LA SOPRAVVIVENZA DELL’UOMO DOPO LA MORTE del Rev. C. L. Tweedale (1932) – L’introduzione di Ernesto Bozzano
Confesso che gli autori di questo testo epocale non sono i miei preferiti perché parlano ancora con le fisime del loro tempo, gesù cristi, bibbie e il solito caravanserraglio superstizioso, mentre le esperienze del dopo-morte di solito non hanno nulla a che vedere con le religioni e riguardano semplicemente il passaggio ad altro stato dell’Essere dopo la morte del corpo fisico. In ogni caso una prefazione di Ernesto Bozzano vale sempre il suo tempo e poi… dato che fra poco sarà Halloween, ecco qualche storia di morti, trapassati, quasi passati, fantasmi. Nostre, insomma. Mi scuso solo per la forma dovuta al fatto che l’originale è un PDF, comunque… Enjoy!
Rina Brundu
PREFAZIONE
Il Libro del Rev. C. L. Tweedale: “La sopravvivenza dell’Uomo dopo la morte”, di cui si presenta ai lettori
la traduzione italiana, sulla quarta edizione inglese (il che dimostra con quale fervore venne accolto il libro
nei paesi anglosassoni), è un’opera notevolissima, della quale può affermarsi che basterebbe da sola a provare
l’esistenza e la sopravvivenza dello spirito umano, come dovrebbe bastare da sola a dimostrare ai dirigenti la
Chiesa cattolica, e in grado minore, ai dirigenti le altre confessioni cristiane, il “tragico errore” (come lo
chiama il Tweedale) in cui tutti rischiano di perdersi condannando le ricerche medianiche, e valendosi di ogni
mezzo per combatterle.
Nel Libro, per ogni categoria di fenomeni, sono riferiti numerosi episodi ricavati con saggio criterio di
scelta dalla oramai ricchissima casistica metapsichica; ma non è in questo che risiede il pregio specialissimo
dell’opera; pregio il quale emerge da quanto l’autore ha da raccontare intorno alle proprie meravigliose
esperienze supernormali, esperienze in massima parte conseguite spontaneamente, nell’ambiente familiare del
proprio vicariato.
Il Rev. C. L. Tweedale, vicario di Weston, è un profondo teologo, nonché un distinto astronomo, membro
attivo dello “Istituto Reale di Astronomia” di Londra. Egli non si era mai occupato di manifestazioni
medianiche, e avrebbe continuato a non occuparsene, se non gli fosse occorso di sposare una signorina la quale
non tardò a rivelarsi una potente medium. E così avvenne che quando gli sposi si recarono ad abitare nel
vicariato loro assegnato nella contea di Norfolk, dovettero forzatamente iniziarsi alla nuova scienza, per
effetto di una lunga serie di manifestazioni supernormali spontanee, dall’apparenza infestatoria. Dico
“dall’apparenza”, poiché in realtà il vicariato non era mai stato infestato, e i fenomeni che ivi si
estrinsecavano, avevano per agente inconsapevole la moglie del Rev. Tweedale, le cui facoltà medianiche
avevano reso possibile a due degli abitatori defunti del vicariato, di manifestarsi. Uno tra questi era un certo
dottor Caius, il cui fantasma appariva sovente nei locali, spaventando la signora Tweedale. Ora, siccome nel
vicariato esisteva il di lui ritratto ad olio, appeso ad una parete del salotto, il Rev. Tweedale, nella speranza di
far cessare le apparizioni del fantasma, tolse il quadro dal suo posto, e lo rinchiuse nella soffitta. Da quel
momento, il campanello esistente nella soffitta, prese a tintinnare ininterrottamente. Nell’intento di porre un
termine anche a quest’altra manifestazione, il Rev. Tweedale recise il filo del campanello; ma esso continuò a
tintinnare più forte di prima. Quindi il concerto si estese a tutti i campanelli della casa. Dopo di che, si fece
udire nel vicariato
l’eco di passi continuati e persistenti, come di persona che deambulasse un po’ dovunque nella notte, e tali
passi presentavano la caratteristica di essere fortemente calcati su di un piede, e leggermente sull’altro.
Dopo qualche tempo, il Rev. Tweedale venne a sapere che una signora C., abitatrice del vicariato, morta alcuni
mesi prima, era zoppa, e che il suo passo presentava la caratteristica di calcare molto sul piede normale, e
leggermente sull’altro. I fenomeni si ripeterono per due mesi; quindi cessarono, per non più rinnovarsi.
Questo l’inizio di una serie portentosa ed imponente di manifestazioni medianiche d’ogni sorta, sia
spontanee che provocate, le quali si svolsero per anni, fino al 1918, con manifestazioni le quali comprendono
l’intera casistica medianica d’ordine fisico e psichico: colpi, frastuoni, tonfi; salve di scampanellate generali;
rumori di passi pesanti deambulanti per la casa ; fenomeni luminosi e colonne di fuoco; movimenti e trasporti
di oggetti; “apporti” meravigliosi in piena luce; fotografie trascendentali in pieno giorno, le quali furono prese
puntando l’obbiettivo fotografico nel punto dello spazio in cui la medium affermava di scorgere un fantasma
da lei descritto minuziosamente, e che rimase fissato sulla lastra quale la medium lo aveva descritto; “voce
diretta” con timbro vocale fortissimo, e sempre in piena luce diurna; scrittura automatica, con prove mirabili
di identificazione spiritica; fenomeni di “bilocazione”; apparizioni e materializzazioni di fantasmi umani ed
animali, ancora e sempre in piena luce diurna: premonizioni notevolissime realizzatesi in ogni particolare;
profezie di eventi lontani nel tempo, a loro volta realizzatesi in guisa impeccabile, nel giorno, nell’ora, nel
minuto.
A proposito delle apparizioni di fantasmi materializzati, l’autore sintetizza in questi termini una serie di tali manifestazioni: “Nei mesi di aprile – giugno 1918, abbiamo assistito per sette volte consecutive al
manifestarsi di un’apparizione materializzata, e per sei volte si era in piena luce diurna! In una di tali
circostanze l’apparizione fu vista collettivamente da me, da mia moglie e da mio figlio; e in altre occasioni, fu
vista, udita e toccata da me, da mia moglie e da mia figlia, sempre in piena luce diurna”.
Ed a proposito delle mirabili prove d’identificazione personale ottenute da parte di congiunti ed amici
defunti, egli osserva: “Taluni fra questi si comportarono a nostro riguardo in funzione vera e propria di ‘angeli
custodi’, rendendoci segnalati servigi, qualche volta avvertendoci intorno a pericoli che ci sovrastavano, e in
un’occasione salvandoci addirittura la vita”.
Si aggiunga che a tali manifestazioni poterono assistere numerosi testimoni, tra i quali un membro del
Consiglio direttivo della “Society for Psychical Research”.
Già si comprende che nulla di nuovo si rinviene nelle manifestazioni occorse nel vicariato del Rev.
Tweedale; vale a dire che dall’inizio dell’odierno movimento spiritualista, le medesime manifestazioni si
realizzarono nel passato e si realizzano nel presente in ogni paese del mondo: ma ciò che in esse si rileva di
eccezionale, consiste nel fatto che questa volta tale serie
memorabile di fenomeni medianici forma parte dell’esperienza di una sola famiglia; circostanza che si combina
con l’altra importantissima della genuinità incontestabile di tutta la serie dei fenomeni in discorso, i quali non
possono spiegarsi cumulativamente con nessuna ipotesi naturalistica. Da ciò, quanto dissi in principio, che il
contenuto fenomenico del libro del Rev. Tweedale potrebbe bastare anche da solo a dimostrare, sulla base
incrollabile dei fatti, l’esistenza e la sopravvivenza dello spirito umano.
* * *
Ma non meno importanti dei fatti, risultano le considerazioni che i fatti suggeriscono all’autore;
considerazioni vertenti sull’accanimento imprudente con cui i dirigenti le varie confessioni cristiane,
combattono le manifestazioni medianiche. E ciò che il Rev. Tweedale ha da osservare in proposito, merita di
essere profondamente meditato dai maggiorenti della confessione cattolica, tanto più che colui che questa
volta ne parla e ne discute, è un profondo teologo, a sua volta ministro di una confessione cristiana.
L’autore mai non cessa in tutto il libro dal commentare, convalidare, legittimare l’odierno movimento
spiritista considerato in rapporto con l’esegesi Biblica, e lo fa in base ad eloquenti citazioni ricavate dai
Vangeli e dall’Antico Testamento; e nei capitoli XXIV – XXVII stabilisce un parallelo tra i fenomeni medianici
e i miracoli contenuti nella Bibbia, dimostrando sulla base incrollabile dei fatti, che i fenomeni medianici sono
l’esatta riproduzione dei miracoli Biblici, e in conseguenza, che se si vogliono combattere e condannare i primi,
bisogna combattere e condannare anche i secondi.
Egli scrive: “Quale tragico errore quello in cui si dibattono le moderne confessioni cristiane nella loro
incapacità di comprendere l’importanza dei fenomeni medianici! La loro attitudine è un terribile mònito alla
cecità e alla fallibilità umane… Ed è veramente desolante l’assistere allo spettacolo indecoroso di ministri
delle confessioni cristiane, i quali dai pergami delle chiese, o dalle colonne dei giornali, si sforzano a spargere
il discredito sui fenomeni medianici, citando con gioia esultante le opinioni avverse ai fenomeni stessi che i più
notorî materialisti, agnostici e Sadducei moderni hanno pronunciato. Quale mostruosa alleanza! Poiché essi
non si accorgono che se coloro che citano con tanto entusiasmo avessero ragione, allora i fondamenti del
cristianesimo crollerebbero di un colpo, e per sempre… Ove poi gli odierni messaggi medianici fossero l’opera
del demonio, chi ci assicura che così non sia stato di tutti i messaggi contenuti nella Bibbia, o riferiti dai Padri
della Chiesa e dai santi? Quale sicurezza possiamo noi avere che gli angeli apparsi ai Profeti ed agli Apostoli,
fossero i messaggeri celesti che professavano di essere, e non fossero invece gli agenti del demonio
camuffati da angeli?…
Invero, coloro che ricorrono al miserabile argomento del demonio, sono colpiti in pieno petto dalle schegge
della bomba da essi lanciata… Le Chiese si trovano odiernamente di fronte a una serie di manifestazioni
supernormali che non possono più oltre ignorare o negare; e tali manifestazioni sono destinate ad esercitare
una profonda influenza sopra la religione del futuro. Si risolvano dunque a fronteggiare i tempi nuovi con
franchezza ed onestà; tanto più che così facendo, essi hanno ben poco da perdere e molto da guadagnare.
Nulla può esistere di più grande del Vero; lascino dunque che la Verità prevalga. Essi possiedono
indubbiamente la Verità sostanziale, e questa non possono perderla; per cui saranno unicamente obbligati a
modificare i particolari; e forse, sotto l’urgente pressione del sapere che avanza, saranno obbligati a lasciar
cadere qualche articolo di fede decrepito, ch’essi tenevano in gran conto. Questo accadde altre volte, e ad
ogni volta si guadagnò molto per l’abbandono. La rivelazione è un processo ascensionale continuo, e non può
essere confinata in un’epoca qualunque della storia del mondo…”.
Parole sacrosante, le quali s’impongono alla ragione di chiunque non abbia le vie cerebrali totalmente
obliterate dalle pastoie dei dogmi. E’ pertanto da augurarsi che i dirigenti la confessione cattolica, i signori
del Tribunale della Santa Inquisizione e i Padri Gesuiti, si procurino il libro del Teologo C. L. Tweedale, nella
speranza che almeno taluni fra essi, dopo aver letto e ponderato, si rendano conto del “tragico errore” in cui
si dibattono; e qualora tra essi vi fosse chi si ricredesse, potrebbe anche darsi che questi pervenisse a
risvegliare un po’ di fermento benefico, foriero di non lontano ravvedimento, in seno al consesso più
ciecamente conservatore che la storia delle religioni abbia mai registrato.
Ernesto Bozzano
Savona, 25 dicembre 1931 – X.
Marzo, 1889.
Il 24 giugno 1874 morì mia madre a Malta, in una casa detta il Palazzo dei
Cacciatori, dove ci eravamo recati per ragione della sua salute. Mia madre era
sempre stata tormentata dalla paura di essere sepolta viva e aveva strappata a mio
padre la promessa che, dovunque essa dovesse morire, non l’avrebbe fatta seppellire
prima che fosse trascorsa una settimana. Ricordo che ci volle un permesso speciale
perché dato il clima caldo, l’interramento doveva avvenire entro tre giorni.
L’ultima volta che la vidi fu appunto il terzo giorno dopo la sua morte. Fu allora
che entrammo nella sua camera mio padre ed io e le tagliammo i capelli che erano
lunghi e ricciuti. Non ricordo d’essere stata impressionata o, minimamente
spaventata. Il settimo giorno fu sepolta e la stessa notte mi apparve. Mi sembrava
di aver dormito un po’ di tempo e, destatami e giratami sul fianco verso la finestra
vidi mia mamma ritta a lato del letto piangendo e storcendosi le mani. Mezzo
addormentata com’ero, non ricordai subito che ella era morta e con tutta naturalezza
(giacché spesso mi entrava in camera, quando dormivo) esclamai: “Che c’è mamma?” ma,
raccapezzatami, diedi un grido. La governante, che dormiva nella stanza vicina,
saltò giù dal letto, uscì e, giunta sul primo gradino, cadde in ginocchio, tirò
fuori il rosario e cominciò a pregare e urlare. Nello stesso tempo capitò mio padre
sulla porta e l’udii prorompere in un “Giulia, Giulia cara!” La mamma si rivolse
prima a lui, poi a me, storcendosi di nuovo le mani; si ritrasse verso la stanza dei
bambini e sparì. La governante affermò che si era sentita sfiorare da qualche cosa.
Papà mi disse che anch’egli l’aveva vista e sperava di rivederla, e che, caso mai mi
ricomparisse davanti, non mi spaventassi ma le dicessi che Papà voleva parlarle, ed
io lo promisi ma non la rividi mai più.
Babbo morì tre anni dopo, così che ora sono l’unico teste oculare. Però mia
matrigna ha udito il fatto dalla bocca di lui ed appone qui la sua firma.
L. H.
M. S. H.
Il fatto avvenne parecchi anni fa e precisamente il 26 agosto 1867, a mezzanotte
in punto. Posso documentare ogni particolare. Risiedevo allora nei pressi di Hull, e
siccome avevo un impiego governativo (una vera sinecura che non mi costava che
qualche ora d’ufficio al giorno) mi recavo in città ogni giorno. Quivi strinsi
relazione con una ragazza che chiamerò Luisa. Era giovane, bella ed innamorata pazza
di me. Ma il breve romanzo doveva chiudersi presto. La notte del 26 agosto facemmo
l’ultima passeggiata insieme e, quando stava per scoccare la mezzanotte, ci fermammo
sopra un ponticello di legno gettato attraverso uno di quei canali che con termine
locale vengono chiamati “drains”. L’acqua turbinava contro i pilastri di legno.
Luisa mormorava il famoso sonetto di Longfellow: “Ero sul ponte, a mezzanotte”
parole che calzavano proprio alla circostanza, e che ora, a distanza di venticinque
anni non sento mai recitare senza sentirmi un brivido per le ossa e senza rivedermi
d’innanzi la scena delle nostre due anime in agonia. Scoccò la mezzanotte e ci
salutammo per sempre. Però Luisa, prima di allontanarsi mi disse: “Concedimi una
grazia, l’unica che ti domando ancora quaggiù: promettimi di tornare qui, con me,
fra un anno a questa stessa ora”. Esitai, dapprima; sarebbe stata una pena per
entrambi e nulla più. Sarebbe stato un riaprir ferite forse in parte rimarginate.
Finii però col cedere: “Bene, verrò se sarò vivo!”. “
No”, disse Luisa, bisogna che
tu dica “Vivo o morto!”. “
Va bene: ci ritroveremo vivi o morti”.
Passato l’anno, mi trovai sul luogo pochi minuti prima del tempo. A mezzanotte in
punto giunse Luisa. Intanto però io mi ero pentito del patto e lo mantenni solo
perché non ebbi coraggio di violare una promessa così solenne, e non avevo nessuna
intenzione di rinnovarlo. Ma Luisa tanto disse e tanto fece che io dovetti
promettere di tornar ancora una volta a un anno di distanza. Ci separammo pertanto colla
formula “O vivi o morti”.
L’anno passò in un lampo. Però in luglio fui ferito in una coscia da un colpo di
fucile spianatomi contro da un pescatore di contrabbando di Hull chiamato Thomas
Piles. Avevamo noleggiato in quattro la sua barca della portata di 10 tonnellate e
costeggiando lungo la contea di Jork ci divertivamo a sparare agli uccelli marini
che popolano a migliaia Capo Flamborough. Il terzo o quarto giorno ecco che il Piles
che guidava la nave, mi scarica addosso il fucile. Il dì seguente l’ufficiale medico
guardacoste di servizio a Bridlington Quay assistito dal Dott. Alessandro Mackay mi
operò all’Albergo del Leon Nero e mi estrasse dalla coscia un’oncia e un quarto di
pallini del N° 2. Tutta la stampa pubblicò il fatto e The Eastern Morning News di
Hull vi dedicò una colonna intera. Appena fui in grado di essere trasportato (due o
tre settimane dopo), fui portato a casa mia dove mi curò il Dottor Kelburne King di
Hull. Intanto giunse il giorno e poi la notte del 26 agosto. Non potevo camminare
che sulle stampelle e solo per pochi passi: generalmente ero trasportato in
carrozzella. Il punto di convegno era piuttosto distante e l’ora e le circostanze
tutte particolari, perciò non mi servii dell’infermiere addetto alla mia persona, ma
d’un vecchio servo di famiglia che più volte avevo impiegato in affari confidenziali
e che conosceva Luisa. Partimmo per la spedizione in tutto silenzio e pochi minuti
prima di mezzanotte eravamo sul ponte.
Ricordo che era una bella notte stellata però senza luna, almeno a quell’ora.
“Old Bob”, come era familiarmente chiamato il servo, mi spinse in carrozzella fino
al ponte, mi aiutò a scendere e mi porse la stampella. Mi trascinai sul ponte e,
appoggiata la schiena contro il parapetto bianco, accesi la pipa e mi misi a fumare
per distrazione. Ero proprio seccato e non potevo perdonarmi di aver ceduto alle
insistenze di lei per un secondo abboccamento: certo sarebbe stato l’ultimo ad ogni
costo. Cominciavano a battere i quarti che precedono le ore, quando ecco risuonare
un “tic, tac” metallico sulla strada lastricata, lunga 200 metri, che conduceva al
ponte. Era il passo di Luisa, che portava solitamente scarpette munite di tacchi di
ottone. Man mano che si avvicinava la vedevo oltrepassare rapidamente un fanale dopo
l’altro mentre il grosso orologio di Hull ribatteva le ore, echeggianti nella notte
calma e serena.
Ed ecco finalmente i piedini risuonar sull’impiantito del ponte: essa aveva
imboccato il ponte ed io la vidi passare sotto il lampione a capo di esso, essendo
il ponte lungo una ventina di metri ed io ritto presso l’altro lampione. Quando mi
fu vicina, vidi che essa non aveva né cappello né mantello. Forse, pensai, è venuta
in carrozza fino al principio della via, ha lasciato là quegli indumenti, poiché la
notte è calda, ha fatto la strada a piedi e ha voluto mostrarmisi in veste da sera.
“Tic, tac”, i passi si avvicinarono, eccola dinnanzi a me. Ebbi uno scatto
affettuoso e volli stringerla fra le mie braccia. Essa vi passò a traverso come cosa
intangibile, impalpabile, mi guardò, mosse le labbra e disse: “viva o morta”. Io
distinsi il muovere delle labbra ed udii pure le parole, non con le orecchie, ma con
qualcosa d’altro, qualche altro senso più intimo che non so dire. Trasalii, ma non
per paura. Però subito sentii agghiacciarmisi il sangue nelle vene. Mi ricomposi con
uno sforzo e chiamai Bob che nel frattempo si era rimpiattato, colla carrozzella, in
un angolo fuori di vista.
“Bob, chi ti è passato vicino in questo momento?”. In un lampo fu al mio fianco:
“Nessuno, padrone”. “Non dir sciocchezze! Sai che avevo un appuntamento con Luisa.
Proprio ora mi è passata davanti sul ponte, e deve necessariamente esserti
passata vicino, perché non poteva passare altrove. Non è possibile che tu non
l’abbia vista”.
Ed il vecchio mi rispose, con aria grave e solenne, “Padrone, c’è del mistero qua
dentro. L’ho sentita giungere al ponte. Ho sentito i suoi passi da lontano. Li
conosco io quei passi! Ma possa io morire impiccato se me la vidi passare vicino.
Meglio andarcene di qui”. E ce ne andammo di fatto, ma spuntava il giorno che noi
parlavamo ancora della cosa e solo allora ci decidemmo ad andare a letto.
Il dì seguente chiesi notizie di Luisa alla sua famiglia e seppi che era morta a
Liverpool tre mesi prima, dopo alcune ore di delirio, durante il quale ripeteva
“Viva o morta? Vi andrò?”, parole misteriose e sconnesse per i suoi, ma ben chiare
per me. Essa era evidentemente sotto l’incubo della promessa fatta.
Il 2 febbraio, un colono di nome Michele Conley domiciliato presso Iowa, nella
contea di Chicksaw, fu trovato morto sotto una tettoia a Jefferson House. Il
cadavere fu portato alla camera mortuaria, l’autorità giudiziaria fece un’inchiesta
e lasciò il nulla osta per il trasporto a casa sua. I vecchi abiti, che portava,
erano tutti imbrattati di fango, dato il luogo dove era stato trovato, e furono
gettati fuori della “morgue” sul terreno. Il figlio, accorso da Iowa, procurò il
trasporto del cadavere a casa. All’arrivo di lui, sua sorella, udita la morte del
padre, cadde svenuta al suolo e rimase in deliquio parecchie ore. Appena riprese
coscienza, disse: “Dove sono gli abiti del povero papà? Mi apparve proprio adesso:
indossava una camicia bianca, abito nero e pantofole di seta e, mi disse che, uscito
di casa, aveva cucito sul lembo della sua camicia grigia un pezzo di stoffa rossa,
preso da un mio vestito e dentro vi aveva riposto un rotolo di biglietti di banca”.
Quindi ricadde in deliquio e, quando rinvenne, insistette che si mandasse qualcuno a
Dubuque a ritirare gli abiti.
La famiglia credeva si trattasse di un caso di allucinazione, ma il medico
consigliò di accontentarla per tranquillizzarla. Il figlio telefonò all’ufficiale
giudiziario Hoffman chiedendo se gli abiti erano presso di lui. Questi ne fece
ricerca e li trovò nel cortile, mentre aveva dato ordine che fossero gettati in
cantina. Ne fece un fagotto in attesa che il figlio venisse, come aveva detto, a
ritirarli.
Il giovane si presentò lunedì scorso nel pomeriggio e riferì all’ufficiale ciò
che aveva detto la sorella. Strano! la descrizione dell’abito di cui era stato
rivestito il cadavere era esatta in tutto e per tutto, anche riguardo alle
pantofole, benché la figlia non l’avesse più visto e nessun altro della famiglia non
avesse potuto veder altro che la faccia del defunto attraverso lo sportello della
bara. La curiosità fu allora stuzzicata e tratta fuori dal pacco la camicia, si
trovò cucito in fondo ad essa con un pezzo di stoffa rossa un grosso rotolo. Il
giovane confermò che sua sorella aveva appunto un abito rosso di quella stoffa. I
punti erano lunghi ed ineguali e si vedeva che erano dati da un uomo. Il figlio fece
su gli abiti e ieri mattina li portò a casa pieno di stupore per la rivelazione
fatta alla sorella.
The Herald Dubuque, Iowa
2 Marzo 1891
R. Hodgson.
Gli ultimi quindici anni di vita, mio padre li passò nella sua tenuta di Langham,
nel Norfolk e tra i suoi amici del luogo figuravano i nobili signori Townshend e
consorte, di Raynham Hall. Il titolo e la proprietà erano passati a loro, proprio al
tempo, di cui parlo, ed il nuovo baronetto, Sir Charles, fatto dipingere, tappezzare
e mobiliare a nuovo il palazzo, era venuto a prenderne possesso con la consorte ed
uno stuolo di amici. Ma appena giunti si sparse la voce che la casa era infestata
dagli spiriti. Ne furono seccatissimi e gli ospiti (come quelli del vangelo) chi con
una scusa chi con un’altra si squagliarono. Causa di tutto una signora bruna, il cui
ritratto pendeva dalla parete di una stanza da letto, e che indossava una veste di
raso con pizzi gialli ed un collare a crespe intorno al collo una
figura di giovane donna perfettamente innocua e dall’aspetto semplice e innocente. Ma tutti
giuravano di averla vista camminare per la casa chi
diceva nel corridoio, chi
nella propria stanza, chi nei sotterranei, e nessuno, né servi né ospiti vollero
rimanere nel palazzo. Il baronetto ne era naturalmente seccatissimo e confidò la
cosa a mio padre che credette fosse uno scherzo di cattivo genere a danno del nuovo
padrone e egli, che era uno dei magistrati del luogo, sapeva che a quel tempo il
Norfolk era infestato da contrabbandieri e ladri ed era convinto che si trattasse di
qualcuno di questi malfattori che cercava di allontanare i Townshend dal palazzo.
Pregò, perciò, i suoi amici che lo lasciassero alloggiare con loro e lo mettessero a
dormire nella stanza dove si sentivano gli spiriti. Avrebbe pensato lui a metterli
in fuga. La proposta fu accettata ed egli si installò nella stanza del famoso
ritratto dove si era più volte vista l’apparizione. Egli dormì sempre col revolver
carico sotto il guanciale e per due notti non vide nulla. La terza notte, l’ultima
che doveva passare al castello, mentre egli stava spogliandosi per andare a letto,
due giovani (erano nipoti del baronetto) bussarono alla sua porta e lo pregarono di
entrare un momento nella loro camera (che era all’altra estremità del corridoio) e
dir loro la sua opinione su di un nuovo fucile giunto allora da Londra. Mio padre
era in camicia e mutande, ma data l’ora e siccome tutti gli altri si erano già
ritirati in ca[
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mera, si mosse per accompagnarli come si trovava. Mentre stava per uscire, volle
prendere il revolver. “Non si sa mai! potremmo incontrare la signora bruna”, disse
ridendo. Esaminato il fucile, i due giovani dissero che avrebbero accompagnato mio
padre caso mai, aggiunsero anch’essi ridendo, dovesse incontrare la signora bruna. E
uscirono tutti tre insieme.
Il corridoio era lungo e scuro, giacché tutte le luci erano state spente. Ma
giunti verso la metà, videro spuntare dal fondo il chiaror di una lampada. “E’ una
delle signore che va nella camera dei bambini”, sussurrarono i due giovani. Ora gli
usci delle stanze erano l’uno in faccia all’altro e ciascuno aveva una doppia porta
con un po’ di spazio tra esse, come era l’uso delle antiche case di campagna. Mio
padre, come ho detto, era in camicia e mutande e per un senso naturale di pudore, si
sentì a disagio in quella posizione e si infilò dietro una di quelle porte esterne
per nascondersi finché la signora fosse passata, e gli altri seguirono il suo
esempio. Mio padre (e l’ho sentito con le mie orecchie) raccontava dunque come egli,
dalla fessura della porta, stette a spiare mentre quella si avvicinava e quando fu
tanto vicina da poter distinguere il colore e la forma del suo vestito, riconobbe
nella figura il facsimile del ritratto della “signora bruna”. Egli aveva il dito sul
grilletto del revolver e stava per intimarle di fermarsi e chiederle che stesse
facendo là, quando la figura si fermò spontaneamente presso la porta, dietro cui
egli stava appiattato, e alzando la lampada alla sua faccia gli rise sul viso.
Quell’atto mandò sulle furie mio padre che era tutt’altro che un agnellino, e
balzando con un salto nel corridoio, le scaricò in faccia il revolver. La figura
disparve all’improvviso dico
la figura su cui si volgevano contemporaneamente gli
sguardi di tre uomini e
la pallottola, attraversata la porta esterna della camera
di rimpetto, andò a conficcarsi nel pannello della porta interna. Mio padre non si
immischiò più nella faccenda e ho sentito dire che la “signora bruna” continua a
farsi vedere nel palazzo. Che essa ci fosse a quel tempo, non c’è ombra di dubbio.
Una quindicina di giorni dopo la morte del Conte di L,
nel 1882 mi recai dal
Duca di Hamilton in Hill Street per una visita medica. Dopo la visita passammo nel
salotto dove si trovava la Duchessa, ed il Duca mi chiese: “Cooper, come sta il
Conte?”. E la Duchessa disse: “Qual Conte?”. E quando io ebbi risposto “Lord L”
“Strano!” disse ella. “Ho avuta una visione veramente straordinaria. Ero andata a
letto e dopo poco tempo, quando non ero ancor bene addormentata, mi parve di vedermi
davanti una scena di teatro. Gli attori erano Lord L,
abbandonato su una sedia come
svenuto e in piedi, chinato su lui, un uomo dalla barba rossa. Questi era a lato
d’una vasca da bagno su cui si vedeva distintamente una lampada rossa”.
Allora dissi: “Ho in cura Lord L,
ma si tratta di cosa da poco e non morrà
certamente per questo, anzi guarirà prestissimo”.
Infatti migliorò per tutta una settimana ed era quasi guarito quando fui chiamato
d’urgenza al suo letto. Egli aveva una polmonite doppia. Chiamai a consulto Sir
William Jenner, ma in sei giorni andò al Creatore. Fu assistito da due infermieri
dei quali uno si ammalò e l’altro, appena lo vidi, mi fe’ ricordare il sogno e la
scena vista dalla Duchessa. Stava infatti presso un bagno, chinato sul Conte e,
strano a dirsi, aveva la barba rossa. C’era anche una lampada rossa sopra il bagno.
Una lampada rossa sopra un bagno è cosa rara, e fu appunto ciò che mi richiamò alla
mente la storia del sogno.
La visione avuta dalla Duchessa fu raccontata due settimane prima della morte di
Lord L.
Il fatto è certamente straordinario. Questo resoconto è stato scritto nel
1888 ed è stato visto e controllato dall’ora defunto Duca di Manchester, il quale
udì la visione da sua figlia stessa la mattina dopo che essa l’ebbe avuta.
La Duchessa conosceva Lord Lsolo
di vista e non sapeva affatto che fosse
ammalato: quando le si presentò la visione, essa non dormiva, cosicché non si
trattava di un sogno, ma di una vera visione; ed essa era certa di ciò, infatti
aperse e chiuse gli occhi per cercare di cacciar via quell’immagine, ma seguitò a
vederla.
La domenica 16 novembre 1913 si stava pranzando: eravamo io, mia moglie, le tre figlie ed il figlio. Alle
13.25 mia moglie vide spuntare presso la finestra, ma dentro la stanza, una nuvoletta che si condensò man
mano in modo da assumere la forma di un feretro con una targhetta dove essa non riuscì a decifrare il nome,
ma la piastra aveva la forma di una foglia di vite. Stemmo ad ascoltarla in silenzio, senza veder nulla. La
visione svanì, ma pochi minuti dopo, mentre eravamo ancora a tavola, ne seguì un’altra. Mia moglie vide di
nuovo una nuvola di nebbia che assunse una forma rotonda e poi si trasformò in un grosso C maiuscolo. Quindi
vide una catinella piena d’acqua, dove l’acqua ribollendo si allargava in onde. Quindi la lettera C si immerse
nell’acqua e la visione sparì. Alludeva forse alla morte di un uomo di mare?
Il mercoledì 26 novembre eravamo di nuovo a pranzo, quando mia moglie vide una nuvoletta scura che si
trasformò anch’essa in un feretro.
La notte di Natale dopo la solita riunione di parenti e amici, un po’ prima delle 22 qualcuno propose una
seduta spiritica, e sedemmo in buona luce. Alle 22 ottenemmo un messaggio che parlava di morte. Era una
stonatura in mezzo alla festa; perciò mandammo a monte la seduta e riprendemmo i soliti giuochi e le liete
conversazioni di una serata familiare.
Il domani, 26 dicembre, il giorno delle strenne, giunge un telegramma annunciante la morte improvvisa del
fratello di mia moglie, Jack, avvenuta la sera avanti! Mia moglie constatò che era morto per paralisi cardiaca
alle 22 del giorno di Natale. Essa non si curò, non spettando a lei, del funerale; ma vista la cassa, notò che la
targa era foggiata a foglia di vite, proprio come ella aveva visto il 14 novembre, circa sei settimane prima.
L’annunzio della morte di Giovanni Burnett, comparso in The Sunderland Echo del 26-27 dicembre dice:
Il giorno di Natale (improvvisamente) Giovanni Burnett, di anni 47.
Nel settembre dell’anno 1892 ero curato in una cittadina del Nord del Paese di
Galles. Mi ero dato agli studi astronomici e da quattro giorni non facevo che
pensare ai telescopi e ai relativi problemi. Passai la sera presso alcuni amici e
tra le undici e la mezzanotte mi incamminai verso casa sempre assorbito dai miei
problemi. Quando raggiunsi l’uscio di casa mia, vidi splendere il pianeta Giove e
decisi di osservarlo. Trassi fuori il cannocchiale nella sala d’entrata, che
attraversai per andare a prendere il sostegno in una stanza che non conteneva altri
mobili che un tavolo, alcune sedie ed il detto sostegno del telescopio. Apersi la
porta, entrai nella stanza che era immersa nell’oscurità, feci due passi e mi fermai
a tastare con le mani tese. Ed ecco che mi vedo, d’un tratto, sotto le mani tese un
letto al completo. Mi arrivava supergiù alle ginocchia. La testa era la parte più
distinta, verso i piedi andava perdendosi nell’oscurità. Benché tutto intorno fosse
buio pesto, vedevo il letto chiaramente e distintamente, e non mi passò nemmeno per
la mente che la cosa fosse per lo meno strana.
In letto c’era qualcuno. Notai i guanciali bianchi, il bianco lenzuolo ben
rimboccato sul petto, ben stirato e spianato come se chi l’occupava se ne stesse là
immobile. Il copriletto era grigio scuro. L’occupava una giovane di circa 23 anni,
dalle fattezze regolari, chiaramente visibili. I capelli neri e le sopracciglia nere
spiccavano sul bianco del guanciale. Giaceva supina, ma colla faccia volta da una
parte e con profilo nettamente distinto. Il braccio sinistro, il più vicino a me,
ricadeva sul fianco del letto. L’avambraccio era lungo e sottile, ma la cosa più
singolare era la mano, specialmente nella posizione che aveva presa. Era
piccolissima in confronto del braccio così lungo e aveva una delicatezza di forma
che non so descrivere. Era una mano meravigliosa; certo non avevo mai vista una mano
più bella. Strana era la maniera con cui la mano ricadeva giù di colpo, presso il
polso, in modo da formar quasi un angolo retto col braccio. Tutto questo osservai in
pochi secondi, poi fui fuori in un baleno, chiusi pian piano la porta e salii su per
la scala scoppiando di rabbia. Entrai nella stanza del mio coinquilino esclamando:
“Quella cretina (cioè la nostra degna padrona di casa) ha messo qualcuna delle sue
amiche a dormire nella stanza vuota, di sotto, e mancò un filo che non le cadessi
addosso, al buio”. Si fece un po’ di maldicenza sulle padrone di casa in genere e
andai a dormire. Il di seguente chiesi alla servetta, senza darle a vedere il mio
dispetto, chi c’era in quella stanza la notte scorsa. Sgranò gli occhi sorpresa.
Abbordai la padrona, anch’essa casca dalle nuvole. “Insomma”, le dissi chiaro e
tondo, “voi avete messo una vostra amica a dormire in quella stanza”. Non era vero
affatto, rispose; facessi un giro per le stanze per assicurarmi. Di quel letto visto
da me, non c’era ombra e finii per convincermi che la Sig.ra Hughes dicesse la
verità. Mi si affacciò bel bello l’idea che quello non fosse un letto materiale. Ero
sempre vissuto come un orso, e non avevo mai vista una faccia simile a quella donna
apparsami in visione.
Nell’anno 1868 mi trovavo, in qualità di terzo ufficiale, a bordo del veliero
Persian Empire diretto da Adelaide a Londra con carico completo di legname ecc.
Avevamo perduto due uomini, che, abbandonata la nave, erano accorsi la dove si
scavava l’oro. Siccome in quella città era difficile trovar complementi, eravamo
rassegnati a fare la traversata con due uomini di meno, quando il dì seguente, prima
di far vela, capitò a bordo un uomo che si diceva ansioso d’imbarcarsi e tornar in
patria.
Il capitano fu colpito dal suo aspetto distinto e simpatico e da una certa aria
di bravura e siccome poté anche produrre un ottimo certificato di sevizio nel
precedente imbarco, lo accettò a bordo. Era anche decorato di una medaglia d’oro da
parte della Royal Human Society per il coraggio dimostrato in parecchi salvataggi.
Costui, dunque, che disse chiamarsi Cleary, fu accompagnato a terra e condotto dal
capitano all’ufficio imbarchi, dove fu assunto in servizio e ricevette l’ordine di
presentarsi a bordo alle 6 del giorno seguente.
Però non si fece vivo e così il capitano mi mandò a terra a farne ricerca.
Dopo lunghe e vane ricerche, presi la via del ritorno e mentre tornavo, lo trovai
che vagava attorno con un aspetto di can bastonato. Gli chiesi perché non si fosse
presentato; però al solo guardarlo mi accorsi che doveva essergli capitata qualche
cosa. Riuscii con buone parole a deciderlo a venire a bordo e durante il cammino si
parlò del più e del meno. Egli si rinfrancò e tornò l’uomo di prima.
Cadde il discorso sulle qualità della nostra nave ed egli mi chiese se era solida
e sicura, aggiungendo con un singolar tono di voce che sperava che lo trasporterebbe
sano e salvo a casa. Gli dissi che la nave era quanto di meglio poteva aspettarsi;
varata appena da cinque anni e classificata A. I. al registro del Lloyd. Sembrò
tranquillizzato su questo punto. Intanto eravamo giunti presso il fianco della nave
e salimmo a bordo.
Passò una settimana ed una notte si scatenò una piccola tempesta: si levò una
raffica da occidente che sollevò subito grosse ondate. Mi toccò il secondo turno di
guardia, dalle 24 alle 4, e tra i miei uomini vi era Cleary. Or accadde che mentre
egli prendeva il suo posto al timone, mi trovassi vicino alla bussola ed egli mi
rivolse la parola.
“Sig. Fleet”.
“Oh, siete voi, Cleary?”.
“Sissignore. Se mi permette, vorrei spiegarle come andò che quella mattina non mi
presentai a bordo, come era mio dovere”.
“Quale fu dunque il motivo?”.
“Ecco; quando lasciai il capitano, tornai a casa per far su le mie cose e
sbrigare alcune faccende, ma feci così tardi che dovetti andare a letto prima che
avessi finito ciò che avevo per le mani, e rimandarlo al domani. Or bene Ella deve
sapere”, e qui abbassò la voce e prese un tono misterioso “che nella notte feci un
sogno, un sogno veramente brutto e stranissimo. Crede Lei ai sogni?”.
“Ma! non saprei nemmeno io se crederci o no. Ne ho visto avverare di veramente
singolari”.
“Ed è appunto quello che mi spaventa”, disse egli e si fece pallido in viso e gli
spuntarono sulla fronte grosse goccie di sudore. “Ma voglio raccontarle il sogno, ed
Ella giudicherà. Per tutta la via del ritorno al mio alloggio non potei pensare ad
altro che alla nave dove dovevo imbarcarmi per tornare a casa mia. Com’era naturale,
mi addormentai con quel pensiero e finii per sognarmi di essa. Il Persian Empire era
al largo del Capo Horn e, la mattina di Natale, si trovava in mezzo a una violenta
tempesta su un mare infuriato. Io, cogli uomini della mia guardia, ricevetti
l’ordine di assicurare un battello di salvataggio che pendeva dalle gru fuori bordo. Entrai
nel battello, mentre gli altri rimanevano sul ponte e mentre lavoravo, ci piombò
addosso una terribile ondata che spazzò via e lanciò me ed un altro marinaio in
mare, dove perimmo annegati. Non ricordo altro. Mi svegliai e da quel momento non
potei più levarmi quel sogno di testa”.
Gli dissi che non doveva lasciarsi impressionare da sciocchezze simili, e tentai
anche di fargli prendere la cosa in ridere, ma non ci riuscii.
Subito dopo il tempo si rasserenò, ma solo per breve tempo, perché ci colse poco
dopo un’altra tempesta. Una notte, mentre eravamo poco lontani dal Capo Horn, mi era
toccato il primo turno di guardia, dalle 8 alle 12, mentre il primo ufficiale,
Douglas, faceva il servizio di coperta. Gli uomini della guardia, eccetto quello al
timone e quello di vedetta, o dormivano o attendevano ordini; tra i primi c’era
Cleary. Udii un grido e, correndo sotto coperta per conoscerne la causa, trovai
Cleary pallido e contraffatto come un morto e in preda ad una grande agitazione. Era
lui che aveva dato quel grido perché, mi disse, aveva avuto di nuovo quel sogno. Ci
volle del bello e del buono per calmarlo, e anche quando si fu un po’
tranquillizzato, continuava a borbottare: “So che si avvererà”.
Il domani era Natale. Alle otto Douglas andò a riferire al capitano che il tempo
si manteneva cattivo e il barometro scendeva. Poco dopo tornò in coperta e mi disse
che il capitano gli aveva dato ordine di assicurare l’imbarcazione di babordo per
tenerla pronta in caso il mare continuasse a ingrossare.
All’udir quest’ordine non potei a meno di pensare a Cleary e al suo sogno con un
presentimento che dovesse accader qualche cosa. Ma col dovere non si scherza. Il
mare ingrossava e cominciava a irrompere in coperta con grande violenza, perciò
mandai a chiamare sul ponte gli uomini. Ubbidirono tutti: solo Cleary rimase
indietro. Lo chiamai: perché non veniva su cogli altri? Non ricevendo risposta,
entrai addirittura nel castello di prua e lo trovai seduto sulla sua cassetta colla
faccia affondata tra le mani: sembrava un uomo morto.
Mi sedetti vicino a lui e gli chiesi che cosa avesse. Dapprima si rifiutò di
rispondere, poi tirò di nuovo in ballo il sogno, dicendo in tono di disperazione e
senza alzare il viso: “O Signore, sento che sta per avverarsi”. E questa era la
ragione per cui non era venuto su cogli altri uomini. Gli chiesi se intendeva o no
fare il suo dovere e mi rispose di no. Gli dissi allora che, ad ogni modo, doveva
venire con me dal capitano per essere segnato sul giornale di bordo per rifiuto di
obbedienza. Andò dal capitano, il quale dopo aver cercato invano colle buone di
persuaderlo a comportarsi da uomo facendo quanto gli si comandava, tirò fuori il
registro e mi disse di andar a chiamar Douglas affinché facesse da testimonio.
Quando ebbe scritto il rapporto e lettolo a Cleary, che lo trovò esatto, il primo
ufficiale prese su la penna per firmare. In quel momento Cleary, con voce eccitata,
gridò: “Bene, andrò a fare il mio dovere; ora conosco l’altro uomo del sogno”. E
così dicendo guardava Douglas che guardò prima lui poi me quasi a dire: “Che
significa ciò?”. Risalendo sul ponte spiegai a Douglas l’affare del sogno. Rise
all’idea di esser proprio lui la persona accennata in esso. Ma io avevo uno strano
presentimento e salii in coperta con tutt’altra voglia che di ridere. Trovammo gli
uomini pronti in attesa di ordini intorno all’imbarcazione. Il còmpito che ci
attendeva era di sollevarla sopra i marosi colla chiglia in fuori. Per far ciò si
doveva passarle attorno due giri di corda, agganciarvi un paranco fissato alle
manovre di mezzana, che, tesandosi, l’avrebbe sollevata. Cleary saltò nel battello
per passarvi intorno le funi, Douglas si sporse fuori del fianco della nave per
porgermi le funi, che prendeva da Cleary e per allentare i venti delle gru. Il primo
ufficiale si teneva con una mano alla ringhiera che cingeva il cassero e stava per porgermi i
cavi quando il timoniere, con un falso colpo di barra, lanciò la nave sopravvento,
e, guardando avanti, vidi venirci addosso un immenso cavallone che mi pareva dovesse
capovolgere la nave. Gridai subito: “Attenzione! è qui che viene”. Ci precipitammo
verso l’albero di mezzana e ci afferrammo ad esso disperatamente. Ma Cleary e
Douglas non fecero a tempo. L’ondata si rovesciò sulla nave a tribordo con tale
violenza che la mandò sull’estremità dei bagli, invadendo i ponti, sconquassando
ogni cosa e, purtroppo, spazzando via i due disgraziati. Il battello, investito in
pieno, si capovolse, le robuste gru di ferro venivano spezzate come fuscelli, e
l’imbarcazione era spazzata via con Cleary aggrappato ad essa. Douglas stette un po’
aggrappato alla ringhiera, tentando invano di risalire a bordo; ma l’impeto
dell’acqua era troppo violento e con un grido d’aiuto e uno sguardo di disperazione
il disgraziato precipitò in mare.
Appena il cassero fu un po’ liberato dai marosi, mi arrampicai sulla coffa di
mezzana per vedere che cosa era avvenuto dei due. Douglas cercava invano di salire
sopra una stia che era stata spazzata via dal cassero, che era pieno di galline: gli
galleggiava vicino anche un salvagente, dei due che avevamo lanciato in mare. Cleary
si toglieva l’incerata tenendosi a galla e cercando di avvicinarsi a Douglas che non
sapeva nuotare e, per di più, era impacciato dagli abiti, giacché, facendo molto
freddo, si era tutto imbacuccato. Cleary doveva essere un nuotatore ben
straordinario per poter tenersi a galla con quel mare infuriato. Riuscì ad
avvicinarsi a Douglas e cercò di aiutarlo a salir sulla stia. Ma subito dopo
sopravvenne una grossa ondata che li ricoperse; passata la quale non vidi più
nessuno dei due. Così i poveretti morirono insieme.
Giungemmo a Londra due mesi dopo la disgrazia e tre mesi dopo che lasciammo
Adelaide.
Lunedì, 29 aprile 1912. Erano appena scoccate le sette: c’era ancora un’ora prima che
arrivasse la posta. Svegliai mia moglie ed essa mi disse che nella notte aveva avuto un sogno chiarissimo per
ben tre volte: la prima volta alle tre (aveva sentito battere le tre appena svegliata), poi verso le cinque, e
riaddormentatasi aveva avuto ancora la stessa visione. Le pareva di vedere Bonnot, il famoso bandito parigino
in una casa circondata dalla polizia che faceva fuoco su lui. Poi i poliziotti si avvicinarono alla casa su un carro
di fieno e la bloccavano. Vedeva Bonnot sopra un letto e i poliziotti scaricargli addosso le armi “crivellandolo
di ferite”. Vedeva quindi il cadavere gettato sul davanti di un automobile e portato al posto di polizia. All’udire
questo racconto, diedi una risata. Bonnot aveva ucciso proprio in quei giorni il Capo della Polizia di Parigi e
parecchi altri che avevano tentato di catturarlo. “Temo”, dissi “che darà loro ancora del filo da torcere”. Rise
anch’essa e non ci pensammo più.
Alle otto giunse la posta ma mancavano i giornali: evidentemente, non erano stati impostati a tempo, e in
tali casi non arriva che alle 17. Eravamo così senza notizie fin dal sabato.
Dopo colazione mi recai ad Otley, distante tre miglia. Solo più tardi vidi gli affissi sulle cantonate, di cui
uno portava la notizia: “Bonnot ucciso a fucilate”. Potevo a stento credere ai miei occhi. Lessi allora i
particolari sul giornale e trovai che combinavano a puntino col sogno di mia moglie!
Quando giunsi a casa, alla sera, mi vidi venir incontro mia moglie colle domestiche: “Eccolo qui! eccolo qui!”.
Prima dell’arrivo dei giornali colla posta delle 17, mia moglie aveva raccontato il sogno alle domestiche ed esse
firmarono una dichiarazione di ciò sul mio diario. L’uccisione di Bonnot avvenne in Parigi verso il mezzogiorno
della domenica e fu rivelato in sogno a mia moglie alle tre del mattino seguente. Di domenica non si stampano
giornali e le prime notizie del fatto apparvero nei giornali di lunedì. Io ebbi i particolari del sogno singolare da
mia moglie subito dopo le sette prima che giungesse la posta, mentre essa era ancora a letto e quasi dieci ore
prima che ci fosse recapitato il giornale. La singolarità di questa rivelazione apparirà evidente se si
confronteranno i seguenti dati:
1. Bonnot si rifugiò in una casa che fu dapprima bloccata dai soldati e dalla polizia, che vi spararono contro
da lontano coi fucili.
2. La polizia si servì, per avvicinarsi alla casa, di un carro carico di fascine dietro cui si appostarono.
3. Finalmente diedero l’assalto alla casa e fecero irruzione nella stanza dove Bonnot si era appiattato tra
un materasso e l’altro.
4. Presolo su moribondo, lo legarono mani e piedi, lo misero in un automobile e lo portarono alla stazione di
polizia, dove morì dopo venti minuti.
Questa partecipazione soprannaturale di avvenimenti passati o futuri a mia moglie è cosa davvero
impressionante. Ecco un caso in cui le fu comunicata un’informazione per chiarudienza da un’apparizione che
ella ebbe il 28 luglio 1916 alle ore 23. Mentre andavamo a letto mia moglie vide un omino, tutto sbarbato, ritto
presso il letto, e lo udì chiaramente dire: “Sono Giacomo Tweedale di Mashushets”. E ripeté ciò più volte. La
figura rimase visibile quindici minuti; il tempo massimo che durano le apparizioni da lei viste. Avevo uno zio,
Giacomo Tweedale, ma egli visse e morì in Inghilterra, e, perciò, non capivo il senso del messaggio. Il lunedì 7
agosto ci arriva dagli Stati Uniti un pacco di vecchie fotografie prese un sessant’anni prima e spedite da una
lontana parente stabilita negli S. U. con una lettera in cui diceva che ella me le mandava perché dovevano
toccare a me, essendo io parente più stretto. Tra le altre c’era un ritratto di mio zio Giacomo Tweedale, colle
labbra completamente rasate. La fotografia ci piovve, come a dire, dal cielo! Era spedita da una città dello
stato di Connecticut, U. S. A., non lungi dal confine del Massachussets! Doveva essere in viaggio quando
apparve la figura.
Un fatto simile, ma più meraviglioso ancora, occorse la sera dell’ultimo dell’anno 1922. Avevamo prolungata
la veglia per veder entrare il nuovo anno e ci eravamo ritirati alle ore 1.30 del I° gennaio. Appena spenta la
luce, mia moglie mi chiese: “Non vedi nulla presso il guardaroba?”. Io non vedevo nulla e ero curioso di sapere
che cosa ci vedesse lei. “Una faccia”, mi disse, e poi soggiunse: “E’ P-” riconoscendola come quella di un curato
nostro amico, il Rev. E. P- di cui non avevamo avuto notizie fin dalla metà dell’estate 1920, quando venne a
trovarci a Weston e ci annunziò la sua intenzione di partir per l’Oriente come missionario. Egli mostrava sulla
guancia una lunga ferita, non però recente e già in parte rimarginata. Poi la figura svanì. Pochi minuti dopo
disse di nuovo: “Vedo una scena così meravigliosa! C’è della folla. Distinguo chiaramente una faccia. Mi fa
ricordare i ritratti di Stead”. Poi aguzzando l’occhio, “Sì! E’ proprio Stead”. Anche questa faccia svanì, ed
essa continuò: “Ora vedo cinque faccie, tutte giovani, in mezzo ad una nuvola bianca”. Chiesi se ne conoscesse
qualcuno. Non ne riconosceva nessuno. Durante la visione le
feci chiudere gli occhi e glieli feci coprir colla mano per vedere se ciò le precludesse la visione, il criterio che
escogitai e descrissi in Luce qualche tempo prima per distinguere i fenomeni di chiaroveggenza esterna ed
obbiettiva. Se gli occhi eran chiusi, o adombrati colla mano, la visione doveva scomparire; dunque era reale ed
esterna all’occhio.
Quando mia moglie diventa chiaroveggente, alle volte vedo anch’io ciò che essa vede. Però allora non vidi
nulla.
La visione ebbe luogo verso le due del I° gennaio 1923. Dopo ci addormentammo e, svegliatici verso le
7.30, vi ritornammo su e pensando all’amico P- stemmo un po’ ad almanaccare che cosa gli potesse esser
capitato. Alle 8 giunse la posta e ci fu portata in camera. Tra l’altro c’era una lettera di Sir Arthur Conan
Doyle con acclusa una fotografia del Cenotafio, presa dalla Sig.ra Deane, durante il silenzio, l’11 novembre
1922. Qual non fu la nostra meraviglia vedendo che la fotografia mostrava cinque faccie complete tra molte
altre sfumate in mezzo ad una nube radiosa proprio come le aveva viste e descritte mia moglie sei ore prima!
Nessuno di noi aveva mai vista questa fotografia, e non aspettavamo né questa né altre fotografie. E la nostra
sorpresa crebbe quando vedemmo che chi l’aveva pubblicata era Miss Estelle Stead. Il significato di una
parte della visione era ora chiaro: era senza dubbio W. T. Stead che si era manifestato volendoci dare un’idea
della fotografia che era in viaggio per noi.
Esaminai accuratamente la busta: era intatta come Sir Arthur l’aveva chiusa. Portava il timbro postale di
Crowborough colla data del 20 dicembre, venerdì, ma siccome il pomeriggio del sabato e la domenica non c’è
distribuzione, non ci fu recapitata fino alla mattina del lunedì I° gennaio. Avanzai l’ipotesi che la prima figura
vista da mia moglie non fosse l’amico P- ma un soldato ferito. No, essa aveva proprio vista la faccia di P-, non
ne aveva dubbio. Su questo punto della visione non avevamo alcun lume: da due anni non avevamo notizie di P- e
non sapevamo nemmeno dove fosse. Scrissi subito a Sir Arthur parlandogli della visione e della sua
meravigliosa corrispondenza colla realtà.
Verso la metà di gennaio scrissi alla Church Missionary Society per sapere se il mio amico fosse entrato al
servizio della Società. Mi risposero che tra loro non c’era alcuno che rispondesse a quel nome e a quei
connotati: credevano che avrei potuto trovarlo presso la S. P. G. Missionary Society. Infatti, rivoltomi a
questa associazione, ricevetti colla data del 30 gennaio 1923 una cartolina coll’indirizzo del nostro amico: si
trovava a Borneo in qualità di missionario. Gli scrissi il I° febbraio informandolo della visione di mia moglie: mi
mandasse
sue notizie e mi dicesse che significato poteva avere la visione. Il 10 febbraio comparve in Luce il primo
resoconto della visione. Il 25 aprile avemmo nel pomeriggio la visita della Sig.ra Kelway-Bamber che voleva far
la nostra conoscenza. Si parlò di cose psichiche e durante la conversazione venne il postino alla porta e mia
figlia Dorotea ricevette da lui la corrispondenza e me la portò dicendo: “C’è una lettera da Borneo”. Mi
sovvenne allora della visione e la raccontai in quattro parole alla nostra visitatrice, quindi, come conclusione, le
porsi la lettera ricevuta allora allora. “Viene da Borneo”, le dissi, “e credo scioglierà l’enigma”. La pregai di
esaminar la busta prima che io l’aprissi per vedere se era intatta. L’esaminò con tutta diligenza e la trovò in
perfetta condizione, e ci fece anche osservare i caratteri cinesi che apparivano sul bollo sottile di ceralacca
nera con cui era suggellata la lettera. Allora io in presenza di lei e di mia moglie apersi la lettera e lessi, con
stupore e piacere allo stesso tempo, la seguente dichiarazione del nostro amico, Rev. E. P.- che ci scriveva da
un posto di missione presso Sarawak, in data 23 marzo 1923:
Il 19 gennaio 1922 nacque il nostro secondo genito ed il giorno seguente mi
accadde un disgraziato incidente in cui mi ferii piuttosto gravemente alla faccia.
Ora però, grazie a Dio, non c’è nemmeno più la traccia. La scampai bella! Non ne
feci cenno ad alcuno in Inghilterra… Non vorrei pensarci più.
Una sera portavo a dormire il mio bambino di tre anni. Era buio e quando fui a
metà del primo tronco della scala mi sentii toccare distintamente e udii da un lato
il frusciar di una veste come se una donna mi avesse sfiorato. Non c’era anima viva.
Nel secondo tronco si ripeté il contatto e più distintamente ancora. La cosa mi
impressionò talmente che, messo il bambino a letto, decisi di rimaner presso di lui
finché tornasse mio marito. E infatti mi coricai sul letto colla faccia rivolta al
fanciullo.
Tutt’ad un tratto il bambino scattò su dicendo: “Mamma, c’è una signora dietro di
te”. Nello stesso momento mi sentii toccare e sentii che chi mi toccava era la mia
povera amica, ma non ebbi il coraggio di voltar la testa.
Quando tornò mio marito seppi da lui allora soltanto che la mia amica era morta
tre giorni prima.
La pressione è ripetuta tre volte e vi sono due testimoni. Il fatto è molto simile a quello della principessa
di Cristoforo (135). Ecco ora un altro caso che mostra come il corpo spirituale sia capace di esercitare una
sensibile pressione anche senza essere materializzato (S. P. R. Atti, vol. III, pag. 80), su oggetti materiali.
Quasi ogni notte solevo udire quei passi e alle volte mi sedevo sulla scala
tenendo colle mani la ringhiera da ambo le parti. Niente di corporeo avrebbe potuto
passare, eppure udivo distintamente i passi oltrepassarmi. Due scalini del braccio
inferiore di solito scricchiolavano quando ci si passava sopra. Orbene quando io
udivo quei passi, li contavo ed immancabilmente, quando giungevano su quei due
gradini, sentivo lo scricchiolio. Era come un piede pesante e scalzo.