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La volontà collettiva nazionale-popolare: Rousseau, Hegel e Gramsci a confronto (1)

di Manuela Ausilio.  Sommario: Ben poco s’è indagato in ambito filosofico sulla continuità della riflessione politica di Rousseau e Gramsci e solo nell’ultimo decennio s’è aperta la riflessione in merito in America Latina. Se certamente evidente è la ricezione gramsciana della riflessione idealista e hegeliana in particolare – più volte da Gramsci esplicitamente testimoniata  –, non  altrettanto  lo è la  ricezione dei contribuiti del pensatore ginevrino, riscontrabili quasi unicamente in relazione agli scritti, per dir così, “pedagogici” di Gramsci. Tuttavia tale mancata evidenza della presenza di Rousseau nella lettera dei  testi gramsciani non esclude affatto una riflessione sulla ricezione dello spirito della filosofia rousseauiana, tanto più se consideriamo come sia ben presente nella filosofia hegeliana stessa la valorizzazione e rielaborazione del pensiero politico di Rousseau ed in particolare del concetto di volonté générale.

  «Ma un’associazione normale concepisce se stessa come aristocrazia, una élite, un’avanguardia, cioè concepisce se stessa come legata da milioni di fili a un dato raggruppamento sociale e per il suo tramite a tutta l’umanità. Pertanto questa associazione non si pone come un qualche cosa di definitivo e di irrigidito, ma come tendente ad allargarsi a tutto un raggruppamento sociale, che anch’esso è concepito come tendente a unificare tutta l’umanità». – A. Gramsci, Quaderni del carcere – (2)

A  partire  dal  rifiuto  d’ogni  visione  meccanicistica  del  rapporto  fra  struttura  economica  e sovrastruttura  politico-ideologica (3),  Gramsci  configura  il  comunismo  quale  «società  regolata».  Per comprendere tale definizione e le sue radici teoriche – che individueremo nel concetto gramsciano di «volontà collettiva nazionale-popolare» – richiameremo brevemente l’attenzione sul concetto di volonté générale  sistematizzato nella riflessione politica di uno dei più significativi pensatori della tradizione politica moderna: Jean-Jacques Rousseau.

Non v’è dubbio che ben poco s’è indagato in ambito filosofico sulla continuità della riflessione politica di Rousseau e Gramsci e solo nell’ultimo decennio s’è aperta la riflessione in merito in America Latina.  Se  certamente  evidente  è  la  ricezione  gramsciana  della  riflessione  idealista  e  hegeliana  in particolare – più volte da Gramsci esplicitamente testimoniata –, non altrettanto lo è la ricezione dei contribuiti del pensatore ginevrino, riscontrabili quasi unicamente in relazione agli scritti, per dir così, “pedagogici” di Gramsci. Tuttavia tale mancata evidenza della presenza di Rousseau nella lettera dei testi gramsciani non esclude affatto una riflessione sulla ricezione dello spirito della filosofia  rousseauiana, tanto più se consideriamo come sia ben presente nella filosofia hegeliana stessa la valorizzazione e rielaborazione  del  pensiero  politico  di  Rousseau  ed  in  particolare  del  concetto  di  volonté  générale. Nonostante aspre critiche, Hegel interiorizza numerosi motivi del pensiero politico del ginevrino. 1) Per un verso difatti, Rousseau parrebbe rientrare a pieno titolo nella tradizione contrattualista, legando il proprio nome al principio della volontà soggettiva. Rousseau – sostiene Hegel -, «ha colto la volontà soltanto nella forma determinata della volontà singolare» e perciò ha  poi inteso (fraintendendola) la dimensione universale della volontà sovrana. Egli infatti la ha ritenuta «non come il razionale in sé e per sé della volontà, ma solo come ciò che è comune, come il risultato cosciente dell’incontro fra le volontà dei singoli» (4). Ma risultato di ciò è che «l’unione degli individui nello stato diviene un contratto, il quale ha quindi per base il loro arbitrio» (5). 2) In realtà Hegel rileva in seconda battuta come fu lo stesso Rousseau a dissolvere dall’interno, più o meno consapevolmente, l’idea secondo cui la collettività risulterebbe da una mera sommatoria d’interessi individuali e dunque lo stesso paradigma contrattualista. Per un verso, infatti, Rousseau riconosce nel comune la nascita della società moderna  come il divaricarsi fra base materiale  del  lavoro  salariato  e  forme  del  riconoscimento  giuridico  (non  v’è  passaggio  immediato  fra individuo  e  Stato  così  come  non  v’è  fra  singoli  governati,  in  balia  di  interessi  parziali  e dell’individualismo proprietario, e volonté générale) (6). Tuttavia tale passaggio, mediato fenomenicamente da un lungo e doloroso processo storico, in ultimo essenzialmente si rivela atto pratico di ragione collettiva al di là di interessi empirici. Per dirla  con Rousseau: «Subito al posto della persona singola di ogni contraente, quest’atto di associazione crea un corpo morale e collettivo, […] che riceve da quest’atto stesso la sua unità, il suo io comune, la sua vita e la sua volontà» (7), parrebbe quasi in senso trascendentale. Sorprende non poco l’assonanza semantica e concettuale con le affermazioni di Antonio Gramsci nei Quaderni del carcere in merito «allo stato etico o di cultura». Se per un verso Gramsci più volte riconosce esplicitamente il proprio debito nei confronti di Hegel in merito (8), per l’altro diversamente dalla concezione hegeliana – «propria di un periodo in cui lo sviluppo in estensione della borghesia poteva apparire illimitato» (9)   e dunque l’eticità o universalità di essa poteva essere affermata nei termini: tutto il genere umano sarà borghese – Gramsci sostiene che unicamente a seguito del superamento della partizione in classi sarà possibile realizzare uno Stato compiutamente etico,  corrispondente all’inveramento-superamento del suo concetto in «un organismo sociale unitario tecnico-morale» (10).

In entrambi i pensatori vediamo delinearsi il dramma di un’idea della politica che non rinuncia alla  ricerca  di  forme  adeguate  della  vita  comune  e  che  in  entrambi  i  casi  si  consuma  dinanzi all’immagine  di  secoli  segnati  da  violenze  ed  iniquità  enormi  e  dall’inadeguatezza  evidente  dei rappresentanti della “ragione pubblica” a governare  tali  sconvolgimenti. In tal senso nella riflessione politica di Rousseau, come in quella gramsciana, si manifesta il  proposito  e l’esigenza d’affermare le ragioni della generalità: in entrambi i casi si evidenzia una profonda fiducia  nell’affidare in ultimo alla politica il compito di superare una nature des choses, il cui andamento indifferentemente armonico veniva invece colto nella sua dolorosa interruzione: ciò ad opera d’una società umana che disumanizzava se stessa, di un’umanità che poneva in atto una storia di violenza ed ingiustizie. Tuttavia tanto Rousseau quanto Gramsci si dimostrano pensatori profondamente consapevoli dell’impossibilità di prescindere da una tale storia e dunque della necessità d’affrontarne il portato, al fine di fornire elementi risolutivi delle più gravi diseguaglianze economiche e sociali, senza tuttavia scadere nel moralismo o nel cieco utopismo. Ciò implicò per entrambi scegliere la ragione, una ragione profondamente storica: entrambi posero in essere forse i più coraggiosi tentativi del loro tempo; potremmo dire, con le belle parole di Alberto Burgio, che tanto Rousseau quanto Gramsci tentarono di salvare la modernità da se stessa.

In che modo dunque? Possiamo certamente affermare che entrambi i filosofi colsero nella società borghese del loro tempo un «residuo dello stato di natura», ovvero d’una condizione di sopraffazione. D’altra parte, il superamento di tale  condizione di vera e propria preistoria dell’umanità non è né per l’uno né per l’altro tale per cui verrà a cadere  qualsivoglia norma giuridica. Al contrario entrambi pongono un’esigenza di «regolamentazione» dell’anarchia dello  stato di sopraffazione mediante un aufhebung qualitativo: Rousseau sistematizza il primato sulla volontà comune – mera sommatoria di singoli voleri – della volontà generale, la quale non si costituisce nelle discussioni dell’assemblea, ma le precede   (le fonda, in certo modo), contrapponendosi così alla difesa feticista d’una autonomia di individui che rifugga l’analisi delle condizioni sociali di qualunque scelta; Gramsci pone all’ordine del giorno la questione d’una classe particolare che deve saper divenire classe universale, ovvero deve esser in grado di proporre una prospettiva politicamente e culturalmente  maggiormente razionale. Ed ancora. Rousseau nella nostra analisi emerge come pensatore politico incredibilmente moderno: egli tenta di porre un nesso imprescindibile fra 1) condizioni etiche e 2) regole procedurali: più che la sua dimensione quantitativa è la correlazione all’interesse comune a generalizzare una volontà, a renderla razionale ed idonea a significare da «regle de justice» (11). D’altra parte un medesimo interessamento per la produttiva dialettica fra contenuto e sua rappresentazione emerge nell’analisi del Risorgimento italiano compiuta da Gramsci, attraverso cui egli individua come esemplare la capacità dei “moderati” di armonizzare formalmente direzione e dominio, accattivandosi la totalità delle forze  radicali potenzialmente antagoniste e conducendole senza colpo ferire dalla propria parte; di qui egli ripensa la distinzione fra rivoluzione passiva e restaurazione (12).

Ma a questo punto sopravviene un diversificarsi profondamente evidente nei due pensatori dei tentativi di soluzione proposti alla Trennung fra individuale e collettivo di cui è preda l’uomo moderno, prodotto dell’appartenenza  storica a differenti classi: se per Rousseau risulta infine essenzialmente pacifico che «quanto agli associati, essi prendono collettivamente il nome di popolo; e in particolare si chiamano cittadini in quanto partecipi dell’autorità sovrana, e sudditi in quanto sottoposti alle leggi dello Stato» (13), ciò  non  può  dirsi  assolutamente  lo  sia  altrettanto  per  Gramsci.  Egli,  difatti,  non  vede semplicemente un popolo indistinto negli associati, ma «l’esistenza di determinati gruppi sociali» (14)  e, per quel  che  concerne  l’analisi  del  contesto  italiano,  egli  individua  nell’incapacità  della  componente giacobina a  divenire elemento dirigente durante il Risorgimento il suo mancato strutturarsi in forza centralizzatrice capace di creare una volontà collettiva nazionale-popolare. Scrive Gramsci nelle Notarelle sul Machiavelli che in Italia «mancò sempre, e non poteva costituirsi, una forza giacobina efficiente, la forza appunto che nelle altre nazioni ha suscitato e organizzato la volontà collettiva nazionale-popolare e ha fondato gli stati moderni»15. Quali i criteri indicativi d’una tale efficienza? Si tratterà anzitutto di definire «la “volontà collettiva” e la volontà politica in generale nel senso moderno, la volontà come coscienza operosa della necessità storica, come protagonista di un reale e immediato dramma storico» (16). In secondo luogo si tratterà di differenziare i diversi tempi storici: in passato più di oggi «si otteneva una volontà   collettiva   sotto   l’impulso   e   la   suggestione   immediata   di   un   “eroe”,   di   un   uomo rappresentativo» (17), ma  questa  volontà  collettiva  era  dovuta  a  fattori  esteriori  «e  si  componeva  e scomponeva continuamente» (18). Certo, già nel Machiavelli Il principe si rivela, secondo Gramsci, il mito pronto a cimentarsi con la costruzione d’una «ideologia politica che si presenta non come fredda utopia né come dottrinario raziocinio, ma come una creazione di fantasia concreta che opera su un popolo disperso e polverizzato per suscitarne e organizzarne la volontà collettiva» (19); e d’altra parte è innegabile che  l’uomo  rappresentativo  svolga  ancora  oggi  un  ruolo  significativo  nella  formazione  dell’uomo- collettivo. Infine è chiaro che tali differenze riportano in ultimo ad una differente organizzazione dei rapporti e delle forze di produzione: la funzione dell’’uomo rappresentativo è oggi «inferiore di molto a quella del passato, tanto che esso [l’uomo rappresentativo] può sparire senza che il cemento collettivo si disfaccia  e  la  costruzione  crolli» (20).  Ciò  perché  l’uomo-collettivo  odierno,  al  contrario,  si  forma essenzialmente dal basso verso alto, «sulla base della posizione occupata dalla collettività nel mondo della produzione» (21). La particolare forma di civiltà, di cultura e di moralità che i vecchi dirigenti intellettuali della società hanno rappresentato si decompone, i loro discorsi si riducono a “prediche”, «pura forma  senza  contenuto,  larva  senza  spirito» (22). Di  qui  la  loro  disperazione  alimenta  le  loro tendenze  reazionarie e conservative: essi «gridano alla morte di ogni civiltà, di ogni cultura, di ogni moralità e domandano misure repressive allo Stato o» – si badi bene – «si costituiscono in gruppo di resistenza appartato dal processo storico reale, aumentando in tal modo la durata della crisi» (23). Si tratta peraltro di creare una nuova Weltanschauung: il mondo della produzione e del lavoro salariato divengono l’officina privilegiata entro cui la vita collettiva ed individuale deve esser organizzata per il “massimo rendimento” dell’apparato produttivo. Si tenta di fare credere che «lo sviluppo delle forze economiche sulle nuove basi e l’instaurazione progressiva della nuova struttura saneranno le contraddizioni che non possono mancare», dando vita in tal modo ad un nuovo «”conformismo” dal basso» (24).

É a questo punto che si rivela necessario abbandonare il democraticismo radicale rousseauiano e rinvenire il portato produttivo della tradizione idealista, tanto tedesca quanto italiana. Se per un verso Gramsci, come d’altra parte Marx, ritiene che dalla rivoluzione socialista ci si possa attendere l’esaurirsi dell’«elemento  Stato-coercizione» (25),  per   l’altro   egli  esplicita  decisamente  che  tale  processo  di esaurimento si svilupperà «man mano che si affermano elementi sempre più cospicui di società regolata (o Stato etico o società civile)» (26). Ricordiamo, difatti, che nello Stato funzione precipua viene ad assumere un moderno Principe, non più inteso «come persona reale, un individuo concreto; può essere solo un organismo, un elemento sociale nel quale già abbia inizio il concretarsi di una volontà collettiva riconosciuta  e  affermatasi  parzialmente  nell’azione» (27). E  d’altra  parte,  scrive  ancora  Gramsci,  «la collettività «deve essere intesa come prodotto di una  elaborazione di volontà e pensiero collettivo raggiunto attraverso lo sforzo individuale concreto, e non per un processo  fatale estraneo ai singoli: quindi  obbligo  della  disciplina  interiore  e  non  solo  di  quella  esterna  e  meccanica» (28). Due  ultime considerazioni. La grandezza di Gramsci consiste proprio nell’aver rifiutato con chiara nettezza la semplicistica  dicotomia liberale per cui lo Stato sarebbe sempre luogo di violenza e sopraffazione mentre la società civile luogo della libertà: è difatti in tal modo che vengono occultati i rapporti di dominio esistenti fra fabbrica capitalistica e violenza  operante nell’ambito della società civile29. Al contrario, l’organismo atto ad operare il superamento della volonté de tous nella volonté générale si configura nello Stato come «già dato dallo sviluppo storico ed è il partito politico, la forma moderna in cui si riassumono le volontà collettive parziali che tendono a diventare universali e totali»30. Ed è in tal senso che l’originalità del  marxismo gramsciano si rivela nella sintesi felice di idealismo e leninismo31   intesa anzitutto quale teoria forte della soggettività per un verso e della centralità del Partito e dello Stato per l’altro. Gramsci concepisce la necessità d’intender la filosofia come filosofia della praxis, unità d’elaborazione filosofica, comprensione  storica  del  proprio  mondo  e   valorizzazione  dell’arena  politica  quale  luogo  del manifestarsi e del prodursi d’una volontà collettiva nazionale32. In  secondo luogo, nella ben nota Rivoluzione contro il Capitale, articolo steso da Gramsci dopo la Rivoluzione d’Ottobre, egli scrive che i bolscevichi «non sono  “marxisti”,  ecco  tutto;  non  hanno  compilato  sulle  opere  del  Maestro  una dottrina esteriore, di affermazioni dogmatiche e indiscutibili. Vivono il pensiero marxista, quello che non muore mai, che è la continuazione del pensiero idealistico italiano e tedesco. […] E questo pensiero pone sempre come massimo fattore di storia non i fatti economici, bruti, ma l’uomo, ma le società degli uomini, degli uomini che si accostano fra di loro, si intendono  fra  di  loro,  sviluppano  attraverso  questi  contatti  (civiltà)  una  volontà  sociale, collettiva [c.m.] […]» (33).

La volontà collettiva che Gramsci ha in mente implica dunque anzitutto un elemento dinamico del prodursi  storico  delle  forme  di  vita  sociale,  che  a  sua  volta  rivela  l’intento  pratico  che  muove  la riflessione gramsciana. Ed è anzitutto la rinvenuta miseria, culturale e filosofica, del socialismo liberale italiano, del «lorianesimo» essenzialmente, a rivelarsi  l’altra faccia d’una subalternità politica – d’una mancanza di parola, potremmo dire – che è anzitutto mancanza d’un discorso autonomo del marxismo e non legittimante di senso l’agire delle organizzazioni proletarie (34). É a partire da tali considerazioni che prende vita l’analisi della problematica dello Stato nella riflessione gramsciana, avente a fondamento per un verso 1) la questione del rapporto fra intellettuali e masse, per l’altro 2) una concezione di filosofia della prassi in cui emerge eclatantemente la peculiarità del marxismo gramsciano che ripensa la filosofia stessa come filosofia-egemonia. Gramsci, discutendo la nota Tesi XI di Marx su Feuerbach sostiene che questa «non può essere interpretata come un  gesto di ripudio di ogni sorta di filosofia», ma come «l’energica affermazione  di  una  unità  tra  teoria  e  pratica  […].  Se  ne  deduce  anche»  –  prosegue  il pensatore di Ales  – «che il carattere della filosofia della praxis è specialmente quello di essere una concezione di massa, una cultura di massa e di massa che opera unitariamente, cioè che ha norme di condotta non solo universali in idea, ma “generalizzate” nella realtà sociale» (35). L’unità di teoria e pratica consente ora a Gramsci di delineare un apparato semantico innovativo  per un progetto culturale e politico, maggiormente in grado d’intendere il mondo che lo circonda. La filosofia della prassi non è dunque da intendersi quale scienza che consenta di fare previsioni di carattere deterministico: il “pre- vedere” della ragione, per dir così, ha quale condizione di possibilità l’operare ed è esso stesso insieme atto pratico che implica la formazione e l’organizzazione d’una volontà collettiva, che tale atto contribuisce a formare e da cui nel contempo viene fondato (36).

In  conclusione,  accenniamo  solo  velocemente,  ma  ora  con  maggiore  consapevolezza,  la trattazione gramsciana della formazione d’una volontà collettiva nazionale popolare a partire dall’ampliamento e complessificazione della funzione del diritto formale e del rapporto fra leggi e costumi. Qualsivoglia struttura statale, abbiamo detto, mira a regolare forme di convivenza ed a plasmare di sé ogni ambito della vita sociale. Per un verso si ha dunque lo Stato borghese che, essenzialmente attraverso il diritto formale, mira a rendere omogenea e salda la propria classe dirigente ed utilizza coercizione e consenso, permanentemente  organizzati  mediante  le  forze  private  della  società  civile,  al  fine  di  strutturare l’”opinione pubblica”. La sfera d’azione del diritto, dunque, non si limita all’ambito politico statuale, ma tende progressivamente ad estendersi all’intera società, plasmando nella direzione dei ceti dirigenti la stessa eticità o volontà generale, per dirla con Rousseau. Ma in tal modo Gramsci opera un ampliamento del concetto di diritto, consentendogli di dar conto del suo operare indiretto mediante l’azione della società civile che, senza dover ricorrere a sanzioni ed obbligazioni penali, pur tuttavia incide sui modi d’agire  e  di  pensare  della  collettività.  E  se  l’insieme  sociale  trova  progressivamente  la  propria rappresentazione  in   norme   di   condotta   etica   «giuridicamente   indifferenti» (37),  ma   storicamente determinate dall’intervento dello Stato sulla società, ciò significa che tale necessità non semplicemente fonda il portato progressivo dello Stato moderno borghese, ma il suo stesso superamento. É a partire da tali riflessioni che Gramsci, difatti, inizia pensare al socialismo stesso quale «società regolata» (38):  è infatti la classe borghese stessa che si autopone «come un organismo in continuo movimento, capace di assorbire tutta la società, assimilandola al suo livello culturale ed  economico: tutta la funzione dello Stato è trasformata: lo Stato diventa ‘educatore’» (39). Ed è partire da ciò che «lo Stato è concepito come superabile dalla “società regolata”: in questa società il partito dominante non si confonde organicamente col  governo, ma è strumento per il passaggio dalla società civile-politica alla “società regolata”, in quanto assorbe in sé ambedue, per superarle (non per perpetuarne la contraddizione), ecc». (40)  E d’altra parte non può dimenticarsi che per Gramsci l’intero corso storico «è libertà in quanto è lotta tra libertà e  autorità,  tra  rivoluzione  e  conservazione,  lotta  in  cui  la  libertà  e  la  rivoluzione  continuamente prevalgono sull’autorità e la conservazione» (41). Tale consapevolezza della storia come storia della libertà consente di riconoscere i momenti alti e bassi del corso del mondo sulla base dell’unità di misura offerta dalla  capacità  dell’uomo  di  dominare  natura  e  caso.  E  tali  potenzialità  non  devono  esser  solo astrattamente riconosciute, ma fatte proprie e realizzate storicamente mediante i mezzi necessari a render concreta l’astratta volontà: di qui l’esigenza d’organizzazione della classe in Partito.

Dinanzi alla pervasività degli apparati ideologici della classe dominante i dominati, per non venir annientati,  devono  dunque  acquisire  consapevolezza  della  propria  identità:  diversamente,  le  classi dirigenti troveranno la loro  unificazione nello Stato e le classi subalterne resteranno una «frazione disgregata» della società civile (42). È, dunque, indispensabile «elevare intellettualmente sempre più vasti strati popolari, per dare personalità all’amorfo elemento di massa» e ciò significa «lavorare a suscitare élites di intellettuali di un tipo nuovo che sorgano direttamente dalla massa pur rimanendo a contatto con essa», intellettuali organici (43). Essendo «contraddittorio l’insieme dei rapporti sociali, non  può  non essere contraddittoria la coscienza» (44)  dei singoli ed in particolare dei subalterni, fra i quali ancor più avanzato  è  lo stadio di disgregazione sociale per la mancanza d’un patrimonio storico d’iniziativa autonoma. Al fine di superare tale contraddizione del gruppo sociale e più ancora del singolo occorre sviluppare  una  coscienza  storica  collettiva,  corrispondente  al  diverso  grado  di  sviluppo  storico  e d’organizzazione socio-politica che si ha come fine. Tale necessità storica non si sviluppa naturalmente, ma è prodotto d’una riflessione storica e critica sull’esistente e di un’azione  volta meticolosamente a razionalizzarlo. O si opera nel senso d’una filosofia della prassi, affinché l’area sociale soggetta  allo sfruttamento capitalistico acquisisca consapevolezza di sé e divenga soggetto politico in senso proprio, o si rischia  d’avallare derive plebiscitarie nelle quali, scrive Gramsci, «la massa è semplicemente di “manovra” e “viene occupata” con prediche morali, con pungoli sentimentali, con miti messianici di attesa di età favolose in cui tutte le contraddizioni e miserie presenti saranno automaticamente risolte e sanate» (45). E in ultimo, per dirla con Rousseau, occorre «spiegare attraverso quale sequenza di prodigi il forte  abbia  potuto  risolversi  a  servire  il  debole,  e  il  popolo  a  comprare  una  quiete meramente immaginaria a prezzo di una felicità effettiva» (46). É così emersa l’attualità di due grandi classici, che non smettono di parlarci. E con loro, rispondiamo, certo: i subalterni possono parlare; lo hanno fatto e lo continuano   a   fare   con   grande   passione   e   determinazione,   nonostante   l’assordante   silenzio dell’indifferenza che troppo spesso pare circondarli.

1 Intervento tenuto in occasione del Convegno su Antonio Gramsci, un sardo nel “mondo grande e terribile” (Cagliari- Ghilarza-Ales, 3-6 maggio 2007).

2 Gramsci, Q 6, § 79, p. 750. Il riferimento delle citazioni è ad Antonio Gramsci, Quaderni del carcere, edizione critica a cura di Valentino Gerratana, Torino, Einaudi, 1975. D’ora in poi indicheremo numero, paragrafo e pagina del Quaderno da cui si cita preceduti dalla lettera Q; [c.m] sta per [corsivo mio].

3 Per un’analisi della problematica tesi dell’”estinzione dello Stato” nel pensiero marxiano, intesa quale fase in cui dileguerebbero gli antagonismi di classe e verrebbe negata qualsivoglia autonomia al all’elemento politico-giuridico di contro a quello economico, cfr. Domenico Losurdo, Antonio Gramsci dal liberalismo al «comunismo critico», pp. 181-205.

4 Georg Wilhelm Friedrich Hegel, Lineamenti di filosofia del diritto, tr. it. a cura di G. Marini, Laterza, Roma-Bari

2001, § 258.

5 Ibidem.

6 «Perciò, se si elimina dal patto sociale ciò che non ne fa parte essenziale, si troverà che può ridursi in questi termini: “Ciascuno di noi mette in comune la sua persona ed ogni suo potere sotto la suprema direzione della volontà generale; e noi tutti in corpo consideriamo ogni singolo membro come parte indivisibile del tutto”». [Jean-Jacques Rousseau, Il contratto sociale, Introd. a cura di A. Burgio, Universale Economica Feltrinelli, I, VI, p. 80].

7 Ibidem. «Corps morale et collectif», scrive Rousseau: il corpo morale e collettivo, il «corpo politico, non essendo che una persona morale, non è che un essere di ragione» [Id., Œuvres complètes de J.-J. Rousseau, a cura di B. Gagnebin e M. Raymond, 5 voll., “Bibliothèque de la Pléiade”, Gallimard, Paris 1959-95. D’ora in poi OC].

8 É «ai maggiori scienziati della politica e del diritto» ed in particolare a Hegel che Gramsci fa risalire la consapevolezza di «quest’“immagine” di Stato senza Stato» ovvero di «Stato etico» [Q 6, § 88, p. 764]. D’altra parte tale “immagine” nell’autore della Filosofia del diritto permane a livello di «pura utopia», giacché egli in ultimo prescinde dai colossali sconvolgimenti materiali che soli possono conferirle concretezza. Al contrario Gramsci, esplicitamente erede della tradizione marxista su ciò, riflette sulla complessità della scissione apparentemente netta esistente fra Stato e società civile. Anzitutto egli distingue società civile, società politica e Stato [Cfr. Q 8, § 130, p.1020: «lo Stato si presenta nel linguaggio e nella cultura delle epoche determinate, cioè come società civile e come società politica, come «autogoverno» e come «governo dei funzionari». Cfr. anche Q 7, § 28, p. 876; Q 8, § 142, p.1028; Q 10, § 7, p. 1245; Q 12, § 1, p. 1518; ivi, p. 1527]. In tal senso se per un verso il comunismo opererà il graduale «riassorbimento della società politica nella società civile» [Q 5, § 127, p. 662], per l’altro sottolinea che ciò non può avvenire se non prendendo atto del fatto che «la società civile […] è anch’essa “Stato”, anzi è lo Stato stesso» [Q 26, § 6, p. 2302] e dunque per la presa del potere da parte della classe proletaria il farsi società politica risulta passaggio obbligato. Di qui il contributo originale di Gramsci alla teoria dello Stato come “Stato allargato”, cfr. su ciò Guido Liguori, Stato e società civile da Marx a Gramsci, in “Critica marxista”, 2000, n. 6, pp. 37-43.

9 Q 8, § 179, p. 1049.

10 Ivi, p. 1050.

11 Rousseau al dato quantitativo (il calcolo dei suffragi) affianca un criterio qualitativo (riferito al merito delle deliberazioni). Scrive il ginevrino: «a rendere generale la volontà non è tanto il numero dei voti, quanto l’interesse comune che li unisce» [Rousseau, op. cit, II, IV, p. 102].

12 Un modello rivoluzionario passivo prevede una dialettica viva fra i termini della direzione e del dominio, mentre quello restaurativo classico privilegia il secondo aspetto, ovvero il momento della coercizione rispetto a quello del consenso.

13 Rousseau, op. cit., I, VI, p. 82 .

14 Q 13, § 1, p. 1559.

15 Ivi, pp. 1559-60. In tal modo le masse popolari non hanno potuto partecipare attivamente ad un progetto di avanzamento storico integrale e complessivo. Sebbene il termine sia utilizzato anche in negativo, in Gramsci giacobinismo sta generalmente ad indicare anzitutto la comprensione del valore fondamentale dell’unità fra città e campagna, da cui sola può svolgersi una volontà collettiva forte e coerente, in grado di creare nuova storia.

16 Q 8, § 21, p. 952.

17 Q 7, § 12, p. 862.

18 Ibidem.

19 Q 13, § 1, p. 1556. Forse le pagine più belle sono quelle dedicate da Gramsci alla formazione d’una volontà collettiva come concepita nel Principe di Machiavelli, «un libro “vivente”» in cui l’ideologia, «l’elemento dottrinale e razionale si impersona in un “condottiero” che presenta plasticamente e “antropomorficamente” il simbolo della «volontà collettiva». In tal modo il processo per la formazione della «volontà collettiva» viene presentato non mediante una «pedantesca disquisizione di principii e di criterii di un metodo d’azione, ma come “doti e doveri” di una personalità concreta, che fa operare la fantasia artistica e suscita la passione». Tuttavia, «solo un’azione politico-storica immediata» può incarnarsi in un individuo concreto: la rapidità non può esser data che da un grande pericolo imminente «che crea fulmineamente l’arroventarsi delle passioni e del fanatismo e annulla il senso critico e l’ironia che possono distruggere il carattere “carismatico” del condottiero». Tale azione risulterà quasi sempre dunque di tipo restaurativo, riorganizzativo e difensivo, non creativo: qui si suppone che una “volontà collettiva” già esistente «si sia snervata e dispersa e occorra riconcentrarla e irrobustirla, e non già che una “volontà collettiva” sia da creare ex-novo e da indirizzare verso mete concrete sì, ma di una concretezza non ancora verificata dall’esperienza passata».

20 Ivi, Q 7, § 12, p. 862.

21 Ibidem.

22 Ivi, p. 863.

23 Ibidem. Decisamente hegelo-marxista la precisazione successiva di Gramsci: «il tramonto di un modo di vivere e di pensare non può verificarsi senza crisi» [Ibidem].

24 Ibidem.

25 Q 6, § 88, p. 764.

26 Ibidem. Gramsci pensa di certo positivamente allo Stato socialista come organizzazione coercitiva giacchè in tal modo «tutelerà lo sviluppo degli elementi di società regolata in continuo incremento» e pertanto ridurrà gradualmente gli interventi autoritari e coattivi. Egli pensa evidentemente allo Stato socialista anche perchè sottolinea subito dopo: «nè ciò può far pensare a un nuovo “liberalismo”, sebbene sia per essere l’inizio di un’era di libertà organica» [Ivi].

27 Q 13, § 1, p. 1558. Più specificamente scrive Gramsci: «Se si dovesse tradurre in linguaggio politico moderno la nozione di “Principe”[…] si dovrebbe fare una serie di distinzioni: «principe» potrebbe essere un capo di Stato, un capo di governo, ma anche un capo politico che vuole conquistare uno Stato o fondare un nuovo tipo di Stato; in questo senso «principe» potrebbe tradursi in lingua moderna “partito politico”» [Q 5, § 127, p. 662].

28 Q 6, § 79, p. 751.

29 Si pensi ad esempio come negli USA, a cavallo della guerra di Secessione, era la società civile sudista ad imporre la schiavitù, ovvero il semiservaggio dei neri e a respingere come indebita intromissione qualsivoglia controllo dello Stato federale [Cfr. su ciò D. Losurdo, Dai fratelli Spaventa a Gramsci. Per una storia politico-sociale della fortuna di Hegel in Italia, La Città del Sole, Napoli 1997]. D’altra parte difficilmente una tesi dell’estinzione dello Stato meccanicisticamente intesa può conciliarsi con la polemica di origine spaventiana (o comunque risorgimentale), che Gramsci nel paragrafo dedicato alla nozione di società civile sviluppa contro il cattolicesimo secondo cui, rispetto alla Chiesa, lo Stato sarebbe una realtà «puramente storica o contingente» [Q 6, § 24, p. 704].

30 Q 8, § 21, p. 951.

31 Cfr. su ciò Raul Mordenti, «Quaderni dal carcere» di Antonio Gramsci in AA. VV., Letteratura italiana Einaudi. Le opere, vol. IV.II, a cura di A. Asor Rosa, Einaudi, Torino 1996. pp. 42-49.

32 Di indubbio interesse e vitalità si dimostra il Gramsci di Togliatti in merito all’attenzione dedicata dal primo al rapporto fra rivoluzione e questione nazionale. Per riflettervi conviene prender le mosse dalla Rivoluzione d’Ottobre del 1917, atto di nascita politica dei due dirigenti comunisti: quest’ultima per un verso scoppia sull’onda della lotta contro la guerra provocata dalla crisi di sovrapproduzione in cui si vedono coinvolte le grandi potenze capitalistiche e coloniali e scoppia contro gli sciovinismi e gli angusti nazionalismi che l’avevano attizzata; per l’altro chiama alla lotta i popoli coloniali affinché si costituiscano in Stati nazionali indipendenti. Se il primo aspetto è dichiaratamente internazionalista ed universalista, il secondo pone in discussione l'”universalismo astratto” e cosmopolita che presiedeva all’espansione coloniale dell’Occidente. Non è difatti autentico un universalismo che non sa rispettare le peculiarità nazionali e che rifiuta di riconoscere il principio dell’autodeterminazione delle nazioni. É certamente qui il vigore filosofico-politico della visione della questione nazionale in Gramsci e Togliatti – nella cura da parte di Togliatti degli scritti di Gramsci [Palmiro Togliatti, Scritti su Gramsci, a cura di G. Liguori, Editori Riuniti, Roma 2001] Liguori ha ragione ad affermare la sostanziale continuità fra le due personalità.

33 Comparso per la prima volta nell’edizione milanese dell’«Avanti!» il 24 novembre 1917 e successivamente ristampato dal «Grido del popolo» del 5 gennaio 1918, ora in A. Gramsci, Scritti politici, I, Editori Riuniti, Roma 1973, pp. 80-83.

34 Cfr. R. Mordenti, op. cit., ivi. Il marxismo di tradizione idealista italiana – di cui Gramsci è fra i più significativi esponenti – pare corrispondere a tale esigenza: esso è per un verso eminentemente antipositivistico, così da poter esser adoperato di contro al determinismo ed all’evoluzionismo volgare della tradizione riformista; per l’altro al tempo stesso non esclude il momento della praxis e della trasformazione, e dunque può esser agevolmente ritradotto in termini d’azione politica operaia.

35 Q 10, § 31, p. 1271.

36 Gramsci dunque, nutrito di idealismo, aspira tuttavia a superare quest’ultimo dall’interno in un processo di negazione non astratta, ma determinata: egli vuol condurre alle estreme conseguenze quella proficua dialettica fra filosofia e storia che gli idealisti italiani avevano enunciato, ma dalla cui estensione coerente al rapporto fra politica e storia o «politica in atto» s’erano tuttavia ritratti [Cfr. Q 10, § 31, pp. 1269-76].

37 Ivi, Q 6, § 98, p. 773.

38 Cfr Q 6, § 12 p. 693; § 65, p. 734; § 82, p. 755; § 88, p. 764 e Q 7, § 33, p. 882.

39 Q 8, § 2, p. 937.

40 Q 6, § 65, p. 734.

41 Q 10, § 10, p. 1229.

42 Q 3, § 90, p. 372.

43 Q 11, § 12, p. 1392. Particolarmente ostica per loro è la lotta per emanciparsi da elementi imposti dall’esterno da uno Stato e da un costume che non sono prodotto della loro autonoma elaborazione. Tale difficoltà non può essere superata, a parere di Gramsci, contrapponendo all’imposizione sociale e politica una alternativa posta spontaneamente dalla coscienza dei subalterni, come ancora oggi tanto movimentismo tende a credere. La funzione pedagogica dello Stato – di pianificazione e accelerazione dei processi in atto, necessaria soprattutto nella fase di gestazione di un nuovo ordine sociale – è indispensabile nella transizione al socialismo. Una fase di rafforzamento dell’intervento statale è necessaria proprio per le classi sociali «che prima della ascesa alla vita statale autonoma non hanno avuto un lungo periodo di sviluppo culturale e morale proprio e indipendente» (8, 130: 1020-1). A differenza della borghesia il proletariato non ha in generale modo, prima di ascendere ad una vita statale autonoma, di forgiare una società civile funzionale al proprio progetto storico. Vi è dunque bisogno di una fase di vera e propria iniziazione alla vita statuale che prevede un rafforzamento degli istituti dello Stato.

44 Q 8, § 153 , p. 1032.

45  Q 18, § 37, p. 1940.

46  Rousseau, Discours sur l’origine et les fondements de l’inégalité parmi les hommes, in OC,  p. 132.

Ringraziamenti: all’autrice di questo saggio breve a cui sono grata anche per l’estrema cortesia dimostrata.

Al sito  “www.filosofiaitaliana.it”, una pubblicazione elettronica del “Giornaledifilosofia.net” ISSN 1827-5834, dove questo lavoro è stato pubblicato.

Nel quadro: “Lo spaccapietre” di Gustave Courbet (1819–1877)