Si accentua la repressione cinese nel Tibet

di Michele Marsonet.
Quando si parla della spietata repressione delle minoranze etniche da parte della Repubblica Popolare Cinese, vengono subito in mente gli uiguri musulmani e turcofoni dello Xinjiang. Una regione formalmente autonoma, ma in realtà piena di “campi di rieducazione”, i celebri Laogai nei quali i detenuti sono in pratica condannati ai lavori forzati.
Non si tratta tuttavia di un caso isolato. Pure gli abitanti della Mongolia interna, altra regione formalmente autonoma inclusa nel territorio della Cina comunista, hanno recentemente inscenato dimostrazioni per chiedere un’autonomia reale e, soprattutto, la fine del processo di “sinizzazione forzata” che il Partito sta conducendo da decenni.
Si tende però a scordare che la vicenda più clamorosa è un’altra, e riguarda il grande territorio del Tibet, anch’esso formalmente definito “regione autonoma”.
Il Tibet venne invaso dall’Esercito Popolare di Liberazione (così vengono definite le forze armate cinesi) nel mese di ottobre del 1950 e ben presto occupato. A quel tempo l’invasione destò notevole sorpresa tra gli osservatori internazionali. Mao Zedong aveva infatti appena vinto la guerra civile con i nazionalisti di Chiang Kai-shek, poi rifugiatisi a Formosa (l’odierna Taiwan), e la nascita della Repubblica Popolare data al 1949.
Eppure, appena un anno dopo, le truppe di Mao condussero in porto l’operazione occupando l’intero territorio. Vi fu una resistenza accanita della popolazione, guidata dai monaci buddhisti. Tuttavia la sproporzione delle forze era troppo grande e l’ordine comunista venne presto imposto a un Paese non abitato da cinesi.
L’attività di guerriglia si protrasse per anni e, con piccoli focolai, è tuttora viva. Ma non si devono dimenticare le numerose rivolte anti-cinesi, tra cui quella molto importante del 1959. Il numero ufficiale delle vittime tibetane non è mai stato divulgato, tuttavia stime attendibili lo fissano a 65mila morti e 70mila deportati.
Nel frattempo Pechino ha proseguito senza soste la succitata “sinizzazione” del territorio, costruendo strade e ferrovie per renderlo più controllabile.
Non solo. Ha promosso la massiccia immigrazione degli Han, l’etnia cinese dominante, in pratica rendendo i tibetani minoranza nella loro stessa patria. Il Paese è in pratica diventato un grande “hub turistico” visitato annualmente da centinaia di migliaia di cittadini cinesi.
A sorpresa, e senza annunciarlo prima (per evidenti problemi di sicurezza), Xi Jinping si è recato nei giorni scorsi in Tibet per festeggiare i settant’anni dell’invasione, da Pechino definita – con umorismo un po’ macabro – “pacifica occupazione”. Il leader cinese ha visitato Lhasa e il “Potala”, dove risiedeva il Dalai Lama, ora in esilio in India. Xi ha inoltre rimarcato che Il Tibet “deve adeguarsi alla società socialista”.
Mette conto notare, a questo punto, che dopo l’invasione Pechino aveva firmato un accordo, detto “dei 17 punti”, in cui s’impegnava a concedere al Tibet una sorta di autogoverno rispettando al contempo il ruolo del Dalai Lama.
L’accordo fu tuttavia clamorosamente disatteso e la vicenda ricorda da vicino quella di Hong Kong, dove i cinesi si erano impegnati a rispettare l’autonomia della ex colonia britannica fino al 2047, salvo poi sottoporre la città a una repressione brutale.
Fanno impressione le foto del leader abbigliato nel tipico stile maoista salutare i tibetani, a detta degli osservatori scesi in strada in numero assai esiguo. E fa pure impressione la noncuranza con cui Xi reagisce alle accuse di mancato rispetto dei diritti umani. Ma, si sa, i sogni imperiali sono sempre costosi.
