La fine (annunciata) dell’autonomia di Hong Kong
di Michele Marsonet.
Com’era prevedibile la Repubblica Popolare Cinese sta ponendo fine all’autonomia di Hong Kong che pure, secondo il trattato firmato da Pechino e Londra nel 1997, doveva avere una durata di cinquant’anni (fino al 2047). In base al principio “una Cina, due sistemi”, formulato ai tempi di Deng Xiaoping, l’ex colonia britannica avrebbe avuto il diritto di conservare una magistratura indipendente secondo l’ordinamento giuridico della “Common Law” inglese.
Dopo le imponenti manifestazioni per la democrazia che hanno riempito strade e piazze della città-isola, e che hanno attirato l’attenzione del mondo intero, qualcuno si illudeva che la Repubblica Popolare non sfidasse l’opinione pubblica internazionale, e in particolare quella dell’Occidente.
Ma così non è stato, e il Partito Comunista Cinese ha deciso che l’eccezionalità di Hong Kong deve finire, costi quel che costi. Durante l’ultimo Comitato Permanente dell’Assemblea Nazionale del Popolo, tenutosi a Pechino il mese scorso, ha infatti creato una “Agenzia per la sicurezza nazionale” nel territorio della ex colonia. Non è difficile prevedere che tale Agenzia sarà la “longa manus” di Pechino in loco.
La notizia è stata divulgata dalla “Xinhua”, che ha pure pubblicato la bozza del provvedimento. Non hanno quindi avuto alcun esito le proteste ufficiali della maggior parte dei Paesi occidentali – Italia esclusa – che hanno svolto in questo senso un enorme lavoro diplomatico rimasto privo di riscontri. Né ha sortito effetto la minaccia americana di togliere a Hong Kong lo status di territorio privilegiato dal punto di vista economico e commerciale.
La città è dunque destinata a diventare una delle tante metropoli cinesi, magari pure in declino a causa della concorrenza di nuovi centri più graditi al governo centrale come, per esempio, Shenzhen? Così parrebbe. La Cina, che sta diventando sempre più nazionalista sotto la dirigenza di Xi Jinping, è fermamente intenzionata a reprimere qualsiasi velleità autonomista – o addirittura indipendentista – tenendo d’occhio i fermenti nel Tibet, nello Xinjiang popolato dagli uiguri musulmani e altrove.
In una simile situazione Pechino non considera più valido il principio “una Cina, due sistemi” che, pure, aveva dato molti risultati positivi a partire dall’epoca di Deng Xiaoping. Non solo. Anche Taiwan adesso è più che mai nel mirino del Partito Comunista, che considera l’isola una semplice parte della Cina fino a negare la validità delle elezioni che vi si tengono, considerate infatti “regionali”.
Circa Taiwan la Repubblica Popolare non può spingersi oltre certi limiti poiché quella nazione gode della protezione militare Usa. Ma il caso di Hong Kong è diverso, dal momento che nel 1997 il Regno Unito ha restituito ufficialmente il territorio a Pechino. Non vi sono quindi possibilità di un intervento militare occidentale, e questo il Partito Comunista lo sa benissimo.
D’altro canto è difficile che le manifestazioni per la democrazia si fermino, dal momento che non si sono arrestate neppure per la pandemia dovuta al coronavirus. Sono tanti i cittadini di Hong Kong che pensano di non avere, a questo punto, altra alternativa se non scendere in piazza, nonostante la violenta repressione della polizia locale che ormai obbedisce agli ordini di Pechino.
Paradossalmente, si potrebbe verificare un altro massacro simile a Tienanmen senza alcuna possibilità d’intervento da parte dell’Occidente. Proprio a questo serve la suddetta Agenzia per la sicurezza nazionale, a tenere la situazione sotto controllo evitando che esploda. Il destino di Hong Kong, ormai, si decide unicamente a Pechino, e la Repubblica Popolare può così perseguire senza ostacoli la sua politica di potenza.