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Obama, un presidente così così

President_Barack_Obama.jpgNel discorso di commiato da Presidente degli Stati Uniti d’America, tenuto a Chicago il 10 gennaio, Barack Obama ha fatto un bilancio della sua presidenza riconoscendo che gli esiti avuti, pur importanti, restano aperti e problematici. Ha tenuto a ribadire, tuttavia, la sua fede in quei valori per i quali aveva chiesto al popolo americano di votarlo e che lui ha cercato di coltivare e rafforzare.

Grandi obiettivi, per sua stessa ammissione, dunque, non ne ha raggiunti. In otto anni di presidenza è riuscito solo ad estendere la copertura sanitaria a ventiquattro milioni di cittadini e a creare qualche milione di posti di lavoro. Che si tratti di obiettivi tipici di ogni partito democratico con valenze di sinistra, specialmente la copertura sanitaria, non c’è alcun dubbio. Sanità e reddito costituiscono sempre inclusione di cittadini nei benefici del Paese.

A fronte di questi successi, sui quali peraltro gli esperti esprimono valutazioni controverse, c’è una gran mole di insuccessi in altri ambiti e settori, interni ed esterni.

Obama partì subito con un riconoscimento prematuro: il Nobel per la Pace nel 2009. Sulla base di che cosa l’Accademia Svedese glielo volle assegnare non si capì e non si capisce o – se vogliamo essere politicamente avveduti – si capisce benissimo. A noi italiani ricordò la scena di Ettore Petrolini quando, impersonando Nerone, il popolo lo applaudiva prima ancora che parlasse. Si era in tempi di fascismo e come satira antiregime andava benissimo. Quel Nobel, assegnato non per l’impegno profuso ma per quello da profondere, la dice lunga sul pensiero dominante che, irradiandosi dalla vecchia Europa, ormai coinvolge il mondo intero. Va detto, però, che Obama non era uno sconosciuto, era un afroamericano e non c’era bisogno di indovini per capire quale sarebbe stata la sua politica: apertura di orizzonti partecipativi e allargamento dei diritti civili e individuali. Diciamo pure che per chiunque voglia guardare alla sua esperienza, di destra o di sinistra che sia, repubblicano o democratico, egli rappresenta l’ultima e forse la più alta epifania del sogno americano. Una cosa che per Manzoni, quando parlava di Napoleone, era “follia sperar”. Ebbene negli Stati Uniti d’America sperare nel massimo delle affermazioni individuali non è mai follia. E questo, onestamente, è bello.

Ma per questa sua politica democratica, di progressiva inclusione, egli ha conosciuto risvolti drammatici quando il Paese, quello che si rifà alla tradizione americana, alla famosa “pancia”, ha risposto in maniera nervosa e a tratti isterica. I tanti ammazzamenti di giovani di colore da parte della polizia, che sembravano quasi preludere ad una guerra civile, erano messaggi ostili alla sua politica, resi ancora più espliciti dal rifiuto da parte del Congresso di mettere ordine nella vendita e nel possesso delle armi. Obama ha versato pubbliche lacrime di fronte alle tante stragi commesse senza una ragione apparente da parte di squilibrati, che però possedevano armi automatiche da guerra, con le quali davano sfogo ai loro inconsci rancori sociali. Sul piano dell’integrazione razziale e sociale Obama ha avuto dei dispiaceri. La dignità con la quale ha difeso la sua politica, nonostante non abbia conseguito grandi successi nel Paese, depone bene per lui; ma va anche detto che la sua sconfitta è stata ancor più netta quando a vincere le elezioni presidenziali è stato Donald Trump, noto per gli eccessi verbali e comportamentali. Una politica più realisticamente moderata sul piano delle aperture e delle conquiste individuali forse avrebbe conseguito esiti diversi; sicuramente non avrebbe dato legna da ardere ad uno come Trump.

Sul versante estero, la politica di Obama è ancor più deficitaria. Egli lascia uno scenario politico in cui gli Stati Uniti non hanno più quel primato nel mondo che avevano agli inizi della sua presidenza. Oggi il ruolo della Russia di Putin è cresciuto ed insidia quello degli Usa. Sul piano economico, il primato americano è contestato dalla Cina, nei confronti della quale gli Stati Uniti hanno debiti importanti da onorare. Primati, intendiamoci, che già prima di Obama erano in calo.

Agli inizi delle Primavere Arabe Obama, in ossequio alla sua cultura democratica, ha esultato e contribuito all’abbattimento di quei regimi nordafricani dittatoriali, che, però, una volta abbattuti, non sono stati sostituiti da altri più democratici ma da dittature militari (Egitto) o da pericolose anarchie (Libia), che hanno compromesso l’intera area. Obama era sul punto di attaccare la Siria di Hassad ma non ebbe il coraggio di farlo e c’è da credere non solo per l’appello di Papa Francesco ma per paura che la Russia reagisse. Ci ritroviamo, quale conseguenza di questa politica di un passo avanti promesso e di uno indietro fatto, con il terrorismo dell’Isis, una guerra, i cui fronti vanno dagli sterminati spazi del Medio Oriente fino alle nostre città e dovunque si voglia colpire l’odiato nemico crociato o qualche suo alleato.

Nel suo discorso di Chicago ha voluto ricordare i pericoli che corre oggi la democrazia americana nonostante i grandi passi avanti a suo dire compiuti; ma soprattutto ha citato i traguardi raggiunti: la fine di una lunghissima conflittualità con Cuba, l’interruzione del programma nucleare iraniano, l’uccisione di Ben Laden, l’artefice dell’attacco del 2001 alle Torri Gemelle, lo sforzo di realizzare nel mondo una più efficace difesa dell’ambiente, l’avanzamento dei dritti civili. Non ha nascosto i problemi che si affacciano a causa anche di trasformazioni inevitabili come quelle nel mondo del lavoro che causeranno un calo dell’occupazione.

Obama ha dovuto operare in otto anni in un paese difficilissimo, abitato da gente che si sente invasa da stranieri, per colpa dei quali era stato votato un presidente non proprio adeguato a condurre un paese così importante nel mondo. Obama è stato visto il Presidente degli stranieri, gli immigrati già entrati e quelli che premono alle frontiere per entrare. Di qui la paura dell’invasione e il muro col Messico, che peraltro risale all’Amministrazione Clinton. Gli americani, per otto anni, si sono sentiti stranieri in casa propria. Obama deve essersi sentito, invece, come un vescovo in terra infidelium, in una diocesi cioè abitata da infedeli. Bilancio? L’uomo fa simpatia ed esige rispetto. La sua politica desta non poche perplessità.

Gigi Montonato