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TANA DI VOLPE – Edizione 2019. Presentazione, antefatto, capitolo 1

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Premessa alla nuova edizione

Col tempo mi sono accorta che nella nostra epoca i libri possono essere cosa viva, che si modella nel tempo, che si adatta al tempo. Quando nel 2003 uscì la prima edizione di Tana di Volpe, mi capitò di ricevere molte email di lettori e addetti ai lavori che rimarcavano l’ottima tenuta della trama gialla in quella prima avventura di don Osvaldo da Silva Ochoa. Tendenzialmente concordavo con loro: da amante dei gialli ad enigma, cioè dei gialli che implicano la creazione di un meccanismo inscardinabile che possa giustificare l’esistenza della storia raccontata (senza tale elemento, infatti, l’whodunit diventa un noir, ovvero una storia nelle vene di un qualunque scrittore, che dunque non abbisogna di expertise tecnico), mi accorgevo che il plot reggeva ad ogni approfondito scrutinio, era senz’altro molto buono. Persino ricco.

Malgrado ciò, confesso che ho sempre desiderato rivedere il romanzo, ritoccarlo qui e là, con la maggiore coscienza scritturale che regala il tempo trascorso, l’esperienza. Insomma, ho sempre desiderato ripubblicarlo, magari con una copertina diversa. Sedici anni dopo sono finalmente riuscita a realizzare questo sogno e con la nuova edizione ne ho appunto approfittato per dare una rinfrescata al testo, adottando parametri di editing più moderno, al passo con i tempi.

Rispetto a quella prima pubblicazione, c’é solo una parte che è rimasta completamente uguale a se stessa: la lettera di denuncia civile con la quale corredai il lavoro originale. Per inciso quella stessa lettera che in virtù dei contenuti portò un noto politico italiano a rimangiarsi la parola e a non scrivere la presentazione alla storia.

Fermo restando che io non amo le marchette ai libri, specialmente quando riguardano i miei lavori (e infatti da quel momento non ne ho mai chiesta una), val la pena precisare che tale personaggio è adesso, da tempo, passato ad altra vita e la sua eredità politica non è ricordata tra quelle che hanno saputo ispirare. Il mirabile don Osvaldo da Silva Ochoa è invece sempre qui, fresco come una rosa appena colta in giardino e saggio come prima, più di prima.

Dopo quasi due decadi restano sempre reali e presenti anche tanti dei problemi civili e amministrativi nel sostrato culturale di riferimento, l’Ogliastra meravigliosa, anche se qualcosa è sicuramente cambiato e la speranza è che molto altro possa mutare negli anni che verranno.

Completa il presente lavoro una short-story con don Osvaldo titolata Sirbone (2006), che pure fu accolta molto bene dagli addetti ai lavori.

La cura, quasi heideggeriana, della nuova edizione mi ha inoltre fatto capire che nel futuro prossimo, oltre a coltivare i miei interessi filosofici, che fortunatamente accompagnano l’età matura, dovrei fare nuovamente posto alla scrittura più leggera, soprattutto dovrei fare posto alle avventure del bibliotecario villarosano. Scrivere le sue storie, infatti, fa bene all’anima, aiuta l’immaginazione e la capacità di investigazione, entrambe doni molto preziosi. Anche per questo motivo, ritengo che il secondo libro dedicato a don Osvaldo da Silva Ochoa uscirà presto, molto presto.

Rina Brundu, maggio 2019, in Dublino. 

 

TANA DI VOLPE

  PERSONAGGI PRINCIPALI

Asdrubale Vinci Maresciallo de carabinieri
Massimilano Sartori Appuntato scelto
Don Osvaldo da Silva Ochoa Neo bibliotecario di Villarosa
Palmira Palmas da Silva Moglie di don Osvaldo
Alfredo Pintus Amico dei Da Silva
Dottor Paolo Saverio Martini Albergatore
Elisabetta Martini Moglie di Paolo Martini
Marchesa Lodovica Prizzi Bonomi Una nobildonna
Attilio Pagnin Rappresentante di gioielli
Giorgio Pirasi Giovane manager
Isabella Pirasi Moglie di Giorgio
Gabriella Alberoni Responsabile P.R.
Stefania e Paola Cameriere del Tana di Volpe
Carlo Campus Portiere tuttofare

 

 antefatto

                               ‘Dupin!’ I said, completely unnerved;

‘this hair is most unusual

this is no human hair.’

The murders in the Rue Morgue, Edgar Allan Poe

Sarebbe sembrato morto, se non fosse stato per uno strano movimento del labbro superiore che si sollevava e si abbassava all’unisono col respiro. Il vecchio, invece, si era addormentato sul divano accanto al camino, con il braccio sinistro rosato e rugoso che penzolava fin quasi a sfiorare il pavimento. Il soggiorno era immerso nella penombra e dalla finestra, attraverso le tendine ricamate, penetrava un’eburnea luce gelida. Il fuoco era quasi spento, il bagliore delle braci andava scemando, mentre i ceppi di legno parevano un mucchio di arti mozzati e malamente bruciati. Scosso da un brivido di freddo il vecchio tossì e si svegliò. Gli occhi grigi vagarono per la stanza. Cominciò a borbottare. Sputò. Si sollevò lentamente e si sedette posando i piedi prima sul pavimento freddo e poi sulle pagine di un giornale di enigmistica che gli era scivolato dal petto prima di addormentarsi. La carta, calda, gli diede il tempo di cercare le scarpe da passeggio nere. Anche i pantaloni e il gilè di fustagno erano neri, in contrasto con la camicia candida. Dal panciotto sbucava la catenella di un cipollone d’argento che l’omino afferrò in modo meccanico per controllare l’ora: le quattro del pomeriggio.

Si alzò sbuffando, andò verso il camino e si diede da fare per riaccendere il fuoco. Si sentiva stanco, più stanco del solito, ma non c’era da meravigliarsi considerate le diatribe dei giorni precedenti e il lavoro che ancora lo attendeva in biblioteca. Lo squillo del campanello lo infastidì e sperò, chiunque fosse il seccatore, di non essere trattenuto a lungo. Quando andò ad aprire una folata di vento gelido lo investì e gli percorse il corpo come una scarica di corrente. Tossì.

«Buongiorno, don Osvaldo». Il nuovo venuto salutò, entrò in casa e si richiuse la porta alle spalle. «Credo proprio che stia per arrivare» disse, passando nel soggiorno.

«Lo credo anch’io» annuì il vecchio. «Ma tu non dovresti essere al lavoro al Tana di Volpe, Alfredo?» indagò guardando l’ospite di sottecchi.

«Magari, ma con ieri ho finito. Credo che apriranno domani, domenica».

«Ci sarà una qualche cerimonia di inaugurazione?».

«Non credo. Non si tratta di una vera e propria apertura ufficiale» lo informò l’altro. I lavori di ampliamento riprenderanno in primavera. La signora Martini mi ha promesso che sarò uno dei primi operai a essere richiamato in servizio» concluse con gli occhi lucidi.

«Sono sicuro che sarà così» lo consolò il vecchio, che non poté impedirsi di posare lo sguardo su quel viso tirato, per poi spostarlo subito in un’altra direzione, quasi vinto da una sensazione di scoramento.

«È in gamba la signora Martini. Lo è sempre stata» riprese l’ospite con convinzione.

Uno di questi giorni quella bicocca in cui vive gli cadrà in testa, pensò invece don Osvaldo, mordendosi le labbra per non esplodere, disinteressandosi alle chiacchiere e riportando alla mente l’ultima discussione avuta con Alfredo.

Nevicherà di certo e il tetto verrà giù a pezzi ancora prima dell’arrivo dell’inverno, ma… a samunae sa conca a su bestiolu, si’n ce perdede sa lissia[1], rifletté con amarezza.

A che prò rinvangare quel litigio?, si chiese ancora il vecchio. Del resto, aveva trascorso una vita a battagliare con Alfredo Pintus, il vicino di casa, ma non era mai servito a nulla. Non era servito, tanto tempo prima, tentare di convincerlo a non abbandonare l’università, non era servito metterlo in guardia contro l’eccessivo entusiasmo con cui si lanciava in controversie sindacali che non gli appartenevano, non era servito provare a farlo riflettere sull’improvvisa decisione di emigrare in Germania. Il vecchio ricordò che non aveva smesso di stargli vicino neppure dopo il suo ritorno da fallito, o nel periodo in cui era stato arrestato, insieme a diversi compagni di lotta, con l’accusa di avere appiccato un incendio in alcuni capannoni dello stabilimento petrolchimico di Ottana dove lavorava. Lo aveva aiutato pure dopo la morte dei genitori quando, a quasi cinquant’anni, Alfredo era rimasto solo. Tuttavia, anche in quella particolare circostanza don Osvaldo non era riuscito a impedire che quell’uomo, per certi versi ancora bambino, si attaccasse alla bottiglia nel tentativo di dimenticare.

Però è cambiato, parede torrau a nasce[2], rifletté ancora il vecchio, osservando con più attenzione il volto stanco dell’altro.

Lavorare al Tana di Volpe gli è giovato. Beve di meno… se solo la smettesse anche con il fumo.

«Alfredo, per carità metti via quella sigaretta» sibilò seccato, prima di tossire di nuovo, questa volta di proposito.

«Mi scusi, don Osvaldo».

«Soe colau a bie commente istada[3]» mormorò l’ospite. «Ieri ho incontrato la signora Palmira. Mi ha detto che lei non si è sentito bene nei giorni scorsi. Mi spiace di non essere venuto a trovarla prima e di non essere stato presente all’inaugurazione della biblioteca ma, proprio in vista dell’apertura dell’hotel, io e Carlo abbiamo dovuto lavorare ogni giorno fino a tardi. Credo che lui sia impegnato a trasportare legna anche quest’oggi».

«Non c’è nulla di cui dispiacersi. Mia moglie ha il vizio di esagerare. Ho avuto solo un po’ di tosse, forse ho sbraitato troppo col sindaco. Comunque, non mi è sembrata una ragione sufficiente perché il dottore ne approfittasse per avvelenarmi con le sue pozioni».

Alfredo sorrise.

«Adesso ti prego di scusarmi» continuò don Osvaldo. «Visto che il mio secondino non è ancora rientrato, colgo l’occasione per scappare in biblioteca. Ho ancora molto da fare».

«Si figuri. Anzi, le do un passaggio. Ne approfitto per dare un’occhiata ai lavori. In ogni caso devo andare a controllare la vasca dell’orto prima che inizi a nevicare».

«L’hai fatta vedere?».

«Cosa?».

«La 600. L’hai fatta vedere?».

«E per quale ragione?» chiese Alfredo quasi offeso. «Solo perché qualche volta ci siamo dovuti fermare a spingere? Le assicuro, di macchine così non ne fanno più».

«Vorrei crederti» ribatté un po’ contrariato il vecchio, che intanto aveva indossato berretto e cappotto e si era diretto verso l’uscita. All’altro non restò che seguirlo, prima in giardino e poi fuori dal cancello.

1.

Sabato pomeriggio, 25 novembre

La marchesa Giulia Elena Lodovica Prizzi Bonomi chiuse con una mandata decisa il portone di legno di Villa Aster. Come d’abitudine, si assicurò che fosse davvero sbarrato premendovi contro i palmi delle mani e pressando col corpo imponente, quindi si strinse nella giacca e sbuffò. Era sempre stata convinta che certe cose occorresse sbrigarle e controllarle di persona perché riuscissero. Anche per questo non aveva esitato a spedire in vacanza Elisa, la cameriera, sin dalla sera prima. Scese i pochi scalini di marmo e s’incamminò verso Vittorio che l’attendeva con la portiera posteriore della Volvo aperta. L’autista salutò con un inchino appena accennato e aspettò che la donna si accomodasse, senza far cenno di volerla aiutare. Lei si attardò un poco, sollevò il viso e contemplò la cappa grigia e grave di nuvole sature. Di nuovo si strinse nel giaccone e finalmente si adagiò sul sedile.

Vittorio guidò fino a oltre l’imbocco del cancello automatico che dava sulla strada principale, frenò e scese, lasciando l’automobile col motore acceso. Si assicurò che il dispositivo elettronico fosse scattato, quindi risalì in macchina e ripartì.

In realtà l’uomo non aveva neppure guardato la serratura, però sapeva che quel gesto avrebbe evitato fastidiose querimonie durante il tragitto e nel tempo a venire. Il traffico di viale Merello e delle altre stradine interne li bloccò per circa tre quarti d’ora. Le automobili, i camion, i pullman, i ragazzi in motorino sbucavano da ogni lato e si rincorrevano in una baraonda di clacson e maleducazione. Passando da via Roma, videro alla loro destra il porto, ripulito ed elegante, con la passeggiata trapuntata dalle palme che svettavano su uno sfondo glauco e melanconico. Le navi della Tirrenia in partenza ostruivano lo specchio dell’acqua, solcato da diverse imbarcazioni che si perdevano all’orizzonte, fino a sfiorare il cielo.

Finalmente furono sulla provinciale, in viaggio verso la montagna.

Non appena l’autista aveva richiuso la portiera, Lodovica si era ritrovata sola e al centro del vuoto che si era creato attorno e dentro di lei. La sua figura di signora anziana, bionda e curata sporgeva dal sedile come un bassorilievo lavorato.

Saranno vent’anni che non metto piede tra quelle dannate montagne, si ritrovò quasi subito a pensare, suo malgrado costretta a ricordare il tempo passato. Mi chiedo se Villarosa sia cambiata. Ne dubito però.

Di sicuro, se Villarosa non era cambiata, lei lo era ancora meno, rifletté. Il fisico poteva essersi appesantito e i riflessi potevano essersi leggermente appannati, ma lei sentiva di essere quella di sempre. Sempre la bella figlia del ricco avvocato Edmondo Prizzi, sempre la stessa donna attraente di cui si era innamorato il maturo e scapestrato marchese Angelo Bonomi, sempre la stessa creatura libera che d’impulso lo aveva sposato ed era andata a vivere con lui ai piedi dell’imperturbabile montagna. Quindi, sempre la stessa anima pentita della cui cronica infelicità il marito si era stancato molto presto.

Nel silenzio del viaggio, d’un tratto Lodovica cominciò ad agitarsi sul sedile. Era a disagio. Dall’abisso della memoria presero ad affiorare ricordi, suoni, colori e profumi fastidiosamente sopravvissuti a quel periodo per fortuna concluso. I profumi dell’inverno, quando soleva uscire dalla portafinestra della camera padronale di Villa La Marmora sul lungo balcone onde respirare l’aria fredda della campagna e dei boschetti intorno, mentre si perdeva ad ammirare l’antica cima, dolcemente ondulata, sovente innevata del Gennargentu. Dallo stesso punto ascoltava l’impetuoso scorrere dei fiumi sotterranei, oppure si godeva il vento che soffiava sulle vallate solitarie e selvagge. D’estate invece, quando la natura si faceva florida e superba, poteva distinguere il canto di miriadi di uccelli diversi e l’allegro sciabordio del torrente che si riversava nel vicino lago, mentre lasciava che i suoi sensi fossero storditi dagli intensi effluvi delle peonie, degli oleandri, del timo. In quel tempo, era facile ammirare anche le antiche foreste di lecci delle quote più basse e più in alto le roverelle, gli aceri, l’agrifoglio, i tassi e le macchie di ginepri lungo i fianchi più scoscesi. Nelle giornate limpide, a volte vedeva i grifoni che maestosamente spiccavano il volo dai picchi più alti e planavano con movimenti oziosi e intriganti.

Ma la lucentezza di quelle immagini portava con sé anche tutte le ombre del passato. Ogni ricordo aveva la stessa ambivalenza della quale, col tempo, la montagna era divenuta simbolo: tediosa prigionia e fonte di gioia.

«Fortuna che c’era Alessandro» si consolò Lodovica «sarei impazzita altrimenti».

Come in quel pomeriggio di maggio quando, ancora presa dai festeggiamenti per il compleanno del figlio, quasi si scontrò con il maresciallo Marcialis nell’ingresso di Villa La Marmora. Il militare teneva il capello in mano e aveva l’aria grave di chi porta nuove molto tristi.

«Signora, mi duole comunicarle che il marchese è morto» le aveva detto.

Come? Morto?

«Sparato, signora» aveva risposto il maresciallo fraintendendo la domanda.

Il cuore di lei si era fermato per un solo istante, il tempo necessario per razionalizzare e apprezzare in pieno le parole dell’altro. Più tardi, i carabinieri le avevano spiegato anche che si era trattato di un fatale errore, ma davvero lei non aveva avuto tempo per indagare più a fondo. Era primavera, allora, e le preoccupazioni della marchesa Bonomi erano altre.

Battuta di caccia di frodo finita in tragedia: muore il marchese Angelo Guglielmo Amedeo Bonomi

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Villarosa – Tragedia nelle campagne di Erriu ‘e Inu: il marchese Angelo Guglielmo Amedeo Bonomi è morto ieri pomeriggio, raggiunto al torace da due rose di pallettoni. Sull’episodio sono in corso accertamenti da parte dei carabinieri della stazione del lago. Secondo i militari si tratterebbe di un incidente di caccia, ma sono ancora molti i punti da chiarire. Secondo una prima ricostruzione, infatti, le fucilate sarebbero partite dalla fitta boscaglia che circonda la radura dove il corpo del nobiluomo è stato ritrovato, ma non si sa ancora chi abbia sparato. Informata della disgrazia la marchesa Lodovica, moglie della vittima, si è subito recata sul posto.

“Le indagini procedono a ritmo serrato” riferisce il maresciallo Marcialis, perché, anche se si trattasse di un incidente, siamo sempre di fronte a un reato”. Dal momento che gli stessi inquirenti parlano di “reato”, non è azzardato ipotizzare che nella zona del delitto fosse in corso una battuta di caccia di frodo, visto anche l’utilizzo dei pallettoni. Essendo nota la sua passione per la caccia, non è impossibile che lo stesso defunto gentiluomo facesse parte del gruppo di bracconieri che si sta tentando di individuare. Dalle prime indiscrezioni sembrerebbe che gli inquirenti non escludano neppure l’ipotesi di un attentato e le indagini guardano quindi in ogni direzione.

Berta Sunacei per L’urlo

L’Urlo – direzione e redazione Via Dei Gigli, 33, Villafiorita.

Soprattutto, c’era il problema dell’educazione del figlio, il quale doveva trasferirsi in città per godere di un percorso d’istruzione programmato, a cui il padre si era sempre opposto con determinazione. Il cielo, però, aveva disposto di suo e le sconsideratezze dell’uomo non erano più un impedimento.

Non che Alessandro non ci mettesse molto del suo per farmi penare, ricordò ancora Lodovica. E dire che da piccolo pareva il ritratto dell’avvocato… con i riccioli biondi, i lineamenti delicati… Mano a mano però è cambiato completamente. Tutto suo padre quanto a imprevedibilità e follia, considerò seccata.

In effetti, erano stati proprio questi tratti schizofrenici e incontrollabili della personalità del figlio che in quei giorni lontani, più di tutto, avevano spaventato la marchesa, la quale intuì che per vincere la guerra avrebbe dovuto aspettare e concedere un poco per ottenere di più. Finse perciò di accettare senza troppe riserve le uscite pomeridiane del ragazzo, il quale aveva fatto un’abitudine del vagare per foreste e dell’arrampicarsi sui picchi di montagna, e invece lo controllava grazie all’aiuto di fidati pastori che curavano le tancas[4] e le altre proprietà. Ma la scaltrezza e la determinazione del giovane la costrinsero a desistere ben presto. Non era quello il modo, no, ma su un punto Lodovica non aveva dubbi: l’imperativo era abbandonare Villa La Marmora, venderla per dimenticarla e tornare subito in città, nella casa di famiglia. A questa decisione Alessandro si era dovuto arrendere, riuscendo a strappare soltanto la promessa di un’ultima estate tra le amate montagne. Nel frattempo, lei avrebbe sistemato gli affari e preparato il ritorno a Villa Aster. Lodovica intravedeva finalmente la conclusione della segregazione forzata, di una vita austera tra le valli desolate, e forse – chissà – l’inizio di un’esistenza normale. Lei, in fondo, aveva solo trentanove anni ed era giovane abbastanza. Per sperare ancora, per dimenticare.

Da allora, di tempo ne era trascorso. Alessandro si era laureato, aveva avviato uno studio a Milano e si era sposato. La marchesa Prizzi Bonomi però non aveva potuto dimenticare nulla della primavera in cui aveva perso il marito. Come, nulla aveva dimenticato dell’ultima estate che avrebbero dovuto trascorrere in quella dimora e che, incredibilmente, era diventata autunno, inverno, ancora primavera e poi di nuovo autunno, fin quasi alle soglie dell’ennesimo inverno, quando in fine erano riusciti a chiudersi alle spalle il cancello di Villa La Marmora e a fuggire da quel borgo disgraziato, per non metterci più piede, mai più. No, la marchesa Prizzi Bonomi non aveva potuto dimenticare nulla di quel fatidico tempo di mezzo.

La Volvo correva incontro alla foschia dell’orizzonte mentre davanti a Lodovica sfilavano i campi bruciati della piana intorno a Cagliari. Il cielo, intanto, era diventato una cappa soffocante. Iniziò a piovere. Rade gocce d’acqua cominciarono a stillare sull’asfalto impolverato. Vittorio guidava in silenzio ma, di tanto in tanto, lanciava una furtiva occhiata alla nobildonna. Era pensierosa, si accorse, con la fronte aggrottata e la mascella tesa, come non l’aveva vista mai. Per un attimo gli balenò il pensiero che la marchesa avesse paura. Strano. Non riusciva a pensare a nulla o a nessuno che potesse spaventare Giulia Elena Lodovica Prizzi Bonomi.

L’auto infilò un sentiero secondario e fece sobbalzare la donna:

«Vittorio!».

«Mi perdoni, signora marchesa. Colpa di queste stradacce interne» commentò l’autista. Lodovica non rispose. Non era sua abitudine criticare l’operato delle persone di servizio. Era convinta che se lavoravano per i Prizzi non avevano bisogno di suggerimenti e in ogni caso preferiva spiegarsi con lo sguardo: di solito era sufficiente. Purtroppo, doveva anche ammettere che in quel frangente non era lei: era davvero troppo nervosa. Sentì accelerare i battiti del cuore e decise di imporsi la calma. Suo figlio glielo ripeteva spesso di controllare l’emotività e aveva ragione. Alessandro era rimasto perplesso quando lo aveva avvertito che sarebbe stata via per alcuni giorni, rifiutandosi di indicare la meta di quel viaggio improvviso. Gli aveva concesso di usare il telefonino per i casi d’emergenza, però si era fatta promettere che non avrebbe tentato di chiamarla perché, gli aveva detto, desiderava stare sola per rilassarsi dopo le fatiche dell’estate trascorsa a Milano con i nipotini. Lui non aveva avuto nulla da obiettare, ma aveva insistito per sapere dove sarebbe andata. La madre era stata irremovibile.

Alessandro non dovrà mai venire a sapere di quella storia. Né della lettera. Fortuna che l’ho fatta sparire, si consolò la donna. Mostrala alla polizia, loro ti potranno aiutare, le avrebbe detto. E a lei pareva di vederlo mentre le gironzolava intorno come un serpente insidioso nel tentativo di farla capitolare.

Ma lei non avrebbe ceduto e, al ciel piacendo, la polizia non sarebbe mai stata tirata in ballo in quella faccenda, rifletté. La lettera era arrivata quattro giorni prima ed era stata spedita da Villarosa, dentro una banale busta bianca. Conteneva un unico foglio battuto a macchina e un breve messaggio con il quale, tra l’altro, don Attilio Cocco si scusava del vedersi costretto a rompere la promessa di non cercarla più. Il sacerdote spiegava di averlo fatto perché era sorta in quei giorni una grave questione riguardante la faccenda che lei, Lodovica, ben conosceva e in relazione alla quale aveva necessità di parlarle al più presto. Don Attilio la pregava quindi di incontrarlo, prenotando subito nel nuovo albergo Tana di Volpe, a Villarosa, dove avrebbe alloggiato lui stesso dal 25 al 30 novembre. La missiva non era firmata a mano, ma questo non aveva impensierito Lodovica, che invece si era chiesta cosa avesse spinto l’uomo a contattarla dopo tutto quel tempo. Lui sapeva bene del suo desiderio che nessuno si mettesse in comunicazione con lei per qualsivoglia motivo in relazione alle cose di Villarosa o di Villa La Marmora e tanto meno in relazione a quella specifica faccenda. La donna scacciò con irritazione il pensiero successivo che, più che turbarla, la infastidiva. Le riusciva faticoso ammettere che, nonostante avesse sempre tentato di dimenticare, certi ricordi fossero sempre vivi, presenti e determinati a non abbandonarla mai. La prima reazione dopo la lettura era stata, comunque, in linea con il suo carattere. La missiva l’aveva liquidata come uno scherzo di cattivo gusto. Poi la riflessione si era fatta spazio. Uno scherzo? Ma di chi? Nessuno, nessun altro poteva sapere. Solo loro tre. Che lei o lui avessero parlato? E perché, dopo tanti anni? Rimorsi di coscienza? Eppure avrebbero avuto soltanto da rimetterci, perché tutti erano stati coinvolti alla stessa maniera, tutti erano stati responsabili allo stesso modo e il tempo trascorso non rendeva credibile il ravvedimento e il perdono. No. Lodovica sentiva che c’era dell’altro, che c’era un mamuthone[5] dispettoso che si stava divertendo alle sue spalle ed era proprio questa misteriosa presenza malefica che la infastidiva e la intimoriva a un tempo. Pensò anche che avrebbe potuto tentare di rintracciare don Cocco, ma proprio non sapeva dove e l’assenza di un qualsiasi recapito o numero di telefono privato indicava, a suo modo di vedere, che il sacerdote non voleva essere contattato altrimenti che di persona. Non che avesse tutti i torti e meno corrispondenza c’era, meglio era. A ogni modo, non appena ebbe finito di leggere, accartocciò ben bene la lettera e la busta e senza esitazione le bruciò nell’enorme camino di marmo del soggiorno. Rimase lì, ferma, ad assicurarsi che la carta fosse tutta consumata e poi rimescolò la cenere.

Per nessuna ragione avrebbe voluto che qualcun altro venisse a sapere dell’esistenza del messaggio. Inoltre, gli unici elementi importanti erano stati già memorizzati: il nome e il numero di telefono dell’albergo. Lodovica aveva rimuginato sulla faccenda per due giorni, senza parlarne con nessuno. Avrebbe voluto ignorare quel malaugurato avvertimento, eppure sapeva che non poteva. Scandalo! Questa parola le risuonò subito in testa. Non erano certo le ricadute sulla sua vita che la preoccupavano, ma doveva pensare alla carriera politica di Alessandro, il quale era stato candidato dal partito, da leader carismatico qual era, alla presidenza regionale nelle elezioni di primavera: un simile coinvolgimento gli avrebbe tarpato le ali per sempre. Uno scandalo avrebbe anche mandato all’aria i mille progetti su cui la madre aveva fantasticato e faticato nei duri anni della segregazione tra le valli selvagge, avrebbe reso vano ogni sacrificio fatto, ogni istante di sofferenza e solitudine. Questo no, non poteva e non doveva accadere. Lodovica non lo avrebbe permesso. Nulla, nessuno avrebbe distrutto quello che aveva costruito per Alessandro. Non fino a quando lei avrebbe saputo impedirlo.

Se c’era qualcosa da fare, lei era nella posizione di farlo e lo avrebbe fatto. Qualunque cosa fosse e a qualunque costo. Lodovica decise. Chiamò il Tana di Volpe e prenotò una camera per il periodo dal 25 al 30 novembre. Si informò anche se don Cocco avesse già riservato una stanza negli stessi giorni. Sì, certo, qualcuno della parrocchia del sacerdote li aveva contattati, confermò la voce al telefono.

La lettera diceva il vero, quindi!

La fragile speranza di un brutto scherzo si dileguò presto e la verità colpì Lodovica come la sferzata fredda e congelante del vento quando la bufera infuria tra le vallate più esposte del Gennargentu.

La pioggia si era infittita, ma la Volvo inghiottiva silente la strada. Vittorio lanciò un’ennesima occhiata alla marchesa, che ancora si agitava. I movimenti nervosi erano quasi impercettibili, persino per lui che era stato il suo autista degli ultimi dodici anni e che ne conosceva bene la postura solitamente autoritaria. La testa era rivolta verso il finestrino, e lo sguardo fisso nel vuoto. L’uomo si domandò che cosa stesse architettando la vecchia. Vittorio aveva ricevuto disposizione di non rivelare a nessuno la destinazione della signora, salvo andare a riprenderla il giorno convenuto. Anche Elisa non era stata messa al corrente del viaggio, quando la sera prima la padrona le aveva concesso una vacanza non programmata. La cameriera non aveva saputo nulla neppure dell’arrivo della lettera. Lodovica era in giardino il giorno in cui la missiva era arrivata, e il fattorino gliel’aveva consegnata di persona.

Arrivati al bivio di Gairo, Vittorio sterzò a sinistra. Nel buio imminente, i fari dell’auto illuminavano i fiocchi di neve che cominciavano a cadere. Era da una vita che Lodovica non vedeva la neve e quello spettacolo ebbe il potere di calmarla un po’. La nevicata le richiamò alla memoria il silenzio e la solitudine, lo strano sibilo della buriana e lo stormire delle foglie delle roverelle allampanate del giardino di Villa La Marmora, ma anche i giochi in compagnia di Alessandro.

Se Villarosa dovesse essere cambiata, mi resterà comunque il rumore del vento, pensò più rilassata. Anche il firmamento in fondo sarà sempre quello. Nelle notti chiare mi bastava alzare lo sguardo al cielo per ritrovare la forza. Sono sicura che accadrà come allora. In verità mi pare di stare già molto meglio. Davvero mi sembra di essere finalmente pronta a lottare ancora. Volendo, a uccidere ancora.

[1] A lavare la testa all’asino si perde l’acqua e il sapone.

[2] Sembra rinato.

[3] Sono passato a vedere come sta.

[4] Terreni di proprietà recintati.

[5] Maschera barbaricina, ma anche termine generico per indicare una persona portata al male e al dispetto.

Continua… Il secondo capitolo verrà pubblicato su Rosebud molto presto e diversi altri in attesa della publicazione della seconda nuovissima avventura del bibliotecario di Villarosa.

Un albergo di recente apertura in attesa di ricevere i primi clienti, un ospite che non arriverà mai, una cuoca assassinata, un presagio di nuove sventure e un colpevole astuto, determinato a farla franca… Sono questi gli ingredienti della prima avventura di Don Osvaldo da Silva Ochoa, il bibliotecario di Villarosa appassionato di informatica e di rebus enigmistici, riproposta in una nuova edizione corredata da un’altra bellissima avventura del formidabile investigatore ogliastrino. Ma se alcune dinamiche si evolvono, altre sembrano destinate a non mutare mai e così, “mentre il tempo stringe, la marchesa Lodovica Prizzi Bonomi trasforma l’ingresso della propria suite in una barricata di pentole e mobilia…”. Un giallo classico à la Christie che si dipana tra misteri, delitti e furti di reperti archeologici in una Sardegna tetra e invernale.

DISPONIBILE SOLO PER IPAZIA BOOKS