Circa i migranti e i ricchi Stati arabi
di Michele Marsonet. C’è una domanda, semplice semplice, che quasi nessuno pone quando si parla della tragedia dei migranti. Tragedia che sempre più sta assumendo i contorni di una vera e propria invasione del continente europeo, visto il numero enorme di persone che continuano a riversarsi sulle coste italiane e greche per proseguire poi – nella maggioranza dei casi – verso le nazioni del Nord.
Il quesito è il seguente. Perché gli straricchi Paesi arabi, in primis quelli del Golfo, fanno poco o niente per aiutare questa massa di sventurati ai quali li accomuna in genere la fede religiosa e una concezione della vita, dello Stato e della convivenza civile improntati a precetti che gli europei non possono accettare, pena lo stravolgimento di quella “società aperta” che è si è fatta strada da noi con enorme fatica?
La galassia di regni, sultanati, emirati e sceiccati diventati ricchissimi grazie ai proventi del petrolio potrebbe, se solo lo volesse, intervenire sul piano tanto umanitario quanto economico, in nome di quella solidarietà tra fratelli che la Lega Araba ha sempre predicato guardandosi bene, tuttavia, dal metterla in pratica.
Arabia Saudita, Emirati, Qatar, Kuwait etc. possiedono capitali immensi che, a volte, le dinastie che li dominano fanno addirittura fatica a impiegare. Il lusso sfrenato in cui i regnanti locali vivono è ben noto. Ne abbiamo la prova ogni volta che un principe, accompagnato da uno stuolo di mogli, va da Harrods o nei negozi più celebri di Roma e Parigi facendo letteralmente incetta di articoli di lusso.
Eppure, invece di aiutare i loro confratelli, gli Stati suddetti hanno adottato – e tuttora adottano – una politica molto ambigua. Il ruolo di sauditi e qatarioti nella crescita dei movimenti fondamentalisti più radicali è ormai così noto da non necessitare di ulteriori commenti. Sostengono inoltre emittenti televisive che trasmettono in lingua inglese, ma sono soltanto apparentemente neutrali. In realtà ospitano anche predicatori che incitano alla cosiddetta guerra santa.
Mi si può rispondere, in primo luogo, che i suddetti Paesi hanno già le loro gatte da pelare. Quasi tutti risentono della presenza nel loro territorio di consistenti minoranze sciite in un contesto sunnita. Anzi, a volte gli sciiti sono addirittura maggioranza e, nonostante periodiche ribellioni, finora sono sempre stati piegati con metodi repressivi.
In secondo luogo, è possibile obiettare che “ospitano” già masse di lavoratori stranieri – per lo più sottopagati – che provengono dalla vicina Asia. E non solo musulmani. Si pensi per esempio ai filippini, spesso protagonisti di episodi di violenza a loro danno.
Però, insomma, vien da chiedersi perché mai soltanto l’Europa dovrebbe praticare senza discutere la carità e la misericordia invocate in continuazione da Papa Francesco. E perché mai, inoltre, solo all’Europa (e all’Italia in particolare) tocchi l’umiliazione di sentirsi urlare sulla faccia “vergogna!”.
Solidarietà, carità, misericordia e, se è il caso, pure la vergogna, vanno giustamente ed equamente condivise, altrimenti le esortazioni sono soltanto uno sterile esercizio di retorica.
Visto che le autorità spirituali ci dipingono un giorno sì e l’altro pure come cattivi, insensibili e immorali, qualcuno cominci a rammentare che al mondo c’è ben di peggio. Forse è già troppo tardi, ma vale comunque la pena di togliersi questa piccola soddisfazione.
Prego. Ma perché – mi chiedo – nessuno se la pone? Eppure l’evidenza è addirittura solare. Mistero.
Te lo vedi alcuno dei leaderini europei andare a rompere le scatole in Arabia Saudita e perdere le colossali commesse? Io no.
Ci fosse ancora la Fallaci parlerebbe anche di conflitto (morale) di civilta’ e francamente non avrebbe tutti I torti.
Prima di leggere questo pezzo, mi ponevo una domanda analoga e cercavo la risposta al fatto che oggi, le vecchie crisi economiche di sopra produzione si sono sono trasformate in microcrisi che si assorbono nella volatilità del mercato finanziario mondiale. Insomma i fallimenti aumentano al pari dell’aumento dei capitali. Si tratta delle ultime propaggini del fenomeno sostitutivo del lavoro col capitale, oppure degli ultimi strappi del colonialismo che avrebbe creato benessere e pace per tutti? Lavoravo sul concetto e più mi convincevo che la realtà dei fatti si costituisse osservando che il capitale fugge dalla fabbrica dal momento in cui il proletariato che vi si forma, si emancipa. Questo era un pensiero fisso nella mia mente da quando accadde il fallimento della Olivetti impresa che, secondo il mio convincimento, deliberatamente fatta fallire.
Proprio stamane, incuriosito, andai a ripassarmi la storia dell’economia agli inizi del secolo scorso e su Wikipedia, alla voce Rosa Luxemburg, lessi questo pezzo:
”
Dalla fine del 1896 il dirigente socialdemocratico tedesco Eduard Bernstein, in esilio in Inghilterra da quasi vent’anni, aveva fatto comparire sulla « Neue Zeit » una serie di articoli nei quali, partendo dal fatto che da due decenni non si verificavano in Europa crisi economiche, aveva giudicato superate molte indicazioni di Marx e indicato nelle riforme approvate per via parlamentare la strada di un continuo progresso democratico, realizzato con la collaborazione delle classi attraverso un’alleanza tra socialisti e liberali, che avrebbe condotto al socialismo evitando la fase rivoluzionaria.[17] Per più di un anno le tesi di Bernstein erano passate inosservate, finché non erano state violentemente attaccate da Parvus, caporedattore della « Sächsische Arbeiterzeitung ».[18]
Rosa Luxemburg intervenne contro le tesi revisionistiche di Bernstein in due serie di articoli pubblicati sulla « Leipziger Volkszeitung », la prima serie nel settembre 1898 e la seconda nell’aprile del 1899, non appena Bernstein ebbe pubblicato il suo libro Die Voraussetzungen des Sozialismus (I presupposti del socialismo), una elaborazione dei suoi precedenti articoli. Le crisi – osservava Luxemburg – sono « fenomeni organici inseparabili dall’economia capitalistica », essendo esse « il solo metodo possibile di risolvere lo iato tra la capacità illimitata d’espansione della produzione e gli stretti limiti del mercato ».[19] Le crisi osservate fino agli anni Settanta erano crisi di gioventù, ma il sistema capitalistico doveva ancora creare un mercato mondiale. Solo allora, quando si sarà verificata l’impossibilità di un’ulteriore espansione, il sistema entrerà nel « periodo delle crisi capitalistiche finali ».[20]
Bernstein vedeva nello sviluppo della democrazia politica, nei sindacati e nelle cooperative la possibilità di un graduale e pacifico passaggio al socialismo. Né i sindacati, la cui attività si limita alla lotta per il salario e per la riduzione del tempo di lavoro,[21] né le cooperative, il cui raggio di azione nel mercato è insignificante, erano in grado di modificare il sistema di produzione.[22] Quanto alla democrazia, essa non è il prodotto della società borghese, ma si trova nelle formazioni sociali più diverse, « nelle società comuniste originarie, negli antichi Stati schiavisti, nei Comuni medievali », e corrispondentemente il capitalismo esiste in differenti forme politiche, dall’assolutismo alla monarchia costituzionale e alla repubblica.[23]
Non esiste alcun rapporto fra sviluppo capitalistico e democrazia, e la borghesia potrebbe rinunciare alle conquiste democratiche senza che la macchina dello Stato – amministrazione, finanze, esercito – abbia a soffrirne. Attualmente – nota Rosa Luxemburg – lo sviluppo dell’economia e la lotta per la concorrenza sul mercato mondiale hanno fatto del militarismo e del marinismo,[24] in quanto strumenti della politica imperialistica,[25] gli elementi determinanti della vita interna ed esterna delle grande potenze. La borghesia si unisce alla reazione sia nella politica estera che in quella interna, laddove si dichiara spaventata dalle rivendicazioni della classe operaia, e allora Bernstein suggerisce al proletariato di abbandonare le proprie aspirazioni socialiste. Così egli stesso dimostra « quanto poco la democrazia borghese possa essere presupposto necessario e condizione del movimento socialista e della vittoria socialista ».[26]
Per la borghesia la democrazia non è necessaria, lo è invece per la classe operaia, perché esercizio dei diritti democratici, suffragio elettorale e autogoverno sono elementi politici attraverso i quali essa « diviene cosciente dei propri interessi di classe e dei propri compiti storici ». Al contrario di quanto ritiene Bernstein, la democrazia non rende superflua la conquista del potere politico da parte del proletariato, ma la rende necessaria, come hanno sempre sostenuto Marx ed Engels: « era riservato a Bernstein scambiare il pollaio del parlamentarismo borghese con l’organo competente a realizzare la trasformazione più formidabile della storia mondiale », cioè il passaggio a una società socialista.[27]
Tra riforme sociali e rivoluzione non vi è contraddizione, perché le prime sono il mezzo di lotta della socialdemocrazia e la seconda è il suo scopo finale, che è « la presa del potere politico e l’abolizione del salariato ». Bernstein invece le contrappone, rinunciando alla rivoluzione per fare delle riforme sociali il fine anziché un mezzo della lotta di classe. Egli stesso ha riassunto il suo punto di vista con la frase Lo scopo finale è nulla, il movimento è tutto. Poste così le cose, non c’è più differenza tra socialdemocrazia e radicalismo borghese e questa identità è l’essenza dell’opportunismo di Bernstein.[28]”.
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Secondo me il colonialismo, dopo aver raggiunto gli angoli più sperduti del mondo conclude la sua corsa nei Paesi ricchi di storia come il nostro, dove il proletariato non produce più ciò che consuma e spinge le popolazioni povere in eccesso nel Medio oriente e in Africa verso i paesi ricchi come Pinocchio che va al paese dei Balocchi!
Secondo me il colonialismo non è l’epigono del capitalismo, ma quello dell’efficienza calcolata col profitto sul salario. E’ il momento che saltino fuori i nomi del Maestri cattivi a cominciare dai vivi.
Cosa succederà? Io sono ottimista ….