Sulla prevedibilità dei fenomeni naturali
di Michele Marsonet. Il dominio del mondo circostante e la completa prevedibilità dei fenomeni naturali sono - da sempre - obiettivi primari della civiltà occidentale. Già presenti in modo inequivocabile nel pensiero classico greco, quando la distinzione tra scienza e filosofia ancora non si poneva, essi hanno assunto importanza crescente dalla rivoluzione galileiana in poi, con appendici significative in campo filosofico (si pensi al “Novum Organum” di Francis Bacon).
La scienza moderna è nata non solo per conoscere, ma anche per “dominare” il mondo. L’intento era quello di giungere alla predizione completa e perfetta di eventi che, pur appartenendo a un mondo non creato dagli esseri umani, può tuttavia essere soggiogato e piegato alla nostra volontà, per quanto complesso – e a volte insondabile – esso sia
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I tragici terremoti che spesso colpiscono l’Italia, al pari dei vari tsunami e cicloni che si abbattono in modo ciclico e inesorabile su aree diverse del pianeta rappresentano – pur con i loro risvolti dolorosi – un’occasione per riflettere circa le nostre capacità di previsione. Quasi sempre in occasione di qualche catastrofe naturale, e soprattutto da noi, compaiono personaggi che affermano: “Io l’avevo detto!”. E, quando nessuno si arroga il merito della previsione inascoltata, si verifica una sorta di corsa collettiva ad incolpare le autorità governative e locali, non importa di quale colore esse siano.
Accade soprattutto in presenza di alluvioni. Anche in quel caso, infatti, l’uomo della strada è portato a pensare che “la colpa deve pur essere di qualcuno”, e gli amministratori rappresentano il bersaglio ideale. Aggiungiamo che giornali e TV danno una robusta mano al diffondersi di questo modo di pensare.
Il fatto è che in ambito scientifico ipotesi e spiegazioni debbono passare un vaglio rigoroso prima di essere accettate come valide dalla comunità degli scienziati. E valide – mette conto notarlo – non equivale a “incontrovertibili”. I meteorologi avvertono sempre che le loro previsioni hanno una validità puramente probabilistica, cosa di cui ci scordiamo quando un bollettino sbaglia in modo clamoroso.
Ma anche i medici non si stancano di notare che le previsioni circa la diffusione di una certa malattia non possono mai essere considerate esatte. Se passiamo a scienze “dure” tipo fisica e chimica la situazione migliora un po’, ma è ben lungi dall’essere ottimale. Non esistono quindi “protocolli” rigidi e immutabili che ci consentano, da un lato, di distinguere scienza e non-scienza e, dall’altro, di conseguire la predicibilità completa dei fenomeni naturali.
Per quanto riguarda le discipline umane e sociali le cose stanno ancor peggio, nonostante il grandioso tentativo marxiano di formulare le “leggi della storia”. Occorre insomma una maggiore dose di umiltà quando ci rapportiamo alla natura. Non si riesce a controllarla perché non dipende da noi, né possiamo conoscerla in modo completo a causa dei limiti intrinseci del nostro apparato percettivo e sensoriale.
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Credo che, in un mondo che vede l’umanità divisa nelle due categorie dei dominanti e dei dominati, spazio per la ricerca della prevedibilità dei risultati dei nostri atti, sia alquanto ristretto. Un conto è la prevedibilità dei fenomeni rari, un altro conto è stabilire se la rarità del manifestarsi dei fenomeni (naturali e non) sia tale da essere valutata nelle nostre decisioni solo per mera casualità di un danno. Chi abita in collina teme una frana, e chi abita in fondo valle teme un alluvione. Peraltro, non sono queste le osservazioni importanti. Si tratta, invece, di capire perché, nelle nostre decisioni, non riusciamo a seguire una traccia che ci conduca al compimento di atti efficaci per rendere compiute speranze condivise che i politici dovrebbero fare proprie. Il guaio è che non sappiamo ciò che vogliamo e soprattutto ogni singola persona coltiva un progetto di vita diverso, cosicché gli atti si focalizzino solo su qualche aspetto di un disegno confuso e spesso in contrasto con quanto tutti attendono. E qui entrano in campo i dominanti che vedono la salvezza nella soluzione dei loro problemi, e i dominati che tentano di adattarsi ai cambiamenti loro imposti da costoro e dalle circostanze ambientali. La storia dello “spread” tutt’altro che conclusa, vede la banche affamate che mettono sotto torchio le imprese col beneplacito dei ministri dell’economia che tassano il lavoro (Irap = tassa su un bene produttivo, ovvero arresto del risparmio all’atto di essere prodotto e non venduto) e confiscano l’utile, già ridotto dall’Irap, lasciando la famiglia dell’imprenditore a giocarsi il capitale per sopravvivere.
Correttamente:
(Irap = tassa sul un fattore produttivo lavoro, ovvero confisca del profitto-risparmio all’atto di essere realizzato su un prodotto non ancora venduto)
IRAP = Imposta regionale sulle attività produttive. Non è un imposta, ma una tassa sui costi. E’ come il contadino che, dopo aver seminato il campo, venisse qualcuno che gli confiscasse i germogli. Il dominato è il contadino, il dominante non è l’ente Stato, ma la marmaglia di chi vive alla sua greppia.
Non so più scrivere in italiano. Sull’IRAP non riesco ad individuare un soggetto col quale iniziare una frase che abbia un significato logico. Il contadino, come soggetto, ha seminato il campo e deve destinare parte dei semi per dare i germogli al sig X. L’imprenditore (che è lo stesso contadino) deve sottrarre dalla produzione il prodotto che sarebbe derivato se i germogli non gli fossero stati sottratti. Il proprietario del terreno (che potrebbe essere sempre lo stesso contadino) vedrà ridotta la produzione e il valore corrispondente alle sue terre diminuirà. Fin qui il soggetto è il contadino, ma qualcuno che gli sottrae parte della produzione chi è? Perché costui non aspetta che la produzione completi il suo ciclo e dal raccolto non prenda ciò che gli è dovuto? E’ forse vero che il ricavato dell’imposta possa essere impiegato in attività più produttive? Talmente produttive che l’imposta stessa non sia detraibile dal reddito d’impresa? Non esiste soggetto per giustificare un simile inganno. Non può essere altra persona di chi odia l’impresa e vuol vedere il suo popolo trasformato da persone che diventano salariati. Nel 1973 fu abolita l’imposta sulla produzione, per impegni presi dall’Italia nel quadro dell’armonizzazione fiscale tra i paesi della CEE. Con l’Euro, quel genio di Prodi, ristabilì gli stessi elementi di squilibrio che allora impedivano il costituirsi dell’Unione.