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Hong Kong al capolinea

di Michele Marsonet.

Chi, come il sottoscritto, ha avuto la fortuna di visitare più volte Hong Kong su invito di alcune università locali, prova una grande tristezza nel vederla totalmente “normalizzata” dal regime cinese. Era, prima, una città “speciale”, uno dei non tanti luoghi al mondo in cui si prova spesso la sensazione di non capire bene dove ci si trova. Intendo dire che la stragrande maggioranza della popolazione è indubbiamente cinese, anche se la lingua parlata è il cantonese e non il mandarino. Tuttavia cultura e comportamenti erano occidentali nel senso pieno del termine, e gli abitanti non sembravano affatto disposti ad abbandonarli. Il Regno Unito la restituì alla Cina nel 1997 e, grazie agli accordi stipulati con l’allora premier Deng Xiaoping, avrebbe dovuto mantenere il suo status speciale (un Paese, due sistemi) fino al 2047. Xi Jinping ha tuttavia stracciato l’accordo quando gli abitanti, a partire dal 2019, iniziarono a scendere nelle strade poiché capirono che Pechino voleva, per l’appunto, “normalizzarla”, imponendo il partito unico (quello comunista) e facendone una città cinese come tutte le altre. L’influenza britannica nei cento anni di presenza è penetrata in profondità nel tessuto della società locale. La presenza inglese, com’è accaduto a Gibilterra, Malta e in altri luoghi, ha modificato la visione del mondo degli abitanti che, infatti, continuano a percepire il colosso statale di cui ormai fanno parte come un’entità “straniera”. Pechino ha per un po’ di tempo tollerato la situazione. Dopo tutto Hong Kong è rimasta una celebre piazza finanziaria e bancaria, che per di più ha una moneta propria convertibile nei mercati (a differenza di quella della Repubblica Popolare). 

Vi si trovano più di 100 consolati e gli investitori stranieri abbondavano anche grazie al sistema economico aperto. Nella ex colonia britannica veniva commemorata ogni anno la strage di Piazza Tienanmen del 1989, mentre in Cina manifestazioni simili sono assolutamente proibite. I mass media mantenevano una relativa libertà, ed esisteva pure il Google di Hong Kong, per anni l’unico canale attraverso cui si potevano ricevere notizie in tempo reale su quanto accadeva nel grande Paese asiatico, aggirando la rigidissima censura. Poi il Partito comunista si è stancato di questa parziale autonomia avviando una campagna di “rieducazione patriottica” volta, da un lato, a rimarcare la piena appartenenza della città alla Repubblica Popolare e, dall’altro, a introdurre nelle scuole locali il marxismo-leninismo quale materia educativa di base. Nonostante le sue piccole dimensioni, la città ha opposto una resistenza che ha avuto un certo successo. Ma non è tutto. A Hong Kong si tenevano elezioni generali relativamente libere, ragion per cui l’opposizione democratica era ben rappresentata nel Parlamento locale. Ora Pechino ha deciso che solo esponenti “patriottici” (cioè allineati) possono essere eletti, e ogni opposizione è sparita. In questi giorni Xi Jinping, per dimostrare al mondo che Pechino ha il pieno controllo, ha finalmente interrotto il suo isolamento anti-covid e ha visitato la città, accolto da scolari debitamente istruiti e sventolanti bandierine cinesi. Chissà se nella ex colonia verranno ancora conservate le cabine telefoniche rosse e gli autobus a due piani, che ai numerosi turisti davano l’impressione di essere a Londra.