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A Hong Kong la Cina reprime pure i libri per l’infanzia

di Michele Marsonet.

La repressione cinese a Hong Kong non ha ormai più limiti. Dopo aver chiuso anche “Apple Daily”, l’ultimo quotidiano libero rimasto nella ex colonia britannica, le forze di sicurezza hanno effettuato una retata di maestri elementari, specializzati in logopedia.
Cinque maestri sono comparsi in manette e incappucciati davanti alle telecamere e poi spediti in prigione. Quale la loro colpa? Aver letto insieme ai bambini delle loro classi un libro a fumetti che secondo Steve Li, responsabile del Dipartimento della Sicurezza Nazionale di Hong Kong, incitava alla sedizione.
Nel suddetto libro vengono presentate delle pecore bianche che manifestano in strada. Esse vengono assalite da lupi grigi che stroncano con la violenza la loro dimostrazione, disperdendole e inducendole a fuggire.
La metafora riguardante le dimostrazioni di piazza degli ultimi anni è evidente, e la repressione di Pechino acquista a questo punto un chiaro significato orwelliano.
Per Pechino ciò che è avvenuto in questi anni nella città-isola non può essere rappresentato neanche sul piano metaforico poiché, facendolo, si educano i bambini ad esaltare manifestazioni sediziose e in aperto contrasto con i successi economici che la Repubblica Popolare ha ottenuto negli ultimi decenni.
Non solo. Poiché i lupi appaiono chiaramente sporchi a fronte del biancore immacolato delle pecore, Steve Li giudica che, così facendo, i bimbi vengano indotti a pensare che la Cina ha una responsabilità diretta nella diffusione del Covid a Hong Kong.

Si rammenterà infatti che, ignorando le richieste degli abitanti, il governo locale rifiutò di chiudere la frontiera con la Cina continentale o, almeno, di limitare l’afflusso dei cittadini cinesi nel piccolo territorio della ex colonia inglese.
Naturalmente i maestri arrestati sono accusati di aver violato la ormai famosa legge sulla sicurezza nazionale che autorizza le forze dell’ordina a stroncare qualsiasi manifestazione di dissenso – anche la più piccola – contro la Repubblica Popolare Cinese e il regime che la governa, secondo un rigido monopartitismo, dall’ormai lontano 1949.
Come sempre, si ignora quale sarà la sorte dei cinque maestri arrestati. Anche se, in base ai numerosissimi precedenti, è ovvio che essi dovranno scontare nelle prigioni cinesi o – ancor peggio – nei famosi “campi di rieducazione politica”, un lungo periodo di detenzione.
Saranno liberati solo dopo aver ammesso le loro “colpe” e aver pronunciato pubblicamente un “auto da fé”, analogo a quelli in vigore ai tempi dell’Inquisizione spagnola.
L’episodio è importante da più punti di vista. Innanzitutto perché, per la prima volta, vengono colpite le scuole elementari e i maestri che vi lavorano. Che è poi una tattica classica di tutti i grandi regimi dittatoriali, attenti ad inculcare nelle menti dei bambini idee che esaltano la repressione vista dagli autocrati quale miglior mezzo per inquadrare le giovani generazioni.
In secondo luogo, la vicenda dimostra che l’autoritarismo assoluto imposto al Paese da Xi Jinping e dal suo gruppo dirigente non trova più ostacoli sul proprio cammino. Se si manifestano, essi vengono spazzati via senza alcuna pietà.