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RECENSIONE AL LIBRO DI UN PROFONDO CONOSCITORE DEI PROBLEMI DELLA LINGUA ETRUSCA

untitleddi Massimo Pittau. In un'opera dal titolo molto accattivante sul piano pubblicitario - però non rispondente alla esatta realtà dei fatti - di Giulio M. Facchetti, L'enigma svelato della lingua etrusca (Roma 2000), nel risvolto della sopraccoperta l'Autore – che è laureato in giurisprudenza - si è presentato in questo modo testuale: «Giulio M. Facchetti, studioso di diritto romano e di storia antica, è attualmente dottorando di ricerca all'Università di Pavia e collabora presso l'Università statale di Milano; cultore di linguistica storica e profondo conoscitore dei problemi della lingua etrusca e delle scritture e lingue dell'antica Creta, negli ultimi anni ha pubblicato, in sedi scientifiche, diversi notevoli interventi sulla scrittura minoica Lineare A e, recentemente, il testo specialistico Frammenti di diritto privato etrusco».

Ovviamente in questi ultimi 15 anni egli ha fatto progressi nella sua carriera accademica, diventando professore aggregato nell’Università dell’Insubria (Varese) ed effettuando nuove acquisizioni nei suoi numerosi campi di interesse.

Ad esaminare e discutere minutamente un’opera di 300 pagine, come questa del Facchetti, sarebbe troppo lungo e dovrei scrivere una mia opera di almeno uguale spessore. Perciò intendo limitarmi all’esame di una sua opera più recente e assai più breve: Appunti di morfologia etrusca (Firenze 2002) con l’intento di esaminare quale sia la sua competenza effettiva in una lingua dei cui problemi egli si è presentato come “profondo conoscitore”.

A pagina 9, num. 1. Non è esatto affermare che uno dei morfemi del plurale etrusco sia –ar, -er, -ur. Se si esamina con attenzione, si deve concludere che il vero morfema è –r, il quale viene fatto precedere da una delle quattro vocali etrusche: a, e, i, u. Esempi clenar «figli», aiser «dèi», tusurϑir «coniugi», ϑansur «attori, celebranti» (non «cerimonieri»!).

Non è vero che l’altro morfema del plurale etrusco sia –cva, –χva. In realtà questo è un “plurale articolato”, cioè composto col pronome ca «questo» in posizione enclitica e col valore di articolo determinativo, per cui culścva non significa semplicemente «porte», ma significa «le porte»; avilχva non significa «anni», ma significa «gli anni». Invece il vero morfema del plurale è –va, come dimostra chiaramente l’appellativo citato subito dopo dallo stesso Facchetti, zusleva «offerte».

Non è affatto certo che il plur. in –r indichi esseri animati: ecco alcuni esempi contrari: acazr (acaz-r) «cose fatte, manufatti, oggetti»; cepar «cippi, cippi confinari»; [ceren cepar nac amce «curate (di tenere) i cippi confinari come erano» (da confrontare col lat. cippus, finora di origine ignota; dell, deli)]; cerur «(oggetti) fatti, manufatti, (vasi) fittili»; naper «napure, mappe» (misura terriera al plur.) [da confrontare coi lat. mappa, nappa «salvietta, tovagliolo, fazzoletto, drappo», lat. napurae «fiocchi per adornare i maiali da sacrificare» (huth naper lescan «quattro napure o mappe in larghezza»)]; mamer probabilmente «cessioni, donazioni», plur. di mama; śacnicleri cilϑl śpureri meϑlumeric enaś «ai sacrifici di culto per le città e le federazioni nostre».

Pagina 10. Non è vero che non si possano spiegare in altro modo le alternanze ci avil «tre anni», ci clenar «tre figli», ci zusle «tre offerte», ci huśur «tre ragazzi». Si possono spiegare facilmente dicendo che la “declinazione di gruppo” coi numerali non era obbligatoria; e se ne capisce la ragione: il plurale era già indicato chiaramente proprio dal numerale.

Pagina 12. Iscrizione ET, Cr 5.2 – 4: Laris Avle Larisal clenar / sval cn suϑi ceriχunce | apac atic / saniśva ϑui cesu | Clavtieϑurasi, che io traduco «Laris (e) Aulo figli di Laris da vivi questo sepolcro avevano costruito; i genitori, e il padre e la madre, (sono) qui deposti – Per la famiglia Claudia». Invece il Facchetti ha tradotto la seconda parte in questo modo: «le paterne (e) le materne <ossa> qui giacciono – nel (sepolcro) dei Claudii». Senonché apac atic, non sono affatto aggettivi, tanto meno al plurale, ma sono sostantivi con la copulativa enclitica –c e significano «e padre e madre» (in polisindeto). D’altronde anche lui esprime dubbi che saniśva significhi <ossa>, mentre significa di certo «genitori», essendo il plurale di sanś(-l) «(del) genitore». Inoltre cesu è sicuramente un participio passato e non un indicativo presente plurale. Clavtieϑurasi è un dativo sigmatico di comodo oppure di appartenenza e nient’affatto un locativo.

Il Facchetti cita di continuo l’etruscologo Luciano Agostiniani, che evidentemente considera il suo “Maestro” e del quale accetta tutte le tesi ad occhi chiusi, compresa la strana interpretazione e traduzione della formula mlaχ mlakas «buono per cosa buona, «cosa buona per un buono» (I opera pg. 144; II pg. 73). Su questa formula invece esiste ormai da tempo una consolidata comunis opinio (ad esempio di A. Trombetti, C. Battisti, M. Runes, K. Olzscha, F. Slotty, M. Pallottino), secondo cui essa in realtà è una “formula di offerta”. Il Pallottino negli «Studi Etruschi» (1931, 1996) ha scritto ripetutamente e testualmente: «Il concetto di donazione ex voto (MLAX) nell’ambito funerario è ormai acquisito con certezza». In effetti la formula propriamente significa «sciogliendo un voto» e già il valente etruscologo A. J. Pfiffig l’aveva confrontata con quelle lat. donum donans, votum vovens, votum solvens (con l’accusativo dell’oggetto interno come nella formula etrusca). Da parte mia quindici anni fa ero intervenuto con uno scritto per dimostrare che questo significato si adatta alla perfezione in tutti i numerosi casi in cui compare la formula, intera o a membri disgiunti, mentre il significato di «buono per cosa buona» si adatta soltanto in pochi casi, invece non si adatta per nulla in numerosi altri (M. Pittau, Tabula Cortonensis – Lamine di Pirgi e altri testi etruschi tradotti e commentati, Sassari 2000, capo 8).

Anche il Facchetti ha abboccato appieno alla “favola” di quello che sarebbe un caso morfologico nuovo della lingua etrusca, chiamato dal suo inventore “pertinentivo”. Ma si tratta di un caso morfologico per il quale costui ha presentato rarissimi e incertissimi esempi, dispersi ampiamente nel tempo e nello spazio e soprattutto non caratterizzati da morfemi chiari e distinti. Con la sua nuova trovata l’inventore da una parte ha voluto attribuire al “pertinentivo” complementi morfosintattici che si inquadravano alla perfezione già nell’ablativo, dall’altra ha voluto eliminare del tutto il caso dativo. Questo invece esiste realmente, caratterizzato dai morfemi -i come dativo asigmatico e –si come dativo sigmatico: dativo asigmatico: Aritimi (Aritim-i) «a/per Artemide», śpureri (śpur-er-i) «alle/per le città»; dativo sigmatico Avilesi (Avile-si) «a/da/per Aulo»; apasi (apa-si) «al/del padre» (in dativo di appartenenza); Atranesi (Atrane-si) «(fabbricato) da Atrano» (in dativo di agente); asigmatico e sigmatico: Aχlei Truiesi (Aχle-i Truie-si) «a/per Achille Troiano» (il Facchetti invece ha tradotto «nell’Achille di Troia»!).

Ne è derivata tutta una grande confusione, quella che risulta documentata anche dallo schema della “declinazione etrusca” presentata dal Facchetti nelle pagine 11-12 e spiegata nelle seguenti: non se ne capisce nulla!

Esempi: a pagina 13 il Facchetti scrive di aver individuato per la prima volta la costruzione del “doppio locativo”, col possibile significato di “tra … e …”. A pagina 15 egli scrive: «Il pertinentivo è, in realtà, un esempio del carattere agglutinante dell’etrusco: si tratta, morfologicamente parlando, del “locativo del genitivo”! Ma di grazia – chiedo io – cosa significano mai “doppio locativo” e “locativo del genitivo”? Queste due non sono altro che frasi prive di senso!

Più avanti egli scrive: «Etr. Avile-s-i significa letteralmente “in (quello) di Avile”, “nell(àmbito) di Avile”; dunque una frase come mi mulu Avilesi (“io (sono) donato nell'(àmbito) di Avile” va disambiguata dal contesto linguistico e materiale. Perché Avilesi può indicare, per esempio, sia il donante che il donatario». Ma – obietto io – come è pensabile che gli Etruschi parlassero in codesto modo del tutto ambiguo? Forse che essi non facevano altro che esprimersi con frasi sibilline, cioè aventi più significati anche contrastanti? In realtà quella che certamente era una ambiguità propriamente linguistica, sul piano del contesto “fattuale” o linguistico-pragmatico era invece del tutto chiara: si vedeva o si sapeva dai fatti se Avile era il donatore oppure il donatario dell’oggetto donato.

Anche il Facchetti cade nell’errore di enfatizzare troppo il fenomeno della agglutinazione esistente nella lingua etrusca, dato che fenomeni di agglutinazione, anche se sporadici, si constatano pure in molte altre lingue, ad esempio pure nell’italiano: andiamocene! (and-iamo-ce-ne!); vàttene! (va-tte-ne!), diciamocelo! (dic-iamo-ce-lo!), diteglielo! (di-te-glie-lo!); infischiandocene (infischia-ndo-ce-ne); prendendocele (prende-ndo-ce-le).

In ogni modo Avilesi non è affatto un esempio di agglutinazione, ma è solamente un prenome in dativo sigmatico, Avile-si, da intendersi o come dativo di attribuzione «a/per Aulo» oppure come dativo d’agente «da Aulo».

Dietro il fenomeno enfatizzato dell’agglutinazione, esistente – in forma assai ridotta – pure nella lingua etrusca, i suoi fanatici – compreso il Facchetti – procedono a dividere e separare i lessemi come se fossero altrettanti salamini da affettare, con risultati finali non solo privi di valore scientifico, ma francamente umoristici. E sorvolo sul larghissimo uso che il Facchetti fa dell’asterisco per indicare fatti linguistici ipotizzati ma non documentati: così procedendo egli fonda le sue argomentazioni su ipotesi di ipotesi di ipotesi…

Potrei continuare a lungo, ma preferisco chiudere con una considerazione generale, che però non rivolgo solamente al Facchetti: si deve evitare con grande cura di cadere nell’errore di ritenere che il materiale documentario della lingua etrusca conservatoci abbia il carattere e il pregio della piena e assoluta esattezza e genuinità, errore madornale per cui si ritiene di poter procedere alla analisi totale e minuta del corpus etrusco con tutta sicurezza, come se si trattasse delle formule numeriche che risultano, ad esempio, nelle tavole della trigonometria o dei logaritmi. E invece non è affatto così: il corpus linguistico etrusco oscilla nell’ampio ambito di ben otto secoli, nell’ambito di uno spazio immenso, che va da Pontecagnano a Capua, a Caere, Chiusi, Cortona, Bologna sino a Spina, Adria e Feltre, da Piacenza a Genova, a Marsiglia, in Corsica, in Sardegna e perfino a Cartagine. Inoltre è del tutto certo che esso è stato scritto da numerosissimi scribi, alcuni certamente forniti di sufficiente capacità di linguaggio e di cultura, altri invece dotati di scarse conoscenze di lingua e di ortografia, tanto che non poche iscrizioni mostrano evidenti segni di errori di lingua e di scrittura. Infine è un fatto, un fatto ovviamente deprecato, che moltissime iscrizioni etrusche hanno subìto, per l’ingiuria del tempo e degli eventi, numerosi e gravi danni che ne hanno pregiudicato gravemente e per sempre la lettura, la traduzione e la semplice interpretazione. Si deve infine evitare con cura di trarre conclusioni morfologiche e semantiche dai numerosi vocaboli documentati una sola volta che incontriamo nel corpus (gli hapax legómena), perché anche questi possono essere il frutto di errori di scrittura e di lingua.

Per tutte queste ragioni negative, singole o collettive, le analisi minutissime e puntuali che troppi cultori della lingua etrusca fanno nei loro scritti sono del tutto aleatorie e spesso del tutto campate in aria. Questa mia considerazione generale non costituisce affatto il suono della campana a morte per lo studio della lingua etrusca, ma costituisce solamente un invito ad essere molto più prudenti nelle nostre analisi, intepretazioni e traduzioni.

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13 Comments on RECENSIONE AL LIBRO DI UN PROFONDO CONOSCITORE DEI PROBLEMI DELLA LINGUA ETRUSCA

  1. Giulio Facchetti // 27 April 2015 at 02:40 //

    Pittau è libero di continuare a mettere on line questo tipo di commenti su un libro che, soprattutto e in realtà, è servito a divulgare (cioè a tradurre dal “linguistichese”) le più importanti scoperte scientifiche sull’etrusco degli anni Novanta del XX secolo.

    Tutti sono poi liberi di continuare a constatare l’assoluto desolante stato di isolamento in cui brancolano le pretese “traduzioni” di Pittau, che crede di poter trattare l’etrusco come se fosse una lingua neolatina. Non si troverà mai nessuno specialista di linguistica e di etruscologia disposto a dare il benché minimo credito alle idee di Pittau. Chissà perchè?

    Preciso che ora sono professore associato di Linguistica e Glottologia, in ruolo all’Università degli studi dell’Insubria.

    Cordialmente

    Giulio Facchetti

  2. Giulio Facchetti // 25 May 2015 at 03:02 //

    Pittau ha dimenticato di dire che ero iscritto agli Scout e al Coro Parrocchiale.
    Oltre, evidentemente, al particolare che, grazie ai miei titoli e scritti pertinenti (che non sto ovviamente a elencare qui), ho vinto il concorso da ricercatore universitario, ho ottenuto la conferma, l’abilitazione scientifica nazionale (per due settori concorsuali) e ora sono professore associato in ruolo, del settore scientifico disciplinare L-LIN/01 (Glottologia e Linguistica).
    Preciso inoltre che più che i titoli contano evidentemente le specifiche conoscenze e competenze dimostrate.

    Ma io non voglio difendere nulla di quanto ho scritto e sostenuto io sull’etrusco. Invito solo chi è interessato alla questione a leggere un mio articolo: “The Interpretation of Etruscan Texts and its Limits”, che ho pubblicato nel 2005 su “The Journal of Indo-European Studies” (si trova online su “academia.edu”): in quel caso non ho citato Pittau per pura cortesia (anche perché non mancavo di molti altri esempi adatti)

    E’ Pittau invece che si sforza di difendere posizioni purtroppo indifendibili e, nel suo totale isolamento, si deve rifare a striminzite citazioni di Pfiffig, autore strasuperato di mezzo secolo, o al parere di chi non ha alcuna competenza specialistica nel campo della linguistica etrusca.

    Cordialmente
    Giulio Facchetti

    • OK, grazie. Ho girato il suo commento al professore. Non ho problemi ad ospitare una discussione di critica anche forte sui testi e sulle metodologie di studio ma preferirei che nessuno di voi entrasse nel merito della formazione altrui che qui non è mai in discussione perché non ci permetteremo mai di mettere in dubbio le qualità professionali di chicchessia.

      Sul fatto che qualcuno lavori in solitudine o sia “isolato” non ritengo sia un grande demerito, anzi. Tesla fu isolatissimo ad un certo punto della sua vita ma la corrente alternata era sua non di Edison, l’wire-less idem, e ne potrei citare mille. Per non parlare di quando Schock ridicolizzò Lehner e tutti gli egitologi con la datazione della Sfinge al congresso dei geologi: la qualità geniale non è venduta dal fruttarolo a chi offre di più, bisogna averla. E di norma questo è il problema.

  3. Giulio Facchetti // 25 May 2015 at 17:08 //

    Preciso che io non sono entrato nel merito della formazione di nessuno (neanche della mia), ho solo risposto, moderatamente, a una serie di insulti non leggeri.

    La questione dell'”isolamento” di Pittau non è un fatto originale, ma si iscrive in una categoria comprendente una miriade di autori (tutti con loro peculiari decifrazioni, di cui sono convintissimi e unici assertori, per cui l’etrusco combacia di volta in volta con greco, turco, georgiano, russo, armeno, albanese, sanscrito, nahuatl ecc.) presentanti analoghe procedure di analisi esulanti dai metodi scientifici della linguistica storica. Tutto ciò non ha nulla a che fare con scoperte più o meno riconosciute e più o meno geniali nel campo delle scienze esatte.

    Dei dettagli della questione tratto diffusamente nel paragrafo intitolato “Guessology” del mio articolo sopracitato.

    Nei miei tentativi di chiarimento di questa particolare condizione degli studi etruscologici avevo volontariamente trascurato l’esempio di Pittau, non volendolo colpire direttamente, e penso che continuerò così, nonostante gli insulti personali di cui mi gratifica ultimamente.

    Comunque, un esempio del metodo delle “mere assonanze” (l’esatto contrario della ricerca scientifica delle “corrispondenze sistematiche”) di Pittau l’ha portato a scrivere che etr. CEL ATI sarebbe stato da tradurre “CIELO PADRE”, mentre successive scoperte epigrafiche hanno mostrato oltre ogni dubbio che CEL ATI significa “TERRA MADRE”. E fermiamoci qui.

    Potrei presentare il caso inverso di una mia analisi morfologica del termine etr. CLETRAM, pubblicata nel 2000, e completamente innovativa rispetto alla communis opinio ripetuta da decenni (ma queste “revisioni” scientifiche sono inevitabili ora che si è entrati nella nuova fase di applicazione delle procedure della scienza linguistica): ebbene un’epigrafe scoperta a Populonia nel 2011 ha confermato in pieno questa mia complessa analisi.

    • D’accordo professore, ma non credo ci siano stati insulti (nel qual caso me ne scuso), se non un approccio vivace, e ribadisco la regola che vale per tutti sul sito: niente digressioni sul personale. Sul resto, non dirimo perché non mi esprimo mai su argomenti che non conosco. Direi solo che tutte le discipline dovrebbero tendere verso “l’esattezza” perché l’unica che può permettersi di ballonzolare qua e là è “l’opinionologia”. Vero è però che su dati argomenti occorre tempo e magari la prospettiva dei posteri per capire chi ha torto e chi ha ragione. Regards,

  4. Ricevo e pubblico

    Ulteriore risposta a Giulio M. Facchetti

    Comincio con una sfida: io sfido Giulio M. Facchetti a trovare nei miei 13 libri scritti intorno alla lingua etrusca una sola volta in cui io ho parlato di connessioni dell’etrusco col “turco, georgiano, russo, armeno, albanese, nahuatl ecc.”. E siccome quella sua ricerca sarà del tutto vana, risulterà acclarato un primo fatto: il Facchetti parla e giudica un autore senza averlo mai letto. La medesima cosa si deve dire della frase etrusca mi Celś Atial celthi «io (sono) della Madre del cielo (Urania), (che sta) in cielo» (TLE 625) (Co 4.1-5, su 5 bronzetti), la quale risulta corretta sia nella I edizione sia nella II del mio “Dizionario della Lingua Etrusca” (Ipazia Books 2014).

    In secondo luogo, andando contro la assurda e perfino ridicola ipotesi, messa in giro e imposta per mezzo secolo dalla scuola archeologica italiana, della “inconfrontabilità dell’etrusco con alcun’altra lingua”, io ho tutto al contrario adoperato sistematicamente il “metodo della comparazione o del confronto” di tutto il materiale linguistico etrusco con quello delle lingue dei popoli antichi che sono vissuti a contatto col popolo etrusco. In via specifica io ho confrontato l’intero patrimonio linguistico della lingua etrusca conservatoci con l’intero patrimonio lessicale delle lingue latina e greca, il quale supera le 300 mila (trecentomila!) voci: patrimonio lessicale latino e greco compatto ed immenso, col quale è pressoché assurdo ritenere che quello etrusco non avesse nessun rapporto o di derivazione reciproca o di corradicalità, cioè di comune origine. Questo immenso patrimonio linguistico greco e latino è di gran lunga il più ricco che possediamo ed è tale che con esso deve fare i conti qualunque linguista si metta a studiare una qualsiasi lingua di quelle parlate attorno al bacino del Mediterraneo e pure in Europa, dai tempi più antichi fino al presente.

    In effetti si deve considerare che, in questo mio modo di procedere, io ho fatto semplicemente il mio mestiere di cultore di linguistica storica o glottologia, per la quale il primo e il principale metodo di studio è per l’appunto la “comparazione”.

    Circa la “comparazione” che mi sono sentito in diritto e in dovere di fare tra la lingua etrusca e le lingue indoeuropee, preciso che ho sistematicamente fatto questa operazione non soltanto rispetto al lessico di tutte queste lingue, nella ovvia eventualità di reciproci scambi, ma anche rispetto al loro “sistema morfo-sintattico”, nella eventualità di una loro comune origine e parentela, come ritengo di avere indicato e dimostrato nella mia opera La Lingua Etrusca – grammatica e lessico (§ 5). In particolare io ritengo di avere dimostrato che perfino quasi tutti i numerali etruschi della prima decade corrispondono ai correlativi numerali di lingue indoeuropee, come dimostra il seguente quadro essenziale:

    1 2 3 4 6 7 9

    etrusco thun zal ci huth sa semph nurph

    latino unum quattuor sex septem novem

    germanico zwa

    iranico sih

    E c’è da precisare che le discrepanze fonetiche esistenti fra i numerali etruschi da un lato e quelli altri indoeuropei dall’altro non sono affatto più numerose né più ampie di quelle esistenti fra i numerali di tutte le altre lingue indoeuropee. Ed è appena da ricordare che la scoperta della famiglia delle lingue indoeuropee è venuta proprio dalla constatata corrispondenza dei numerali della loro prima decade.

    Continui pure dunque ad ignorarmi e ad “isolarmi”, il Facchetti, ed attenda risultati più validi di quelli fino al presente da lui raggiunti.

    Massimo Pittau

  5. Giulio Facchetti // 3 October 2015 at 19:10 //

    Premetto che io personalmente non “isolo” nessuno: ho registrato un dato di fatto; inoltre la validità di certe ricerche si può discutere in sedi specialistiche tra persone competenti.

    La sfida lanciata da Pittau poi è subito vinta:

    1. E’ falso, come si può vedere, che io abbia scritto che Pittau sostiene connessioni dell’etrusco con “turco, georgiano, russo, armeno, albanese, nahuatl ecc.” Ho invece affermato che ci sono strette analogie tra sue, per così dire, procedure di analisi dell’etrusco e quelle di autori che sostengono questi svariati “approcci”. Io ho scritto e ripeto che Pittau tratta l’etrusco come se fosse una lingua indeuropea, anzi romanza.

    2. L’iscrizione MI CELS ATIAL CELTHI “io (sono) della Terra Madre, (posto) nella terra”, ripeto, offre un esempio chiaro del metodo non scientifico applicato.

    In un primo momento Pittau, (“Testi etruschi tradotti e commentati con vocabolario”, Roma, 1990, p.194) traduce
    “io (dono) al Padre Cielo (venerato) qui”
    in cui, oltre a CEL, c’è l’errore per cui CELTHI viene confuso con neoetr. CALTHI “in questo” e tradotto “qui” (A o E in prima sillaba non fa differenza! Tipico di questi “approcci” per cui davvero “le consonanti contano poco e le vocali niente”). Più di recente, come riferisce sopra, traduce:
    «io (sono) della Madre del cielo, (che sta) in cielo»,
    avendo fatto rientrare la questione della confusione “padre/madre” per ATI ed essendosi anch’egli accorto che la stessa radice CEL compare in CEL-S e CEL-THI.

    Il trattamento di etr. CEL contiene l’essenza del metodo Pittau ecc., cioè quello della mera assonanza: siccome etr. CEL “assomiglia” a lat. CAELUM, allora deve significare “cielo” (e si vede come anche oggi egli si ostini sul punto).

    La “mera assonanza” per Pittau deve vincere, contro ogni evidenza, sui dati combinatori per cui tutti gli specialisti di etrusco riconoscono CEL = “terra” (ora non entro nel merito, ma potrò farlo).

    Inoltre l’idea che lat. (arc.) *CAILOM (> lat. class. CAELUM) possa corrispondere a (neo)etr. CEL è impossibile anche sul piano fonetico, dato che (come dimenticano spesso in molti) -AI- in sillaba iniziale diventa normalmente -EI- in neoetrusco in un contesto come il nostro: perciò lat. *CAILOM > CAELUM sarebbe confrontabile con etr. *CEIL e non CEL.

    Cordiali saluti
    Giulio Facchetti

    • Giulio Facchetti // 15 October 2015 at 01:58 //

      Evidentemente siamo a livelli di melodramma (“improntitudinde”, “linguista di professione” e gli altri omissis sulla mia formazione, ecc.). Non mi interessa rispondere. Rispetto l’età che dovrebbe rendere saggi.

      Solo non capisco chi siano quegli “archeologi” di cui mi circondo. Io faccio i nomi dei due autori seri che hanno rifondato la linguistica etruscologica: Agostiniani e Rix; da questi parte chi vuol farsi un’idea scientifica sull’etrusco.

      Pittau invece cita solo improponibili autori strasuperati e più “moderni” che sanno poco o nulla delle recenti acquizioni sull’etrusco (ripeto leggansi: Agostiniani e Rix), cioè non sono specialisti dell’etrusco.

      Che PIttau non tenga in nessun conto delle corrispondenze fonetiche sistematiche è riconfermato da quanto si ostina a scrivere su etr. CEL / lat. CAELUM e da quanto ripete sulla sua pretesa etimologizzazione indeuropea dei numerali etruschi (sui numerali sto scrivendo un articoletto, potrò mandare il link appena online).

      Non capisco poi l’astio, per cui reputa di poter attribuire o togliere etichette a chiunque a piacimento (non può togliere i dottorati di ricerca, il titolo di professore di Glottologia a Linguistica, che manca invece a lui); dovrebbe invece essere contento che ci sia almeno uno specialista che accetta di rispondergli.

      A presto
      Giulio Facchetti

    • Giulio Facchetti // 15 October 2015 at 02:47 //

      Dimenticavo di aggiungere che nel messaggio di Pittau del 5 ottobre scorso (punto a) si legge anche, sempre in pieno melodramma, e riferito a me: “egli osa ancora una volta autopresentarsi ecc.”.

      Tutti vedono che nel mio messaggio precedente non c’è nessuna autopresentazione (men che meno nei termini indicati da Pittau). Tutti vedono, e possono giudicare.

      Io sono quello che sono e, in sede scientifica, quello che pubblico.

      Certamente ci si può informare a fondo sull’attuale stato di conoscenza dell’etrusco senza leggere una riga di quello che ho scritto io (partendo però da Agostiniani e Rix).

      Altrettanto certamente NON si potrà trovare una presentazione scientifica e attendibile dell’etrusco leggendo libri come quelli di Pittau, quantunque persone che non sanno nulla di etrusco possano ritenerli “stupendi, magnifici e bellissimi”.

      Nel mio articolo pubblicato su “The Journal of Indo-European Studies”, già sopra citato, ho cercato di fare un po’ di chiarezza sul punto.

      E’ una parte del lavoro che alcuni colleghi potrebbero considerare banale o inutile (si tratta cioè come di “sparare sulla croce rossa”), io invece lo reputo importante per l’informazione aggiornata dei non specialisti, siano essi linguisti, studiosi di altre discipline o semplici interessati.

      Cordialmente

      GF

  6. Giulio Facchetti // 19 December 2015 at 07:06 //

    Anche Umberto Galiberti è stato professore “di I fascia”: allora, visto che è un tale estimatore e propugnatore degli scritti “linguistici” di Giovanni Semerano (ivi compresi quelli “etruscologici”), dovremmo attribuire qualche valore alle affermazioni di quest’ultimo? Certamente no.

    Con tutto il rispetto per Ambrosini, e le sue cariche, non c’è nulla nei suoi scritti che lo qualifichi come specialista di linguistica etrusca: dunque le sue valutazioni in merito in una materia così complessa sono irrilevanti.

    Tutti gli specialisti sanno che la gran parte delle descrizioni grammaticali di Pfiffig si sono rivelate inesatte, imprecise, inadeguate.

    Dove altri specialisti mi danno ragione o torto lascio a Pittau che “si degni” di trovarlo.

    Se piace affermare a Pittau (che, ripeto, non è mai stato professore di Glottologia e Linguistica) che anch’io, come lui, sono “totalmente isolato” negli studi etruscologici, glielo concedo volentieri. Ci faremo compagnia.

    Nessuno però può negare che Rix e Agostiniani sono oggi i punti di partenza per lo studio scientifico dell’etrusco. Chi vuole informazioni scientifiche sul carattere bimorfematico del “pertinentivo” -s-i legga dunque, per es., Agostiniani, Contribution à l’étude de l’èpigraphie et de la linguistique étrusques, “Lalies”, 11, 1992, p. 55 s.

    Nei libri di Pittau che ho avuto l’onore di leggere (non tutti e 13 però) non ho purtroppo trovato niente di adeguato o aggiornato su questo aspetto morfonologico (né su altri argomenti di linguistica etrusca).

    Cordialmente
    Giulio Facchetti

  7. Giulio Facchetti // 19 December 2015 at 07:24 //

    Ho dimenticato il Sodalizio Glottologico Milanese, di cui anch’io sono membro.

    Preciso semplicemente che nessun Presidente, passato o presente ha avuto ne ha competenze di linguistica etrusca: lo stesso dicasi dei colleghi presenti alle comunicazioni di Pittau (i presenti sono riportati sugli “Atti” del sodalizio).

    Lo stesso Sodalizio, che adotta una politica di “apertura” per alcune Restsprachen, ha ospitato anche altri interventi sull’etrusco (non solo di Pittau) di qualità, diciamo così, “sconcertante”, il che conferma che non si possono assolutamente citare le comunicazioni in quella sede per avvalorare la propria posizione in materia di linguistica etruscologica.

    Giulio Facchetti

    • Pubblico qui l’ultima risposta del prof Pittau. Buone feste ad entrambi. rb.

      ——–
      Ancora a Giulio M. Facchetti

      Nel mio ultimo intervento di qualche mese fa avevo preannunziato che non avrei più replicato agli eventuali interventi del mio interlocutore. Ma come si fa? Egli in questi giorni mi ha offerto un’occasione di risposta troppo appetitosa perché io me la lasci scappare.

      1) Col conseguimento della cattedra di Linguistica Sarda per una decina d’anni ho avuto la possibilità giuridica di passare alla più prestigiosa cattedra di Glottologia, ma pure non ho mai voluto fare questo passaggio per l’amore che sentivo e sento per la mia terra natale. Ciò precisato rispondo al Facchetti che io sono di pieno diritto anche un professore di I fascia di “Glottologia”.

      2) Il Facchetti si presenta come allievo di due “maestri”, Helmut Rix e Luciano Agostiniani, i quali però non mi risulta che lo abbiano veramente apprezzato (come di fatto non ha dimostrato di apprezzarlo Carlo De Simone in uno degli ultimi fascicoli degli “Studi Etruschi”…). Comunque, almeno col primo “maestro” (ormai deceduto) il Facchetti è stato particolarmente sfortunato. H. Rix era la “presunzione” personificata. Avendolo conosciuto in un convegno di linguisti, pensai di annunziargli i primi risultati della connessione che avevo stabilito nel 1981 tra la lingua etrusca e quella che parlavano gli antichi costruttori dei “nuraghi” della Sardegna. Il nostro dialogo però non andò molto avanti, per il fatto che egli lo interruppe con questa sua frase, ripetuta due o tre volte: «Questa è scienza!». E voleva intendere che ciò che egli diceva era “la scienza”, mentre ciò che dicevo io era la “non-scienza”. Nel “II Convegno internazionale etrusco” del 1985, essendo io intervenuto dopo la sua relazione per fare qualche accenno alla connessione del nuragico con l’etrusco, egli mi liquidò, del tutto pieno e sicuro di sé, con la frase «Io non conosco il nuragico!». Evidentemente egli era sicuro di fare un bella figura nel dichiarare pubblicamente di non conoscere per nulla una lingua della quale si erano interessati, prima di me, i linguisti B. Terracini, G. Bottiglioni, C. Battisti, V. Bertoldi, M. L. Wagner, J. Hubschmid.

      Ma la esplosione pubblica della “presunzione” del Rix si ebbe con alcuni suoi scritti successivi, in primo luogo con l’ampio capitolo La scrittura e la lingua (in M. Cristofani, Gli Etruschi. Una nuova immagine. Firenze 1984). Ebbene questo suo studio, a mio fermo giudizio, non è altro un autentico “guazzabuglio” di notazioni immotivate, disordinate e incomprensibili. Le analisi minutissime dei vari elementi della lingua etrusca che il Rix ha ritenuto di effettuare, sono del tutto campate in aria o al massimo sono fortemente aleatorie. Di certo questo “studio-guazzabuglio” non serve affatto per introdurre un qualsiasi lettore nella problematica dell’etrusco, mentre può servire bene a far addormentare un individuo che non trovi sonno. Il Rix non ha citato nessuno dei linguisti che lo hanno preceduto (ma è ripagato a dovere dal fatto che il suo “studio-guazzabuglio” non viene quasi mai citato da alcun linguista). Inoltre egli ha avuto la presunzione e pure l’illusione di poter imporre, contro la convenzione consolidate, ben otto differenti grafemi per indicare la sibilante come veniva scritta nell’Etruria meridionale e in quella settentrionale. Oltre a tutto ciò egli ha dato prova di notevole disattenzione, tanto che non si è accorto di avere dato del verbo etrusco trin ben tre significati differenti: § 28 «invoca», §§ 43, 47 «parla», § 51 «bevi»; e dell’altro verbo tur due significati differenti: § 43 «dedica», § 49 «dà»…

      All’altra opera che voleva essere l’opus magnum di H. Rix, Etruskische Texte, Editio Minor, I Einleitung… (Tübingen 1991), io avevo mosso numerosi e sostanziali rilievi, ai quali egli non ha mai risposto. Avevo già pubblicato da qualche anno il relativo scritto (si trova nel sito http://www.pittau.it ), quando ho avuto modo di leggere nella rivista «Studi Etruschi» [64, 1998 (2001), pgg. 230-234] un articolo di Enrico Benelli, in cui compare anche una parte intitolata Etruskische Texte: addenda et corrigenda, nel quale l’Autore fa numerose correzioni all’opera del Rix. Particolarmente da osservare sono le critiche che il Benelli fa nelle “Varie: a) correzioni congetturali non indispensabili; b) letture estremamente incerte; c) scioglimenti non necessari; d) scioglimento incerto; e) integrazione incerta; f) congettura incerta”. Che sono osservazioni e critiche che corrispondono quasi tutte a quelle fatte da me in precendenza.
      In generale dico che stupisce pure la disattenzione con cui il Rix e i suoi troppo numerosi collaboratori (Fritz Kouba, Dieter Steinbauer, Ludwig Ruebekeil und vielen anderen…) hanno mandato avanti la loro opera. Sulla quale io avevo espresso questo giudizio globale: “È un’opera da consultare con la massima cautela”.

      Insomma non lo si può negare: il Facchetti si è scelto un ottimo “maestro”…

      Massimo Pittau

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