pinta alla fusione di tutte le popolazioni di ceppo turco.

Questo progetto è tuttavia supportato, più che da un’economia in grave crisi, da una potenza militare rimasta intatta anche dopo l’epurazione di alti ufficiali seguita al fallito golpe del 2016. Ed è la base dell’attuale diffidenza turca nei confronti dell’Occidente e della Nato, alleanza di cui la Turchia fa parte ma con un profilo assai più defilato rispetto al recente passato.

La Turchia è indubbiamente una potenza regionale, ma per trasformarla in potenza globale ci vuole ben altro. Erdogan in fondo lo sa, e infatti cerca di bilanciare l’allentamento delle relazioni con l’Occidente rafforzando i rapporti con Russia, Iran e Cina.

Inoltre il leader turco ha 69 anni, e per ora non sono comparse nel suo partito AKP (Giustizia e Sviluppo) personalità altrettanto carismatiche in grado di portare avanti le sue ambizioni globali. Senza scordare che in Turchia c’è la stessa dicotomia città/campagne rintracciabile in altri Paesi come Polonia e Ungheria. Le campagne anatoliche votano Erdogan in blocco, mentre le grandi città come Istanbul e Izmir (Smirne) sono in maggioranza laiche e ostili. E questo è un fatto che ostacola il suo progetto neo-ottomano.