Ancora su Genova e il suo ponte
di Michele Marsonet.
Com’era logico attendersi, Genova non ha certo superato lo shock causato dal disastro del ponte Morandi. Ancor più di prima appare una città ripiegata su se stessa, e le innumerevoli immagini dei due tronconi con quell’enorme vuoto nel mezzo non aiutano a scordare l’enormità dell’evento.
Eppure i ponti crollano ovunque, persino negli Stati Uniti che sono la patria del progresso tecnologico. Ma – si sa – da noi, prima ancora di ragionare sui fatti, va di moda iniziare subito la caccia al colpevole. Del resto non è stato lo stesso presidente Mattarella a dire, poche ore dopo la tragedia, che il crollo del ponte è “inaccettabile”?
In realtà gli allarmi sulle condizioni della struttura sono stati frequenti. Fu lo stesso ideatore dell’opera, l’ingegnere Riccardo Morandi, ad avvertire nei tardi anni ’80 (poco prima del suo decesso) che le condizioni del viadotto andavano monitorate con costanza, facendo soprattutto attenzione ai tiranti. Belli sì, ma altrettanto delicati.
Se si vuole essere onesti occorre in primo luogo ridicolizzare chi insinua il sospetto che Morandi, i ponti, non li sapesse progettare. Si tratta di falsità assolute, purtroppo usuali in un Paese che intorno al sospetto ha costruito un’intera cultura.
La verità è, piuttosto, che l’opera non era stata pensata per un volume di traffico come quello attuale. Fu inaugurata dall’allora presidente Giuseppe Saragat nel lontano 1967, e negli anni successivi non c’erano ancora le colonne infinite di Tir che poi hanno cominciato a percorrerlo giorno e notte a ritmi sempre più frenetici.
Un simile aumento del traffico si poteva prevedere? Forse sì, anche se ingegneri a architetti non possiedono la sfera di cristallo per leggere il futuro. Morandi disse onestamente che, visto il traffico (e si era ancora negli anni ’80 del secolo scorso), i tiranti andavano revisionati anche a costo di fermare per un certo periodo di tempo il traffico stesso.
Ma non si può nemmeno sostenere che i gestori – pubblici e privati – ignorassero il problema. Chi percorreva il viadotto s’imbatteva molto spesso in interruzioni dovute a lavori in corso, magari imprecando per l’inevitabile perdita di tempo patita.
E qui veniamo al punto cruciale. In Italia sembra mancare la cultura della manutenzione delle opere pubbliche, che è ovviamente costosa ma pure necessaria per assicurare la sicurezza dei fruitori. Le somme, per quanto grandi siano, sono indispensabili a questo fine. Anche perché – come si è visto – i costi umani ed economici diventano enormi se nessuno provvede.
Mi si lasci esprimere qualche dubbio circa l’opportunità che siano i privati a garantire la sicurezza pubblica. Anche se oggi non va di moda dirlo, è solo lo Stato che può accollarsi tale compito, per quanto vincolanti (e spesso assurde) siano le direttive dei burosauri di Bruxelles.
Nel frattempo Genova, già in crisi nonostante la presenza di un porto che resta comunque il maggiore scalo marittimo nazionale (e uno dei primi tre europei), trova sul suo cammino un altro ostacolo difficile da superare.
Lontani i tempi del triangolo industriale di cui era il vertice marittimo, la città offre poco ai giovani e registra un calo demografico costante. Un progetto come quello di Renzo Piano può essere utile. A patto però di ricordare che sistema autostradale e ferroviario vanno ripensati in modo profondo.
Altrimenti si rischia una crisi irreversibile nella quale sarebbe coinvolta anche la sua risorsa più preziosa: per l’appunto il porto. Sperando che si smetta i favoleggiare su Genova quale città prevalentemente turistica: chi lo fa confonde il capoluogo ligure con Venezia.
Il video della simulazione tecnica della caduta del ponte: