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Scuola, formazione e università. Se la Sapienza arriva al 163simo posto nel mondo. Sul digital-divide e sulla necessità dell’educazione alla “laicità” e al metodo scientifico in fase prescolare in Italia.

crayons-pencils-header-2140-1024x300di Rina Brundu. Alcuni giorni fa IL FATTO QUOTIDIANO ha pubblicato un interessantissimo pezzo titolato “Università, ecco le migliori del mondo: la prima italiana è la Sapienza (163°)”. Simili articoli e simili classifiche a dire il vero non sono rare e di tanto in tanto capita pure che qualche università italiana ottenga un ranking migliore. Il “gist” del discorso tuttavia non cambia mai e ad arrivare in testa alle classifiche sono sempre le università anglosassoni, in particolare Harvard, Standford, Berkeley, Cambridge, MIT, Princeton, Oxford, Caltech (dove lavora finanche il mitico Sheldon Cooper!), Columbia, Chicago, etc, etc, etc.

Del resto, scagli la prima pietra il genitore italico che avendone la possibilità non farebbe studiare il proprio figlio in codesti atenei, invece di mandarlo alla Sapienza, alla Bocconi, alla Normale, tanto per citare il fiore all’occhiello del nostro meglio accademico? Lo farebbero tutti, immagino. Certamente lo farebbero tutti coloro che hanno un know-how anche minimo di come girano le cose a livello globale, oggigiorno. In verità, basta anche solo entrare in quegli atenei per settare già un digital-divide di partenza sostanziale, il quale poi potrà essere colmato solo da una vena intellettuale e geniale personale e in quanto tale non inquadrabile dentro i normali iter formazionali.

È un peccato! È un peccato perché a dispetto della mia educazione mentale prettamente anglosassone e della mia ferma idea che quei luoghi di studio siano sicuramente il meglio che può capitare sulla strada di un qualunque giovane della nostra età digitale, io ho una grande opinione delle capacità intellettuali italiche. Per esempio, io penso che i nostri fisici e i nostri ingegneri non abbiano nulla da invidiare a nessuno, piuttosto che abbiano tanto da insegnare. Ma allora perché per poterlo fare – e quindi per potersi affermare professionalmente – debbono per forza arrivare fino ad Harvard? Perché se non lo fanno nessuno li prenderà mai in seria considerazione?

A mio avviso, la risposta non è di quelle che richiede cervelli fini tipo rocket-scientist. Il motivo non è neppure un motivo ideale, idealizzato, idealizzante, quanto piuttosto uno molto pragmatico, razionale, finanche semplice: perché gli americani considerano la formazione, l’istruzione dei loro figli una cosa molto seria e della stessa ne fanno una priorità. Sicuramente questa è una priorità delle buone famiglie statunitensi, quando per “buone” famiglie si intende un cenacolo capace e liberato, indipendentemente da quelle che sono le possibilità economiche.

Ma cosa sono le università americane oggidì? Cosa sono state per lungo, lunghissimo tempo? Sono per lo più delle vere e proprie aziende che funzionano come tali. Conseguenza delle cose è che si possono permettere di vivere senza  sussidi statali (e quindi gli americani non debbono neppure leggere sui giornali i ridicoli appelli di questo o quel rettore per maggiori finanziamenti a carico del contribuente), possono fare ricerca e grazie a borse di studio sostanziali possono attrarre le migliori menti da tutto il mondo, nonché capitalizzare su ciò che viene prodotto da queste risorse umane di primo piano. Così come in primo piano viene messo il merito, mentre anche il riguardo per “l’età” trova il tempo che trova, laddove – proprio come si fa nei migliori centri scientifici di tutto il mondo, CERN incluso – in presenza di una mente brillante di dieci o dodici anni che ti chiude l’equazione criptica a colazione tutti gli altri debbono per forza di cose accomodarsi mestamente in coda (immagina se lo stesso metodo si adottasse anche con le dinamiche della dirigenza politica in Italia? La coda arriverebbe praticamente fino in Nepal e non avrebbe capo).

Mondi alieni rispetto a noi? Sicuramente, sì. La distanza mentale che esiste tra l’approccio didattico e formativo d’oltreatlantico e il nostro è la stessa che esiste tra la via Lattea e il confine dell’universo. Senza dimenticare che il nostro problema, secondo me, si propone a livello universitario solo in seconda battuta. Di fatto noi partiamo col piede sbagliato fin dall’inizio: sbagliamo quando facciamo vivere i nostri figli dentro una cultura di background estremamente negativa, infarcita di programmi televisivi nazionalpopolari inneggianti ai “miracoli” e alle messe cantate; sbagliamo quando li portiamo al catechismo e li costringiamo a riflessioni esegetiche di ridicole storielle bibliche; sbagliamo quando censuriamo la loro capacità di critica; sbagliamo quando prima di iscriverli a qualunque scuola non controlliamo che tipologia di insegnamento viene proposto e il curriculum degli insegnanti; sbagliamo quando pensiamo che vivere un sano spirito religioso se non bene non potrà fare comunque male.

Sbagliato! Sbagliatissimo! Di fatto è proprio in età prescolare che si possono tarpare le ali senza possibilità di ritorno a dei giovanissimi ingegni molto capaci.  Di sicuro è mia ferma convinzione che una sana educazione alla laicità e al metodo scientifico in giovanissima età possa fare una differenza sostanziale e decidere finanche il destino degli individui. Come sono giunta a cotanta illuminazione? Onestamente non solo per una naturale inclinazione d’intelletto ma anche perché mi sono presa la briga di studiare il destino di tanti figli di scienziati. Alla stregua delle antiche famiglie di notai, avvocati, medici… ho notato che gli scienziati creano delle dinastie (e poi delle comunità) e se era un uomo di scienza il padre o una donna di scienza la madre non è raro che lo sia anche il figlio.

Come a dire che l’esempio dato in famiglia fa una differenza anche in questo delicato settore. Se poi guardiamo al futuro intellettualmente molto challenging che ci attende non ho dubbio alcuno che i pargoli di persone impegnate dentro circoli scientifici partano avvantaggiati, con una marcia in più, siano insomma i figli più fortunati del nostro domani. Nel futuro che verrà infatti sarà quel tipo di educazione la maggior eredità che un genitore potrà lasciare alla sua discendenza, quella che risolverà il suo futuro al meglio e gli/le regalerà finanche la felicità dello spirito.