Del discutibile “femminismo” di Bernard-Henri Lévy
Fin qui tutto bene, poi però il filosofo pare non riuscire davvero a resistere la tentazione di “allargarsi”. E così, scrivendo delle donne arabe che si vestono con le loro soffocanti vesti tradizionali, commenta: “Ma occorre essere in malafede o, peggio, stupidi, per scoprire oggi un meccanismo di asservimento volontario descritto cinque secoli fa da un certo Etienne de La Boétie. Soprattutto, non si capisce perché mai le “donne” non sarebbero anch’esse, fosse pure a loro svantaggio, parte attiva di una offensiva ideologica che attraversa il mondo musulmano…”. E qui, sempre secondo Bernard-Henri Lévy, si chiuderebbe tutta la questione-burkini, la quale non sarebbe una questione religiosa ma sarebbe tutta una questione “politica”. Ne deriva che da ora in poi il filosofo attenderà che siano gli “Imam” ad intervenire e a risolvere “ma pacatamente. Sta a loro ricordare che la democrazia, come la Repubblica, è tutto…” ammonisce, anche lui tutto compreso Lévy … and so on and so forth, in una cascata impressionante di pensiero radical-chic da far invidia ai peggiori tempi bulgari della nostra intellettocrazia bulgara.
Premesso che si può essere d’accordo con l’idea che le democrazie occidentali non debbano usare le stesse metodologie dei talebani, imponendo coercizioni “pesantissime” sulla nostra libertà di individui, e premessso che si può convenire che il burkini è anche, dico io, una questione politica importante, una dinamica trendy dentro le altre più intricate della guerra ideologica che si sta combattendo, resto tuttavia abbastanza perplessa dall’analisi epidermica che fa questo filosofo di nome (nella speranza che il nome se lo sia fatto costruendo una sua filosofia di sostanza e non perché ospite “pregiato” in questa o quella trasmissione televisiva nazionalpopolare), della complessa e gravissima questione femminile che interessa le donne musulmane.
Ragionando sulle basi settate da Lévy, le quali vorrebbero l’universo femminile musulmano, in qualche modo “complice” dello stato di soggezione in cui versano, da millenni ormai, i suoi membri, si dovrebbe argomentare, nonché giungere alla tragica conclusione, che le vittime della cosiddetta Sindrome di Stoccolma, vale a dire di quella patologia che comporta dipendenza psicologica degli individui che subiscono violenza, a qualsiasi titolo, nei confronti dei loro aguzzini, siano in fondo delle idealiste-corree rispetto allo stato di “detenzione” morale e spirituale in cui versano: ma stiamo scherzando? Per non parlare poi del sostrato culturale in oggetto che è tutto fuorché uno dove le cose si possono discutere “pacamente” come pretenderebbe il radical-chichismo occidentale, o pensa Lévy che i musulmani di Francia siano davvero così staccati dai loro paesi d’origine? Che nei loro comodini vegli la fotografia rassicurante di Voltaire? Personalmente a Bernard-Henri Lévy io consiglierei di leggere, tra le altre, la storia di Reyaneh Jabbari, che abbiamo anche molto celebrato su questo sito, e delle tante altre donne arabe (in questo caso lei era iraniana) che hanno anche solo pensato di ribellarsi contro il diktat religioso, e che sono state appunto “pacatamente” impiccate, proprio dai più saggi nelle loro comunità.
Quando leggo lectio-magistralis come quella proposta da Bernard-Henri Lévy sul Corsera, il dubbio che il pensiero filosofico di sostanza sia davvero finito con la fine dell’età classica in Grecia, con solo qualche stella brillante in terra di Germania negli ultimi secoli, diventa certezza. Ed è in fondo pure questa l’unica ragione spendibile per giustificare il tempo speso a leggere cotanta dissertazione pedagogica.
Rina Brundu