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Taiwan e le due Cine

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di Michele Marsonet.

Se si visita il vecchio centro storico di Pechino percorrendo gli “hutong”, stretti e bellissimi vicoli rimasti intatti dopo lo scempio edilizio degli ultimi decenni, è possibile trovare molti negozietti – per lo più gestiti da giovani – che vendono oggetti vintage. Raramente originali, in maggioranza riproduzioni fedeli a uso e consumo dei turisti.
Molto frequenti quaderni scolastici, tabacchiere e scatole di fiammiferi con soldati, operai e contadini vestiti secondo la foggia maoista che gridano – con aria ispirata – “Riprendiamoci Taiwan!”. In inglese, naturalmente, poiché la stragrande maggioranza dei turisti il cinese non lo capisce.
Tuttavia le ultime elezioni a Taiwan hanno segnato una nettissima vittoria del partito indipendentista capeggiato dalla attuale presidente Tsai Ing-wen, prima donna a ricoprire tale incarico. Tsai, che era al potere dal 2016, è riuscita ad ampliare parecchio i consensi superando il 57% dei voti, mentre il suo partito, il “Democratic Progressive Party” (DPP), ha conquistato la maggioranza assoluta dei seggi in parlamento.
La vittoria degli indipendentisti è importante non solo per il destino dell’isola che dista appena 180 km dalle coste cinesi, ma anche perché è stata conseguita a dispetto delle pesanti pressioni del governo di Pechino. Xi Jinping ha cercato in ogni modo di appoggiare invece il partito filo-cinese che favorisce rapporti più stretti con la Repubblica Popolare. Quest’ultima considera Taiwan soltanto una “provincia ribelle”, ricevendo in cambio dalla stragrande maggioranza dei taiwanesi il netto rifiuto a ogni proposta di unificazione.
Guardando la carta geografica vien fatto di pensare che Pechino ha ragione. Taiwan, oppure Formosa come si diceva un tempo, è in un’isola di appena 36.000 chilometri quadrati con 24 milioni scarsi di abitanti. Non solo. E’ collocata a brevissima distanza dalla costa del continente nel Mar Cinese Meridionale. La sua denominazione ufficiale è “Repubblica di Cina”, e si trova a un tiro di schioppo dalla Repubblica Popolare che, di abitanti, ne conta un miliardo e 350 milioni.
Eppure la storia ha fatto sì che vi siano, per l’appunto, due Cine. Quella grande, che ama definirsi “comunista” nonostante all’estero tale aggettivo susciti perplessità, è diventata col tempo la seconda superpotenza mondiale, in grado di contendere agli Stati Uniti il primato in molti campi. La seconda, enormemente più piccola, ha continuato la sua vita indipendente diventando una delle celebri “tigri asiatiche” come Corea del Sud, Singapore, Malesia e Vietnam.
Il fatto è che Taiwan dipende in modo totale, per quanto riguarda la sua sicurezza, dallo scudo americano. In tempi ormai lontani gli Usa consentirono (a malincuore) che il seggio permanente nel Consiglio di Sicurezza dell’ONU venisse tolto a Taipei e attribuito a Pechino, chiarendo però che l’impegno americano a difendere l’isola in qualsiasi circostanza restava immutato. E così è stato. Si sono verificati scontri armati nel sottile stretto che divide i due Paesi, ma la RPC non ha mai superato la soglia critica limitandosi a proclamare con costanza la necessità della riunificazione.
L’isola divenne, nel 1949, il rifugio dei nazionalisti del Kuomintang, comandati da Chiang Kai-shek e sconfitti nella guerra civile dai comunisti di Mao. Che la Repubblica Popolare pratichi una politica espansionistica è ormai un fatto riconosciuto da tutti. Agli occhi della sua leadership Taiwan – come Hong Kong – è una “ferita aperta” da risanare ad ogni costo. I due Stati commerciano intensamente e si scambiano pure turisti in numero crescente. Però La maggioranza dei taiwanesi è favorevole alla normalizzazione dei rapporti e, al contempo, assolutamente contraria all’unificazione. La popolazione è molto occidentalizzata, e la “Repubblica di Cina” è parte integrante (e fedele) del sistema di alleanze Usa in Estremo Oriente.
Al di là della cronaca corrente è comunque opportuno porre una domanda di fondo: è proprio vero che l’isola fa parte della Cina a tutti gli effetti? A prima vista parrebbe di sì, ma la realtà è più complessa di quanto sembra. Già, perché la popolazione autoctona dell’isola non è affatto cinese. Gli “aborigeni” di Taiwan, ancora presenti per quanto in numero ridotto, parlano una lingua del gruppo austronesiano, e ciò significa che sono imparentati con malesi, filippini e indonesiani. La grande colonizzazione cinese avvenne soltanto nel XVII secolo. Mette pure conto notare che la cultura e la lingua autoctone, represse per secoli, vengono ora rivalutate dal governo di Taipei proprio in funzione anti-cinese.
Il quadro è, insomma, piuttosto complicato. Pare ovvio pensare che i leader di Pechino non si fermeranno certo di fronte a considerazioni di questo tipo. Continueranno a coltivare il progetto della “Grande Cina” alla quale, a loro avviso, appartiene anche il Tibet (che cinese non è affatto). E neppure Hanoi dorme sonni tranquilli, giacché il Vietnam è stato per molto tempo la provincia meridionale dell’ex Impero Celeste.
D’altro canto è evidente che la piccola Taiwan ha bisogno di garanzie internazionali – soprattutto militari – per conservare la propria indipendenza politica e culturale. Forse il Giappone può fornirne qualcuna, ma ancora una volta il compito primario spetta agli Stati Uniti. Da questo punto di vista, dopo la politica estera incerta praticata da Barack Obama, Donald Trump ha fornito ampie garanzie al riguardo, ribadendo che gli Stati Uniti intendono continuare a svolgere nel Pacifico il ruolo di superpotenza che detengono sin dalla fine del secondo conflitto mondiale.