Ettore Majorana: la sua scomparsa fu un affare di stato? (parte prima)
Al carissimo Giacomo Radegondo,
con l’augurio che possa almeno lui
vivere un giorno tra persone
che capiscano che se non può farsi
la storia senza spirito di carità,
pure non può darsi alcuna carità
senza spirito di verità.
Una misteriosa scomparsa
“La storia della scienza non è fatta soltanto di esperienze e di teorie, di dubbio metodico e di argomenti logici, di ipotesi ardite e di paradigmi razionali, ma anche di passioni nascoste, di drammi e talora di tragedie.”
(Dalla Presentazione del libro di Valerio Tonini, VT)
Alle ore 22.30 di venerdì 25 marzo 1938, un giovane inquieto, dallo sguardo acceso e penetrante, quasi febbrile, si imbarca sul piroscafo “Città di Palermo” della Compagnia “Tirrenia”, che presta servizio tra Napoli e Palermo. Né la prospettiva del viaggio, che comprende lo splendido rimirare del sorgere del sole in mare, quando si è in vista delle coste siciliane, né le allegre ciarliere ragazze intorno a lui sembrano interessarlo. Una qualche segreta cura lo opprime manifestamente, e il viaggio che sta per intraprendere sembra preoccuparlo in modo particolare. Qualche ora prima ha ritirato tutti gli emolumenti relativi ai primi mesi della sua recentissima carriera universitaria, che non si era mai premurato prima di allora di riscuotere, e spedito una lettera al Prof. Antonio Carrelli, direttore dell’Istituto di Fisica della Regia Università di Napoli, presso cui presta soltanto da pochi mesi servizio, nel ruolo, eccezionale per uno della sua età, di professore straordinario[1].
” Napoli, 25 marzo 1938 – XVI
Caro Carrelli,
Ho preso una decisione che era ormai inevitabile. Non vi è in essa un solo granello di egoismo, ma mi rendo conto delle noie che la mia improvvisa scomparsa potrà procurare a te e agli studenti. Anche per questo ti prego di perdonarmi, ma sopra tutto per avere deluso tutta la fiducia, la sincera amicizia e la simpatia che mi hai dimostrato in questi mesi. Ti prego anche di ricordarmi a coloro che ho imparato a conoscere e ad apprezzare nel tuo Istituto, particolarmente a Sciuti, dei quali tutti conserverò un caro ricordo almeno fino alle undici di questa sera, e possibilmente anche dopo
E. Majorana”[2].
Faceva da pendant a questa lettera un appunto, lasciato dal giovane su un tavolo della sua stanza, presso l’albergo Bologna, dove alloggiava quando doveva sostare a Napoli per il suo nuovo lavoro. Esso si trovava all’interno di una busta, indirizzata “Alla mia famiglia”, e recava solo queste poche righe:
” Napoli, 25 marzo 1938 – XVI
Ho un solo desiderio: che non vi vestiate di nero. Se volete inchinarvi all’uso, portate pure, ma per non più di tre giorni, qualche segno di lutto. Dopo ricordatemi, se potete, nei vostri cuori e perdonatemi
aff.mo Ettore”[3].
La mattina successiva sbarca a Palermo, e prende una camera al Grand Hotel Sole, nel centralissimo Corso Vittorio Emanuele. I cupi pensieri, che lo avevano evidentemente pervaso il giorno prima, sembrano in qualche modo essersi dissolti, perché spedisce un telegramma urgente al suo direttore Carrelli, seguito da una lettera “espresso”, scritta su carta intestata dell’Hotel, che costituisce l’ultimo documento autografo che ci sia di lui pervenuto:
” Palermo, 26 marzo 1938 – XVI
Caro Carrelli,
Spero che ti siano arrivati insieme il telegramma e la lettera[4]. Il mare mi ha rifiutato e ritornerò domani all’albergo Bologna, viaggiando forse con questo stesso foglio. Ho però intenzione di rinunciare all’insegnamento. Non mi prendere per una ragazza ibseniana perché il caso è differente. Sono a tua disposizione per ulteriori dettagli
aff.mo E. Majorana”[5].
Si tratta di documenti che si credevano tutti andati dispersi – e come tali li dà Amaldi ancora nel 1966[6] – fino alla loro “riscoperta”, avvenuta nel 1972, nella casa romana della sorella di Majorana (Maria), da parte del Prof. Recami[7]. Il direttore Carrelli avrebbe dimenticato di avere consegnato tutto il materiale relativo alla scomparsa di Majorana al di lui fratello Salvatore[8], e quindi avvalorato per anni la tesi dello smarrimento. Davvero strana simile distrazione, in un contesto tanto drammatico, tanto più che Carrelli appare responsabile anche di un altro smarrimento di documenti aventi a che fare con il caso Majorana. Raccontiamo brevemente i fatti, come risultano da ER, p. 64. Il giorno prima di partire per Palermo, Majorana avrebbe consegnato a una sua studentessa, la signorina Gilda Senatore, una “cartelletta piena di manoscritti”, pregandola di conservarla, e dicendole che ne avrebbero riparlato. Successivamente, la Senatore la mostrò al proprio fidanzato, che era uno degli assistenti di Carrelli, e questi la consegnò al suo professore: “Distolse la strada della vita in una via gerarchica; così che quei manoscritti si persero”. Trascuratezza davvero strana (usiamo ancora una volta questo aggettivo) quella di Carrelli, e incongruente il commento di Recami, perché proprio la “via gerarchica” avrebbe potuto (e dovuto) viceversa garantire, meglio di ogni altra, la conservazione di quelle carte, ma andiamo pure avanti con la nostra narrazione.
Da questo momento in poi, vale a dire dalla mattina del giorno 26, tutto ciò che sappiamo sui movimenti e la sorte di Majorana è avvolto nel vago. Dalla lettera appena citata sembrerebbe che questi avesse l’intenzione di ripartire per Napoli la sera stessa del sabato, via mare come all’andata, e così avrebbe potuto davvero viaggiare, come aveva previsto, “con questo stesso foglio”, dal momento che la nave effettuava anche servizio postale. Si ritiene invece comunemente che sia rimasto a Palermo anche tutto il giorno di sabato, e la domenica successiva, 27 marzo, almeno fino all’ora di partenza del piroscafo che faceva il tragitto inverso, Palermo-Napoli. Avrebbe acquistato un biglietto per il viaggio di quella sera, ma agli atti non risulta chiaramente che il lunedì mattina qualcuno lo abbia incontrato, o lo abbia visto sbarcare, a Napoli. Dobbiamo allora concludere che, da quella mattina di sabato in poi, se ne sono perdute tutte le tracce, per sempre.
La questione dell’eventuale ‘viaggio di ritorno’ di Majorana è molto confusa, e su di essa certamente ritorneremo nel seguito, ma diciamo subito che è solo parzialmente interessante per i nostri fini. In un appunto del 31 marzo 1938, attualmente presso l’Archivio Centrale dello Stato, e proveniente dal Ministero dell’Interno, Divisione Affari Generali e Riservati[9], si afferma che “è risultato che nessuna persona del suo nome abbia preso il piroscafo Napoli-Palermo e Palermo-Napoli”; si suppone inoltre che il giovane, “misantropo acuto”, possa essere rimasto a Palermo, dopo aver evidentemente viaggiato in incognito[10], o addirittura, e chissà perché, “partito per Tunisi”. La famiglia di Majorana, che intraprese subito incessanti ansiose ricerche del suo congiunto, smentì queste notizie, e dà invece per certo che Majorana abbia effettuato anche questo viaggio di ritorno, nella notte tra il 27 e il 28[11]. Nell’occasione confida soprattutto sulla testimonianza di un certo Prof. Vittorio Strazzeri, che avrebbe ricordato un suo compagno di traversata, rispondente alle caratteristiche fisiche dello scomparso[12]. Ricerche più dettagliate intraprese dalla compagnia navale avrebbero infatti in seguito ritrovato due biglietti a nome Majorana, dei giorni 25 e 27 marzo, e dichiarato che, a quel che risultava, la notte tra la domenica e il lunedì, altri due uomini avrebbero diviso la cabina con il docente scomparso: il Prof. Strazzeri, appunto, e uno straniero, presumibilmente un inglese, di cui non si è mai saputo nulla, che aveva detto di chiamarsi Carlo Price. Strazzeri, di cui riparleremo nel Capitolo IV cercando di approfondire tutti questi particolari, esprime parecchia incertezza a proposito del riconoscimento, ma afferma comunque che “se la persona che ha viaggiato con me era suo fratello, egli non si è soppresso, almeno fino all’arrivo a Napoli”[13].
Appare in ogni caso singolare che le ricerche “ufficiali” siano state capaci di fornire solo risultati così modesti, e contrastanti, per di più sotto aspetti che non sembrerebbe tanto difficile per un servizio di polizia efficiente di poter accertare con la più assoluta sicurezza. Come abbiamo visto, parte della responsabilità sarebbe della Compagnia “Tirrenia”, la quale avrebbe in un secondo momento rettificato le informazioni che aveva fornito a caldo[14], ma su questi dettagli per ora sorvoliamo, non senza aver prima sottolineato, però, come in tutta questa storia l’aspetto “poliziesco”, relativo all’effettuazione, e ai risultati, di indagini ufficiali, resti sorprendentemente in secondo piano. Le ricerche della polizia iniziano evidentemente soltanto dopo la denuncia del Prof. Carrelli al Rettore dell’Università di Napoli, il quale avrebbe a sua volta informato il Questore di quella città della misteriosa e perdurante irreperibilità del professore. Poiché questa lettera riassume in qualche modo gli elementi per così dire “ufficiali” della scomparsa di Majorana, ci sembra di fare cosa utile nei riguardi del lettore con il riprodurla integralmente.
“Regia Università di Napoli
Napoli, 30 marzo 1938 – XVI
Magnifico Rettore,
con grande dolore Le comunico quanto segue.
Sabato 26 marzo ricevo alle ore 11 del mattino un telegramma urgente del mio collega ed amico Prof. Ettore Majorana, ordinario di Fisica Teorica in questa Università, telegramma concepito in questi termini: ‘Non allarmarti. Segue lettera. Majorana”. Questa missiva mi riuscì incomprensibile, mi informai e seppi che la mattina non aveva fatto la sua lezione. Il telegramma veniva da Palermo.
Con la distribuzione postale delle 14 mi è pervenuta una lettera in data precedente, e da Napoli, nella quale manifestava propositi suicidi. Compresi allora che il telegramma urgente da Palermo del giorno successivo doveva appunto servire a rassicurarmi, dandomi la prova che nulla era accaduto. Ed infatti domenica mattina mi è giunto un espresso da Palermo in cui mi diceva che le brutte idee erano scomparse e che subito sarebbe ritornato.
Purtroppo però l’indomani lunedì non comparve all’Istituto né all’albergo dove aveva preso alloggio. Allarmato un po’ per questa sua assenza detti notizia di quanto era accaduto alla famiglia che risiede a Roma. Ieri mattina è giunto qui il fratello[15] col quale mi sono recato dal Questore della città di Napoli pregandolo d’informarsi presso la Questura di Palermo se il Prof. Majorana si trattenesse ancora in qualche albergo di quella città. Poiché questa mattina non ancora mi sono giunte notizie informo la M.V.[16] di quanto è accaduto, nella speranza che il mio collega abbia solo voluto prendere un po’ di riposo, dopo un momento di esaurimento, di sconforto, e che presto venga nuovamente fra noi a dare il suo grande contributo di attività e di intelligenza.
Con osservanza.
Antonio Carrelli”[17].
Il 31 marzo, cioè il giorno successivo a questa comunicazione, il Capo della Polizia dell’epoca, il senatore Arturo Bocchini, disponeva per telegramma a tutti i Questori del Regno di intraprendere ricerche, “ai soli fini rintraccio, senza comunque far nulla trapelare all’interessato”, del Prof. Majorana, “allontanatosi da Napoli senza dare notizie famiglia”[18]. Il testo, conservato presso il dianzi citato ufficio, reca le tracce di un successivo ordine di archiviazione, e nulla più, a conferma che la scomparsa di Majorana sembra aver davvero poco interessato i tutori dell’ordine. Amaldi ricorda che “Le indagini furono condotte per oltre tre mesi sia dalla Polizia che dai Carabinieri e con l’interessamento personale di Mussolini a cui si era rivolta la madre”[19]. In realtà, è vero che la signora Majorana si rivolse direttamente al Duce (circostanza al tempo non inconsueta, in conformità con quella sorta di mito ‘paternalistico’ che il governo fascista tendeva ad alimentare), il quale sembra si sia interessato quindi in prima persona alla vicenda; ma questo accadde soltanto alla fine del mese di luglio, quando di mesi dalla scomparsa di Majorana ne erano passati non soltanto tre, ma addirittura quattro, e l’energia delle prime ricerche, se mai ci fu, doveva essersi ormai del tutto sopita. Un intervento al più alto livello per l’intensificazione delle indagini fu effettuato del resto anche dall’allora influentissimo Prof. Enrico Fermi, astro nascente della fisica internazionale, al tempo il più giovane Accademico d’Italia[20], con un intervento che qui di seguito ancora una volta integralmente riportiamo[21]:
” Roma, 27 luglio 1938 – XVI
Duce,
con riferimento alla lettera della famiglia Majorana che riceverete insieme alla presente, mi permetto di esporVi quella che è a mio parere la posizione scientifica di Ettore Majorana e quelle che sono le prospettive future della sua attività se, come è ansioso desiderio di tutti noi suoi colleghi, egli potrà essere restituito al suo lavoro per la Scienza Italiana.
Io non esito a dichiararVi, e non lo dico quale espressione iperbolica, che fra tutti gli studiosi italiani e stranieri che ho avuto l’occasione di avvicinare il Majorana è fra tutti quello che per profondità di ingegno mi ha maggiormente colpito.
Capace nello stesso tempo di svolgere ardite ipotesi e di criticare acutamente l’opera sua e degli altri; calcolatore espertissimo, matematico profondo che mai per altro perde di vista dietro il velo delle cifre e degli algoritmi l’essenza reale del problema fisico, Ettore Majorana ha al medesimo grado quel raro complesso di attitudini che formano il fisico teorico di gran classe. Ed invero, nei pochi anni durante i quali si è svolta fino ad ora la sua attività, egli ha saputo imporsi all’attenzione degli studiosi di tutto il mondo, che hanno riconosciuto nelle sue opere l’impronta di uno dei più forti ingegni del nostro tempo e la promessa di ulteriori conquiste.
Per queste ragioni, quando alcuni mesi or sono l’opera del Majorana ebbe l’alto riconoscimento della nomina a professore per meriti eccezionali, il provvedimento fu universalmente applaudito da tutti i competenti. E le successive notizie della sua scomparsa hanno costernato quanti vedono in lui chi potrà ancora molto aggiungere al prestigio della Scienza Italiana.
Sono sicuro di interpretare il sentimento unanime degli studiosi nell’esprimere il voto che le ricerche abbiano presto a condurre al ritrovamento del Majorana e permettano di restituirlo all’affetto della famiglia e alla sua grande attività.
Vi prego di accogliere l’espressione della mia profonda devozione,
Enrico Fermi”.
La richiesta del Prof. Fermi fu inviata al Duce acclusa alla lettera ricordata da Amaldi, recante la stessa data del 27.7, scritta dalla madre di Ettore, Dorina[22]. Questa si rivolge al “moderatore e ispiratore sommo della Giustizia” perché “siano intensificati nei limiti del possibile i provvedimenti più atti” al ritrovamento del figlio. La circostanza fa pensare che l’appello di Fermi al Duce sia stato sollecitato dalla signora Majorana, e che altrimenti – come abbiamo notato, siamo ormai a quattro mesi di distanza dalla scomparsa del figlio – nessuno dei di lui autorevoli amici fisici romani sarebbe intervenuto[23].
Mussolini avrebbe allora rivolto al senatore Bocchini un semplice e volitivo “Voglio che si trovi!”[24], imperativo che, nonostante la sua ferma perentorietà, non riuscì a far compiere alcun passo avanti verso la risoluzione del mistero, dal punto in cui si erano ormai arenati i maldestri e svogliati tentativi dei nostri apparati ufficiali[25]. Le indagini, si può dire, erano pervenute assai presto “a un punto morto”, a conferma del fatto, enunciato perfettamente da Sciascia, che “la sicurezza pubblica, per quel tanto che se ne gode, più poggia sulla poca e sporadica tendenza a delinquere degli uomini che sull’impegno, l’efficienza e l’acume di essa polizia […] più o meno secondo i tempi, più o meno secondo i paesi”[26].
L’italiana “burocrazia” si limitò allora, con la sua consueta ammirevole solerzia quando si tratta di dar corso a qualche atto sgradito per il comune cittadino (pronta a reclamare i propri diritti, tarda nel soddisfare i propri doveri), a dichiarare Majorana decaduto dal ruolo di professore, con provvedimento del 6 dicembre 1938[27], a firma del ministro dell’Educazione Nazionale Giuseppe Bottai, e con decorrenza a partire da quel fatidico 25 marzo[28].
Descritti così sinteticamente gli avvenimenti che costituiranno l’oggetto della nostra attenzione, è chiaro che per intuire, almeno nelle linee generali, cosa possa nascondersi dietro l’enigma della scomparsa di Majorana, resta più importante stabilire cosa era andato a fare il giovane fisico a Palermo, cosa effettivamente vi fece, come vi trascorse il tempo, chi incontrò il sabato 26 marzo, o la domenica dopo; perché fosse tanto turbato il giorno 25 da manifestare quei propositi, evidentemente suicidi (anche se rimane da stabilire quanto sinceri) al suo direttore, e cosa lo avrebbe invece così rapidamente dissuaso il giorno dopo, ispirandogli gesti tanto contraddittori (forse notizie che aveva ricevuto da parte di qualcuno incontrato nelle prime ore trascorse a Palermo, o addirittura durante il viaggio?!)[29]. É tutto questo che serie ricerche avrebbero potuto stabilire con ragionevole certezza, ed è proprio tutto questo che non sembra si sia mai saputo neppure ipotizzare, nonostante i tentativi effettuati soprattutto dai familiari. Sembra che i Majorana si siano rivolti addirittura all’Onorata Società per avere qualche informazione in merito alla sorte, o ai movimenti, del congiunto, ma ancora una volta senza alcun successo[30]. Possibile che non si sia riusciti a individuare, e ad acquisirne le testimonianze, nemmeno coloro che divisero la cabina con il giovane durante il viaggio di andata, che è dato per scontato? E che non si sia riusciti ad ottenere alcuna utile informazione da parte del personale dell’albergo dove Majorana alloggiò i probabili ultimi due giorni della sua vita? Perché se non partì da Palermo la sera del 26, sarà pure rimasto a pernottare da qualche parte; e se rimase nello stesso albergo almeno qualche ora la mattina del 27, qualcuno avrebbe pur dovuto ricordare qualcosa dei suoi movimenti (dove pranzò?, con chi?, chi lo accompagnò al porto?, etc.). E anche se è vero che la Sicilia è terra di omertosa laconicità, dietro le turbe psichiche di un giovane scienziato ipocondriaco, almeno secondo l’interpretazione comune del caso, non avrebbero dovuto avvertirsi quei rischi di oscuri retroscena che inducono i ‘benpensanti’ (di ogni tempo e di ogni paese) alla ‘prudenza’. Tutte queste lacune nelle indagini ufficiali del tempo appaiono sin d’ora, al di là del citato strutturale scarso impegno poliziesco, molto ‘sospette’, e vedremo poi se non si possa riuscire ad immaginare anche per tale particolare aspetto di questa storia qualche adeguata ragione – che non sia appunto l’ormai mitica insufficienza di ogni attività condotta da una struttura pubblica italiana.
CAPITOLO II
Ettore Majorana e i “ragazzi di via Panisperna”
Perché, vede, al mondo ci sono varie categorie di scienziati; gente di secondo e terzo rango, che fan del loro meglio ma non vanno molto lontano. C’è anche gente di primo rango, che arriva a scoperte di grande importanza, fondamentali per lo sviluppo della scienza [e qui ho netta l’impressione che in quella categoria volesse mettere se stesso]. Ma poi ci sono i geni, come Galileo e Newton. Ebbene, Ettore era uno di quelli, Majorana aveva quel che nessun altro al mondo ha; sfortunatamente gli mancava quel che invece è comune trovare negli altri uomini, il semplice buon senso.”
(Opinione attribuita a E. Fermi da uno dei suoi collaboratori, Giuseppe Cocconi – ER, p. 22)
“Sono nato a Catania il 5 agosto 1906. Ho seguito gli studi classici conseguendo la licenza liceale nel 1923; ho poi atteso regolarmente agli studi di ingegneria in Roma fino alla soglia dell’ultimo anno. Nel 1928, desiderando occuparmi di scienza pura, ho chiesto e ottenuto il passaggio alla Facoltà di Fisica e nel 1929 mi sono laureato in Fisica Teorica sotto la direzione di S.E.[31] Enrico Fermi svolgendo la tesi ‘La teoria quantistica dei nuclei radioattivi’ e ottenendo i pieni voti e la lode. Negli anni successivi ho frequentato liberamente l’Istituto di Fisica di Roma seguendo il movimento scientifico e attendendo a ricerche teoriche di varia indole. Ininterrottamente mi sono giovato della guida sapiente e animatrice di S.E. il prof. Enrico Fermi”.
Queste sintetiche notizie autografe sulla propria carriera didattica e scientifica furono scritte da Ettore Majorana nel maggio del 1932[32], probabilmente in occasione della richiesta presentata al Consiglio Nazionale delle Ricerche di finanziare un suo soggiorno di studio all’estero, un’esperienza professionale in Germania e in Danimarca di cui avremo modo di riparlare ampiamente. Esse appaiono il modo migliore per iniziare questo capitolo di carattere storico-biografico, forse meno interessante per chi non sia appassionato di studi di fisica (che può comunque limitarsi a ‘scorrerlo’ velocemente), ma in una certa misura indispensabile perché si possa poi cominciare ad affrontare qualcuno degli interrogativi fondamentali enunciati alla fine del precedente capitolo con qualche cognizione di causa. Messe quindi da parte le scarne notizie di cui sopra, sarà bene dare qualche informazione di più sulla figura e la personalità dello scomparso[33].
Come detto, Ettore Majorana era nato nella città etnea, da famiglia molto benestante, e di notevoli tradizioni pubbliche e culturali. Il padre, Fabio Massimo, era il quinto figlio (ai cinque primi maschi seguirono due femmine) di Salvatore Majorana, economista, giurista, professore alle Università di Messina e di Catania, deputato e ministro dell’Agricoltura, Industria e Commercio in due gabinetti De Pretis, infine senatore del Regno negli ultimi vent’anni della sua vita. Fabio Massimo, ingegnere del Regio Ispettorato dei Telefoni, “creatore e direttore dell’Azienda telefonica locale”, fu con ogni probabilità il meno illustre dei suoi fratelli: Giuseppe, deputato di tre legislature, e professore di Economia e Finanza presso l’Università di Catania, dove assurse fino al ruolo di Magnifico Rettore (1911-1919); Angelo, ministro delle Finanze e del Tesoro in due governi Giolitti, professore di Diritto Costituzionale e di Sociologia, sempre presso la predetta Università, dove divenne anch’egli Rettore (1895-1898)[34]; Quirino, di cui avremo modo di riparlare in maggiore dettaglio, fu illustre professore di fisica presso le Università di Torino e di Bologna, dove successe ad Augusto Righi nella direzione dell’Istituto di Fisica; Dante, fu pure lui professore universitario, deputato, e terzo Rettore dell’Università di Catania nella stessa famiglia (anche se diversi anni più tardi dei suoi fratelli, dal 1944 al 1947)!
La madre di Ettore, Dorina[35] Corso, proveniva anch’essa da un ambiente molto agiato, una ricca famiglia di agricoltori della provincia. Prima del protagonista della nostra storia, aveva avuto altri tre figli: Rosina, Salvatore, Luciano (il primo è stato già nominato in relazione alle primissime ricerche del fratello, e anche del secondo avremo modo di riparlare); un’altra figlia, Maria, nacque parecchi anni dopo Ettore, ed è stata già citata quale provvida di aiuto per la ricerca del Prof. Recami, nostra fonte principale.
Ettore Majorana non tarda a rivelare sin da fanciullo i prodigiosi talenti del suo intelletto, con piena aderenza alla “classica, ma non per questo meno sconcertante, aneddotica del bambino prodigio”: “A cinque anni il piccolo Ettore estrae le radici cubiche da grossi numeri e calcola la spinta iniziale di una sassata tenendo conto della sua gravità, premiato dalla comprensibile gioia di suo zio Quirino, docente di fisica sperimentale […] A sette anni è un noto scacchista, e stavolta il riferimento a una data è certo, visto che se ne occupano le cronache cittadine”[36].
Dietro pressione della madre, frequenta le ultime classi delle elementari presso l’assai stimato Istituto Parificato “Massimiliano Massimo”, diretto a Roma dai Padri Gesuiti, e in quell’Istituto prosegue i suoi studi fino ai primi due anni del liceo (il terzo e ultimo anno sarà invece un allievo del Liceo Statale “Torquato Tasso”).
Conseguita la maturità classica nell’estate del 1923, si iscrive nell’autunno dello stesso anno al Biennio d’Ingegneria dell’Università di Roma (città nella quale si era trasferito il resto della sua famiglia nel 1921) e, al termine di questo periodo di formazione propedeutica, alla Scuola di Applicazione per gli Ingegneri, rimanendovi fino al 1928. Fra i suoi colleghi d’università ricordiamo: il fratello Luciano; l’amico di lunga data Gastone Piquè (una cui testimonianza avremo poi modo di riportare); Giovanni Gentile junior, detto Giovannino (figlio omonimo del grande filosofo, che fu anche senatore e ministro, ancora oggi ricordato per una famosa “riforma” della scuola – anche Gentile junior, che va considerato tra i più sinceri amici di Majorana, divenne più tardi un professore di fisica, e sarà spesso presente nel nostro racconto); Enrico Volterra (in seguito professore di ingegneria presso l’Università di Austin, Texas, era figlio del conosciuto matematico Vito Volterra, che avremo nuovamente occasione di citare); Giovanni Enriques (anch’egli figlio di un noto matematico, Federigo, che ci capiterà ancora di incontrare); e infine quell’Emilio Segrè, futuro premio Nobel per la fisica, che diventerà presto uno dei personaggi di primissimo piano di questo libro. Nell’estate del 1927, Segrè aveva fatto conoscenza con Franco Rasetti, al tempo ancora assistente presso l’Istituto di Fisica dell’Università di Firenze, ma in procinto di trasferirsi nella capitale, al seguito del Prof. Enrico Fermi, appena nominato giovanissimo (aveva solo 26 anni) professore straordinario di Fisica Teorica presso l’Università di Roma[37]. Questa conoscenza avrà effetti decisivi per lo sviluppo della nostra storia, come subito diremo.
Erano quelli i tempi in cui la fisica teorica – grazie anche ai successi, di natura pure popolare e divulgativa[38], di un personaggio come Albert Einstein, e della sua sorprendente teoria della relatività – cominciava ad affermarsi come disciplina a sé stante, non senza una certa ‘avversione’ da parte della vecchia generazione di fisici, che era di origine soprattutto sperimentale, e non riusciva a concepire la ricerca in fisica all’infuori di questo ambito. É comunemente riconosciuto che merito di tale nuova fase degli studi fisici in Italia si deve alla brillante figura scientifica e organizzativa di un altro siciliano, Orso Mario Corbino (1876-1937), professore di Fisica Sperimentale, e direttore dell’Istituto di Fisica dell’ateneo romano dal 1918 al 1937. In questo periodo il Corbino, che era fratello di un’alta personalità della politica italiana, Epicarmo Corbino, ebbe pure modo di assumere le funzioni di ministro nel governo Mussolini, prima per la Pubblica Istruzione, e poi per l’Economia Nazionale. Si trattava quindi di una persona assai influente, ai vertici dell’organizzazione della ricerca scientifica e della politica, e fu proprio lui, come ricorda Amaldi, a “giustamente valuta[re] le eccezionali capacità di Enrico Fermi”, e “inizia[re] tutta una serie di azioni per creare in Roma una Scuola di Fisica moderna”[39].
Tra i primissimi arrivi alla corte del Papa, come era confidenzialmente soprannominato dai suoi collaboratori colui che sarà destinato a dare un nuovo corso agli studi sull’atomo, il dianzi nominato Franco Rasetti, e il giovanissimo Edoardo Amaldi. Questi aveva lasciato gli studi di Ingegneria nel giugno del 1927, ed era passato a quelli di Fisica, raccogliendo un appello che Corbino in persona “aveva rivolto durante una lezione dicendo esplicitamente che nella situazione di fermento di idee, che esisteva ormai in tutta Europa nel campo della fisica e con la nomina di Fermi a professore a Roma, si apriva, a suo giudizio, un periodo del tutto eccezionale per i giovani che avessero già cominciato a dare prova di essere sufficientemente dotati e che si sentissero disposti ad intraprendere uno sforzo non comune di studio e di lavoro teorico sperimentale”[40].
La stessa decisione di Amaldi fu presa poco dopo da Segrè, e fu proprio questi a insistere presso il suo brillante compagno di studi Majorana perché fosse anche lui della partita. Ecco che così troviamo all’inizio del 1928 Ettore Majorana a frequentare l’Istituto romano di Fisica, al N. 90 di via Panisperna, dove fu presentato a Fermi e a Rasetti dallo stesso Segrè.
“L’incontro tra Fermi e Majorana segnò l’inizio della collaborazione del giovane matematico siciliano alle affascinanti ricerche che con povertà di mezzi pari alla ricchezza di ingegno e d’entusiasmo conducevano nella Scuola di fisica di Roma quel gruppo di giovanissimi noti sotto il nome dei ragazzi di via Panisperna“[41].
Questo gruppo, con questa denominazione, è divenuto ormai leggendario nella storia della fisica, e ne ricordiamo brevemente i componenti. Oltre ai già citati Fermi (il Papa) e Rasetti (il Cardinale Vicario, per ovvie ragioni), c’erano dunque Amaldi (che non sembra abbia avuto mai un soprannome), e Segrè, che era detto il Basilisco, “per il suo carattere mordace”[42]. Majorana, “sempre critico nei confronti del lavoro altrui come del proprio”[43], veniva chiamato il Grande Inquisitore. Al gruppo, qualche anno più tardi, nel 1934, si unì Bruno Pontecorvo (il Cucciolo), e va infine ricordato, ciò che i fisici qualche volta trascurano di fare, che tra le competenze dell’équipe c’era anche quella di un chimico, Oscar D’Agostino, di cui riparleremo presto. Nella serie dei soprannomi, quasi sempre di sfondo ‘ecclesiale’, vanno inoltre citati sin d’ora, il Padreterno, che non poteva essere altri che il direttore Corbino, e la Divina Provvidenza, nella persona del Prof. Giulio Cesare Trabacchi, dell’Istituto di Sanità Pubblica (l’attuale Istituto Superiore di Sanità), che entra in questa storia perché ebbe a fornire ai ricercatori la sostanza radioattiva di cui questi avevano bisogno per le loro sperimentazioni (che sarebbe stata un serio problema reperire altrimenti, perché costosissima)[44].
A proposito dell’espressione “i ragazzi di via Panisperna”, tra i quali abbiamo così anche noi incluso di diritto Ettore Majorana (che risulta in effetti uno dei protagonisti dello sceneggiato televisivo citato nell’Avvertenza iniziale), è curioso forse osservare – oppure no?, come si potrebbe arguire al termine della lettura del presente libro – che in EA Ettore Majorana non è mai ricordato, neppure tra i brevi profili biografici apposti al termine del volume, che comprendono anche altri fisici, italiani e stranieri, che hanno fatto la storia della fisica degli anni Trenta e Quaranta. Ci sono per questa omissione probabili ragioni oggettive[45], di cui presto diremo, ma ciò non toglie che essa sia indizio una volta di più della ‘singolarità’ che circonda la vita e l’opera del protagonista della misteriosa vicenda di cui ci stiamo occupando.
Majorana si laurea dunque a Roma, sotto la direzione di Enrico Fermi, il 6 luglio 1929, conseguendo ovviamente il massimo dei voti e la lode. Con lui nello stesso giorno si laurea Edoardo Amaldi.
“La laurea non introduce alcun cambiamento essenziale nella vita di Ettore: ‘continuò a lavorare nell’istituto senza stipendio anche dopo la laurea: era ricco e l’istituto era povero’, annota un fisico che avrebbe fatto parte del gruppo pochi anni più tardi, Bruno Pontecorvo”[46]. Si apre così l’ultimo decennio della breve vita di Ettore Majorana, un decennio denso di avvenimenti che cercheremo di sintetizzare[47], avendo come punto di riferimento ciò che si andava elaborando nei laboratori romani di via Panisperna.
Majorana prosegue le sue ricerche, sempre tenendosi al corrente di quelle che portano avanti i suoi amici, e stringe un particolare legame di collaborazione e di affetto con il suo ex compagno di studi d’ingegneria Giovanni Gentile, altro siciliano come lui, divenuto nel frattempo assistente presso l’Istituto di Fisica di Roma. “Nel laboratorio di via Panisperna, Majorana è l’unico capace di tener testa a Fermi”[48], nonostante tra i due corrano soltanto pochi anni (“il Papa” era nato nel 1901), e l’abisso gerarchico, che può immaginare anche un non esperto di vita accademica, tra “professore” e “assistente volontario”, come si potrebbe definire la posizione di Majorana in quegli anni.
É questo il periodo in cui la fisica atomica diventa nucleare: “Avvertiamo, all’Istituto, l’opportunità di abbandonare sia pur gradualmente la fisica atomica alla quale abbiamo lavorato per vari anni e di far convergere il principale sforzo di ricerca sui problemi di fisica nucleare”[49]. A tale distinzione tengono molto gli esperti del ramo, e sarà bene in qualche modo rispettarla anche noi. La fisica atomica si occupa dell’atomo tutto intero, che è molto più grande del suo nucleo. Soltanto una questione di dimensioni dunque, e la fisica nucleare potrebbe ben dirsi anche, in modo più esplicito, subatomica. É il 1931 quando i fisici tedeschi Walther Bothe (premio Nobel 1954) e Richard Becker comunicano di avere ottenuto, “bombardando elementi leggeri con particelle alfa[50] veloci”, una radiazione difficile da comprendere teoricamente, e a questa impresa si dedicano, commettendo qualche errore nelle loro congetture, i coniugi francesi Frédéric Joliot e Irène Curie (premi Nobel per la chimica nel 1935)[51]. “Non hanno capito niente”, commenta Majorana, “probabilmente si tratta di protoni di rinculo prodotti da una particella neutra pesante”[52], e siamo infatti di fronte alla scoperta nell’interno del nucleo, che prima si pensava costituito di soli protoni, di codeste particelle prive di carica elettrica, ovvero dei neutroni.[53] Majorana è tra i primissimi a intuire le ragioni del fenomeno segnalato da Bothe e Becker, e a comprendere la ‘necessità’ teorica della presenza di tali corpuscoli neutri “per spiegare la stabilità e la struttura dei nuclei atomici”[54]. Tra il 1932 e il 1933 formula anche “le linee essenziali della sua teoria simmetrica per l’elettrone e l’anti-elettrone”, e ipotesi sulla struttura e le funzioni dei neutrini[55]. Di tale fermento creativo abbiamo notizie dai ricordi di chi conversò allora con lui, da alcuni suoi manoscritti, raramente da ‘lavori’ in piena regola, dal momento che Majorana comincia a dimostrare quel riserbo nel pubblicare i risultati delle sue ricerche che lo accompagnerà durante il corso di tutta la sua vita scientifica. Fermi, che comprende “immediatamente l’originalità e l’importanza di tali teorie”[56], esorta il giovane ricercatore a procedere al più presto alla loro diffusione ufficiale, incontrando però un netto rifiuto. Tale atteggiamento permane anche di fronte alla richiesta di citare il suo nome durante un convegno che si sarebbe tenuto a Parigi nell’estate del 1932, dove Fermi avrebbe parlato del nucleo atomico, e voluto citare in quel contesto le “forze di Majorana”. Solo poco tempo dopo il celebre fisico tedesco Werner Heisenberg (premio Nobel 1932) pubblica le sue considerazioni sullo stesso argomento, e la circostanza suscita stupore e rammarico a via Panisperna, ma contribuisce indubbiamente anche alla crescita della “leggenda” di Majorana. Fermi insiste comunque per farlo uscire dal suo ‘isolamento’, e lo convince a programmare un viaggio di studio in Germania e in Danimarca per incontrarvi i grandi della fisica del tempo, tra i quali il “padre dell’atomo”, Niels Bohr (premio Nobel 1922)[57]. Nel novembre del 1932, un ‘diligente’ Majorana si presenta a sostenere l’esame per la libera docenza, e nel gennaio del 1933 si reca a Lipsia, da Heisenberg, che sarà prodigo di elogi per le concezioni di Ettore, e lo convincerà a pubblicarne almeno qualcosa. Nel mese di marzo fa una visita a Copenaghen, da Bohr, e quindi torna ancora a Lipsia. Di Majorana in questo periodo ci restano numerose lettere al padre e alla madre, testimoni del suo profondo attaccamento alla famiglia, oltre che agli amici italiani, e avremo ancora modo di citarne qualcuna.
La permanenza all’estero appare nel complesso positiva, ma al ritorno, nell’autunno del 1933, egli appare “ammalato nel corpo e impenetrabile nello spirito”[58], distaccandosi sempre più dal gruppo di via Panisperna. Ciò nonostante, “la sorella Maria ricorda come anche in quegli anni Ettore – il quale aveva diradato sempre più le sue visite all’Istituto, a cominciare dalla fine del 1933, cioè dal suo rientro da Lipsia – continuasse a studiare e lavorare a casa parecchie ore al giorno; e la notte”[59]. Majorana sembra aver accentuato la propria scontrosità, e conduce un’esistenza da misantropo, proprio quando gli sforzi dei fisici in certe direzioni stanno cominciando a dare i loro frutti. I coniugi Joliot-Curie, sulle piste del fenomeno segnalato da Bothe e Becker, annunciano da Parigi di essere riusciti a produrre una “radioattività artificiale”, e Fermi progetta di condurre analoghe ricerche sull’argomento a via Panisperna. Decide però di sostituire alle particelle alfa (usate dai francesi, e da tutti fino ad allora, per “bombardare” gli atomi di elementi leggeri), i neutroni, proprio quei costituenti fondamentali del nucleo la cui funzione era stata teorizzata da Majorana. Infatti questi, essendo appunto particelle neutre, non avrebbero dovuto essere respinti, come le particelle alfa (che sono cariche positivamente), dalle cariche positive presenti nel nucleo. Così, dopo essersi procurato, grazie alla “Divina Provvidenza”, una possibile sorgente di neutroni[60], inizia gli esperimenti, con l’intento di bombardare sistematicamente, uno dopo l’altro, tutti gli elementi chimici allora conosciuti (e reperibili senza spesa eccessiva![61]). L’idea di Fermi dà buoni frutti, e si cominciano presto a vederne i primi risultati. Dopo il bombardamento, diverse sostanze (la prima fu il fluoro) presentavano tracce di radioattività, finché, arrivati all’uranio, l’ultimo degli elementi allora conosciuti in natura, si osservava qualcosa di inatteso, e ‘strano’. La polvere di uranio bombardata sembrava essere diventata ancora più radioattiva, e addirittura emanare diversi tipi di radiazioni. É il maggio del 1934, i risultati ottenuti sono difficili da interpretare teoricamente, ma quando il direttore dell’Istituto di Fisica, che è ancora “il Padreterno” Corbino, viene a conoscenza dei successi dei suoi protetti, comprende di avere in mano una possibile “carta vincente” per la fama del suo Istituto. Insiste allora, per avere ragione di alcune resistenze di Fermi, delle quali comprenderemo presto l’origine, perché se ne dia immediata pubblicità. Questa avviene in una seduta solenne dell’Accademia Nazionale dei Lincei, che ha luogo il 4 giugno 1934, “alla presenza dei sovrani”[62]. I giornali diffondono a titoli cubitali la notizia del rinverdimento della scienza italiana, “Vittorie fasciste nel campo della cultura”, “Altissimo contributo portato da scienziati italiani alla fisica”, “L’Italia ha ripreso in tutti i campi la sua antica funzione di maestra e precorritrice”[63], ma nell’annuncio di quanto è stato conseguito dai fisici romani ci sono purtroppo delle serie inesattezze, quelle che Fermi appunto temeva, e segnala subito invitando alla prudenza[64]. Si ritiene infatti, come al tempo credevano tutti, e come sostanzialmente corretto anche secondo le attuali teorie, che alcuni dei neutroni proiettili siano stati ‘catturati’ dai nuclei di uranio bombardati (altri ‘rimbalzano’ invece semplicemente, in una sorta di urto elastico, come tra due palle da biliardo), e che qui qualcuno si sia trasformato in un protone, ‘espellendo’ un elettrone[65]. Questi atomi si sarebbero quindi trasformati in atomi diversi, aventi un numero atomico (vale a dire un numero di protoni) più grande di quello di partenza. Poiché l’uranio che era stato utilizzato ha il numero 92, ecco che si ipotizza di avere prodotto artificialmente dei nuovi elementi chimici transuranici, prima sconosciuti in natura, il 93, e perfino anche il 94 (a causa dei diversi tipi di radioattività riscontrati). Per essi si pensò anche a dei nuovi nomi, e furono scelti quelli, inneggianti alla classicità romana in auge a quei tempi, di Ausonio ed Esperio (per suggerimento dello stesso Corbino?!, attento anche ai risvolti di natura politica dell’operazione)[66]. La produzione dei nuovi elementi non è però sufficientemente dimostrata, e se è ben vero che più tardi gli elementi 93 e 94 saranno prodotti utilizzando sostanzialmente la stessa tecnica[67], e che probabilmente tracce di essi saranno state ottenute anche a via Panisperna, i fisici romani non hanno ancora la possibilità (strumentale e teorica) di compiere le necessarie approfondite analisi. Soprattutto però, l’interpretazione del gruppo di Fermi dei propri esperimenti è carente quanto a completezza, perché non è stato compreso che alcuni degli effetti osservati sono piuttosto segno che quanto si è verificato nei laboratori romani è ben altro, e molto più importante, come nota subito dalla Germania la voce isolata di Ida Noddack, e come si ritiene abbia intuito anche il più vicino Majorana. Quella che i “ragazzi di Corbino” hanno realmente e in primo luogo prodotto è la scissione nucleare (fissione), ovvero, bombardando quei nuclei di uranio con i neutroni hanno ottenuto la loro disintegrazione in frammenti più piccoli, aventi quindi numero atomico inferiore. Un pregiudizio legato forse ancora al nome atomo (e cioè “indivisibile”), trasferito in questo caso al nucleo, rende impossibile ai membri del gruppo di Fermi di comprendere quale fenomeno si sia realmente prodotto sotto i loro occhi. Bisogna aspettare la fine del 1938 perché i chimici Otto Hahn (premio Nobel per la chimica, 1944) e Fritz Strassman riescano a dimostrare che “Ida Noddak [sic] aveva ragione”, e a individuare “la vera natura di quegli esperimenti”[68]. Fatto sta che la motivazione per il Nobel assegnato a Fermi, nel dicembre del 1938, cita ancora erroneamente “l’identificazione di nuovi elementi radioattivi”[69], e che le conclusioni dei fisici romani di quella prima metà del 1934 appaiono “inesatte e incomplete proprio dal punto di vista teorico, la specialità di Ettore”[70], che era rimasto purtroppo lontano dal lavoro dei suoi ‘amici’.
Nonostante l’errore, gli avvenimenti descritti possono comunque essere considerati l’inizio dell’era nucleare, ovvero dello sfruttamento pratico dell’enorme quantità di energia contenuta nell’atomo, per la cui capacità di controllo la fisica diventerà, nel nostro secolo, la regina indiscussa di tutte le scienze, e i suoi ‘grandi sacerdoti’, che ne possono officiare i riti, e comprendere l’iniziatico linguaggio, temuti e riveriti[71]. “Dopo la bomba, la scienza e la ricerca non sarebbero state più le stesse di prima. Dal 1945 lo sviluppo è stato eccezionale, una vera età dell’oro, fino ad oggi, alla nuova rivoluzione industriale, di cui gli USA sono stati e restano protagonisti. É un paese in cui iniziativa privata, ricerca e tecnologia si muovono in un intreccio costante, che costringe i paesi industrializzati ad un’affannosa rincorsa e il resto del mondo a continue revisioni, politiche, sociali ed etiche”[72]. E qui ci si perdoni una digressione, relativa a un controfattuale storico, peraltro importante: come possiamo immaginare sarebbe evoluta la ricerca in fisica senza la travolgente promozione che fu conseguenza della guerra? Indubbiamente questa disciplina ha tratto enormi vantaggi di ordine economico dalla sua partecipazione attiva alle ostilità, e i grandi progetti di ricerca che oggi vedono investiti finanziamenti dell’ordine di grandezza del bilancio nazionale di un piccolo stato sono veramente inimmaginabili, se confrontati con la povertà della fisica di prima della guerra. Di essa abbiamo già avuto evidenti segni in quel che precede, ma possiamo offrirne un’ulteriore esplicita testimonianza: “Il laboratorio romano era veramente piccolo. Il numero complessivo dei collaboratori e dei tecnici che lavoravano con Fermi era di appena una decina. Ogni anno si laureavano in fisica uno o due studenti nonostante che i professori della facoltà di fisica e matematica fossero Fermi, Rasetti, Volterra, Levi-Civita[73] … Per quanto riguarda i mezzi necessari per condurre il lavoro di ricerca la situazione era la seguente: il governo fascista, che aiutava generosamente i grossi industriali, era molto avaro quando si trattava di finanziare l’attività scientifica. Una volta, per fare economia di materiale, Fermi decise di costruire nell’officina del laboratorio le spine elettriche standardizzate”[74]. Del resto, se gli scienziati avevano tratto fuori così tanto dall’atomo e dal nucleo, e permesso di vincere la guerra a chi li aveva favoriti e protetti, chissà cosa si sarebbe potuto tirar fuori da particelle ancora più piccole, e una florida ricerca si è dispersa allora nello zoo delle particelle elementari, frammenti impazziti di materia che emergono sempre più numerosi ad ogni aumento del livello di energia necessario per provocare le relative collisioni, e che sembrano sfuggire ad ogni ordine sistematico. Ci sembra interessante, nella stessa ottica d’idee, citare in esteso un commento del noto fisico statunitense Freeman Dyson, quello che oggi si dice un “fisico delle particelle”.
“I progressi scientifici del XIX secolo e della prima metà del XX portarono benefici all’intera società, diffondendo il benessere fra ricchi e poveri con un certo grado di equità. La luce elettrica, il telefono, il frigorifero, la radio, la televisione, le fibre sintetiche, gli antibiotici, le vitamine, i vaccini hanno rappresentato una sorta di equalizzatore sociale, che ha reso la vita più confortevole e sicura per tutti, restringendo e non allargando il divario fra ricchi e poveri. Solo nella seconda metà del nostro secolo questo equilibrio si è rotto. Negli ultimi quarant’anni gli sforzi maggiori della scienza si sono concentrati nei campi più esoterici, lontano da qualsiasi contatto con i problemi quotidiani. La fisica delle particelle, la fisica delle basse temperature e l’astronomia extragalattica sono esempi di una scienza che si allontana sempre più dalle sue origini. L’intensa ricerca in queste discipline non porta vantaggi né ai ricchi né ai poveri, né arreca danni. Il principale beneficio sociale derivante dalla ricerca pura in campi esoterici è il benessere di scienziati e ingegneri. […] Il fallimento della scienza nell’offrire benefici alla popolazione povera negli ultimi decenni è dovuto alla combinazione di due fattori: la ricerca pura è sempre più distaccata dai bisogni reali dell’umanità, mentre la ricerca applicata è sempre più attaccata al profitto immediato”[75].
E specifichiamo pure, prima di chiudere questa digressione, per evitare fraintendimenti, che non si tratta qui di sostenere un utilitarismo a tutti i costi, i vantaggi, e la necessità, di una scienza che possa essere immediatamente portatrice di pratici benefici sociali, nei confronti di una scienza pura, capace di portare soltanto contributi al progresso della conoscenza. Si tratta solo di un richiamo alla coerenza, e alla sincerità, in una fase storica in cui si sente continuamente affermare che certi studi posseggono finalità utili e pratiche, quando non è vero, o poco vero (appunto, se non per i loro proponenti), o sostenere improbabili concezioni epistemologiche ‘olistiche’ (secondo cui ogni ricerca è collegata con il tutto), per propagandare le quali vengono sempre monotonamente citati i rari casi di impreviste connessioni e benefiche ricadute tecnologiche di indagini scientifiche che si consideravano viceversa a priori astratte e inapplicabili (ma, evidentemente, soltanto in apparenza).
Tornando al filo principale del nostro racconto, abbiamo visto come in questo periodo Majorana sembri aver tagliato i ponti con la fisica, e non dia alcun contributo alle ricerche che hanno luogo in via Panisperna, ma il clamore suscitato intorno ad esse nella tarda primavera del 1934 modifica un poco la situazione. “La scoperta di Fermi fece uscire dal suo letargo uno stranissimo tipo di studioso, Ettore Majorana, noto in tutto il mondo per una teoria sulla struttura nucleare che va appunto sotto il nome di ‘teoria di Heisenberg-Majorana’. Ettore Majorana era considerato da tutti un vero e proprio genio, un prodigio in matematica, un portento per la profondità e la forza del pensiero”, così esprime il suo ricordo di quei giorni il ‘chimico’ del gruppo, Oscar D’Agostino, che ci racconta anche un altro particolare ‘inedito’[76], sul quale Edoardo Amaldi, pur citatovi a testimone, sorvola nelle sue memorie, forse per una forma di postumo riserbo.
“[Majorana] Tornò più volte in via Panisperna per discutere con Fermi su tutte le questioni teoriche che erano state, per così dire, messe sul tappeto dalle stesse scoperte di Fermi e da quelle immediatamente precedenti dei coniugi Joliot-Curie. Un pomeriggio Amaldi ed io arrivammo all’Istituto di Fisica verso le due. Fatti pochi passi cominciammo a percepire grida ed esclamazioni assai vivaci. Riconoscemmo la voce di Fermi e ci stupimmo non poco. Non avevamo mai udito Fermi urlare. La porta dello studio era aperta: Fermi e Majorana, davanti a grosse lavagne piene di numeri e di strani segni più o meno cabalistici, si davano reciprocamente del cretino e dell’asino. La disputa era incominciata verso mezzogiorno. Nel calore della discussione nessuno dei due fisici aveva pensato di andare a pranzo. Fu quella l’ultima volta che vidi Majorana”.
Ecco che abbiamo quindi un elemento di più, e cioè l’orgoglio[77], per immaginare le possibili ragioni di un distacco, successivamente ancora più accentuato, e per scegliere quale possa essere l’interpretazione più verosimile di alcuni degli avvenimenti che seguiranno, come la partecipazione di Majorana al concorso a cattedre del 1937 di cui presto diremo. Comunque sia, a parte lo stato dei rapporti del “Papa” con il suo brillante allievo dalla sensibilità esasperata, le ricerche a via Panisperna proseguono con rinnovata lena, e riprendono a ritmo serrato in autunno, dopo il rallentamento estivo. Arriva allora a far parte del gruppo un nuovo elemento, un pisano ventunenne, introdotto in via Panisperna da Rasetti[78]: si chiamava Bruno Pontecorvo, che sarà detto per la sua giovanissima età, e in qualità di ultimo arrivato, “il Cucciolo”.
Come spesso accade, la fortuna aiuta gli audaci, e in questo caso essa si presenta sotto le vesti di un’inserviente dell’Istituto di Fisica incaricata di compiervi le pulizie, secondo la ricostruzione degli eventi di quei giorni operata da Oscar D’Agostino[79] (questa storia sarà prossimamente oggetto di una pubblicazione da parte del Prof. Fabio Cardone, docente di fisica presso l’Università della Tuscia, Viterbo[80]). Su tale particolare aspetto della vicenda non vogliamo quindi dire nulla di più, per non tradire le confidenze ricevute, e per non sciupare la sorpresa che arrecherà la sua ricerca. Fatto sta che gli effetti dei bombardamenti con i neutroni appaiono più rilevanti quando i “proiettili” sono lenti, e quindi dotati di minore energia (si parla anche di “neutroni termici”), anziché quando sono veloci, e quindi più energetici, come si sarebbe indotti a pensare in modo naturale conformemente all’analogia balistica corrispondente alla nomenclatura usata (in realtà il fenomeno appare ben comprensibile, al di là della terminologia, quando si pensi che si tratta sempre comunque di ‘catture’ neutroniche da parte dei nuclei, e che quindi l’analogia più propria è quella del cacciatore che riesce a prendere più prede quando queste sono meno veloci). Allora, rallentati che furono i neutroni ‘proiettili’ – all’inizio nella maniera che abbiamo detto casualmente fortunata – non trascorse molto tempo che Fermi e i suoi collaboratori compresero l’enorme valore della “scoperta del rallentamento dei neutroni per mezzo di sostanze idrogenate, fondamento e base di tutto quello che in seguito è stato fatto per l’utilizzazione dell’energia nucleare e delle bombe atomiche e nucleari”[81]. Gli esperimenti proseguirono allora in quella che è ormai diventata la leggendaria “vasca dei pesci rossi” di via Panisperna[82], l’acqua in cui nuotavano gli inconsapevoli animaletti avendo la funzione di rallentare i neutroni, e il 26 ottobre del 1935 si arrivò al brevetto che “riguarda il processo per la produzione di sostanze radioattive, in particolare mediante il bombardamento con neutroni e anche l’aumento dell’efficienza del processo mediante il rallentamento dei neutroni grazie a urti multipli”. Questo porta la firma di Fermi, Amaldi, Pontecorvo, Rasetti e Segrè, “mentre gli eventuali proventi materiali verranno divisi anche con D’Agostino (il chimico del gruppo) e con Trabacchi (la ‘Divina Provvidenza’ che ha prestato il grammo di radio)”[83].
Tale successo però segna ormai l’apice della storia del mitico sodalizio. Rasetti è partito per un soggiorno annuale di studio negli Stati Uniti già nell’estate del 1935, e in quello stesso anno Segrè vince un concorso a cattedre di Fisica Sperimentale, si sposa e si trasferisce nella sua nuova sede. Nel 1936 Pontecorvo si recherà a Parigi, a lavorare con i Joliot-Curie, e come ricorda Laura Fermi: “Durante il 1936 i lavori più importanti compiuti a Roma furono dovuti esclusivamente a Fermi e ad Amaldi”[84]. Per quanto riguarda Majorana, egli continua a restare lontano da via Panisperna, e tutti gli sforzi effettuati dagli amici di ricondurlo “a fare vita normale” risultano vani. “Non pochi tentativi fatti da Giovanni Gentile jr., da Emilio Segrè e da me per riportarlo a fare vita normale furono senza risultato. Ricordo che nel 1936 non usciva che raramente di casa, neanche per andare dal barbiere, così che i capelli gli erano cresciuti in modo anormale; in quel periodo qualcuno degli amici che era andato a trovarlo gli mandò a casa, nonostante le sue proteste, un barbiere”. Questo, il ricordo di Amaldi[85], mentre dal canto suo Laura Fermi riferisce che: “Majorana diventò un recluso. Edoardo Amaldi lo andava a trovare e cercava di persuaderlo a cambiar vita. Provava prima con le buone, ragionando pacatamente; lo rincorava, gli dava consigli amichevoli, o supplicava di dargli retta. Ogni tanto si lasciava andare a quegli scatti d’ira che non sempre sapeva frenare quando veniva ripetutamente e insistentemente contraddetto. Ettore ascoltava silenzioso e non si lasciava convincere, né con le buone, né con le cattive”[86].
Abbiamo volutamente riportato le due precedenti ‘testimonianze’ in parallelo, perché il lettore possa notare una circostanza importante, almeno secondo la linea interpretativa che illustreremo nel Capitolo IV: in entrambe non si fa mai cenno a Fermi, segno che la ‘frattura’ tra le due personalità, probabilmente entrambe assai orgogliose, doveva essere ben marcata, e che mentre Amaldi parla di diversi amici che si recavano a far visita a Majorana, Laura Fermi cita invece soltanto lui come protagonista di questa ‘opera di missione’ (laddove almeno di eventuali interventi di Segrè in tal senso avrebbe dovuto viceversa essere al corrente).
Comunque sia, per incamminarci verso la fine del nostro racconto, nel gennaio del 1937 muore improvvisamente Corbino, di polmonite, e la direzione dell’Istituto va al Prof. Antonino Lo Surdo. Si dice che questi non comprendesse, e osteggiasse, a differenza del suo predecessore, il lavoro di Fermi, sicché anche questo evento “contribuisce alla definitiva dispersione del gruppo romano”[87].
Ci resta da narrare ormai soltanto la storia di un concorso, quel concorso a cattedra che farà diventare Majorana professore universitario, e lo porterà a Napoli, da dove come abbiamo visto scomparirà, soltanto poche settimane dopo aver preso servizio. Si tratta di un nuovo concorso per la Fisica Teorica, il secondo che si svolse in Italia, dopo il primo del 1926, che aveva portato la cattedra ad Enrico Fermi. É usuale raccontare nell'”ambiente dei fisici” la ‘favola’ di una “benevola congiura”[88], allo scopo di far uscire Majorana dall’isolamento, e restituirlo alla vita attiva. Così i suoi ‘amici’ avrebbero architettato tutto questo piano per lui, e lo avrebbero sospinto, finalmente con successo, a partecipare al concorso, ottenendo tra l’altro che egli presenti alla prestigiosa rivista di fisica Il Nuovo Cimento quello che resterà uno dei suoi pochissimi lavori ufficialmente pubblicati. Si tratta in realtà di vecchi risultati[89], ma che possono costituire nuovo titolo burocratico per il concorso, e permettere a benevoli commissari di parlare di una attività scientifica mai interrotta. “C’era naturalmente il problema di far concorrere Ettore, il quale sembrava che non ne volesse sapere e che comunque ormai da qualche anno non aveva pubblicato lavori di fisica. Fermi e i vari amici si adoperarono in questo senso e Majorana infine si convinse a gran fatica a prender parte al concorso e mandò alla stampa sul ‘Nuovo Cimento’ il lavoro sulla teoria simmetrica dell’elettrone e del positrone”, così ricorda quegli avvenimenti Amaldi[90], e tutta la ricostruzione che viene offerta da questo momento in poi dello svolgimento del concorso assume contorni che diventano davvero un po’ ‘fiabeschi’. La commissione nominata dal Ministro dell’Educazione Nazionale per vagliare i diversi candidati, della quale fa parte Fermi, si riunisce una prima volta il 25 ottobre 1937, e prospetta in quell’occasione a S.E. il Ministro l’opportunità di ‘stralciare’ dal concorso la posizione di uno dei concorrenti, e cioè il Majorana. Di questi segnala infatti “la posizione scientifica assolutamente eccezionale”, e dichiara che per tale motivo “esita ad applicare a lui la procedura normale dei concorsi universitari”. Sospende quindi i propri lavori, aggiornandosi “fino a nuova convocazione”[91]. L’intento è quello di attribuire una cattedra a parte a Majorana, approfittando di una legge che era stata appositamente concepita allo scopo di poter conferire la cattedra di Onde Elettromagnetiche presso l’Università di Roma all’autodidatta Guglielmo Marconi, che era arrivato perfino alla gloria del premio Nobel nel 1909, ma non era neppure laureato[92]. La proposta della commissione al ministro Bottai viaggia in modo “urgente”, e trova pronto accoglimento, sicché Majorana si trova nominato, a soli 31 anni (che costituiscono un caso eccezionale in generale, ma non in particolare, soprattutto nel campo della fisica, e tra i tanti talenti precoci che abbiamo incontrato), “indipendentemente dalla normale procedura del concorso” e “per l’alta fama di singolare perizia”[93], professore di Fisica Teorica presso la Regia Università di Napoli. Il 12 gennaio 1938 Majorana accetta la nomina, porgendo “rispettosamente a S.E. il Ministro l’espressione del mio grato animo per l’alta distinzione concessami”, e tenendo “ad affermare che darò ogni mia energia alla scuola e alla scienza italiana, oggi in così fortunata ascesa verso la riconquista dell’antico primato”. Indi si trasferisce immediatamente a Napoli, dove inizia le lezioni addirittura il giorno dopo! La commissione riprende allora i suoi lavori, giungendo rapidamente e unanimemente all’individuazione dei tre vincitori[94], tra i quali risulta uno degli amici più sinceri di Majorana, Giovanni Gentile junior.
Peccato, per chi ama le favole, e soprattutto quelle a lieto fine, che tutto quanto precedentemente narrato sia assolutamente poco credibile, tanto più per chi conosca i meccanismi che presiedono alla vita accademica, e abbia intuito, come dovrebbe sin d’ora essere possibile al lettore che ci ha seguito fin qui, quale doveva essere l’autentico stato dei rapporti personali tra alcuni protagonisti della vicenda. Se si voleva, e si poteva, attribuire una cattedra a Majorana “per chiara fama”, non si poteva farlo prima, indipendentemente dal concorso? E una volta bandito il concorso, ammettiamo pure per Majorana, e convintolo a partecipare, che bisogno c’era di ricorrere poi a procedure straordinarie per favorirlo?
Tutti questi interrogativi aprirebbero la strada alla formulazione soltanto di nuovi ‘sospetti’, che almeno in questo caso trovano però, fortunatamente, enunciazione, e soluzione, in una ben diversa versione dei fatti, che riportiamo integralmente da LS (pp. 50 e segg.), nella quale si contesta anche l’immagine del Majorana strano, anormale, negli ultimi suoi anni di vita, come fornita dalle precedenti descrizioni.
“Esaurimento nervoso, dicono concordemente i testimoni (e lo dissero anche i medici di famiglia); e alcuni sarebbero costretti a parlare di follia, se non disponessero di questo delicato, ‘moderno’ eufemismo. Ma l’esaurimento nervoso o la follia non sono porte aperte da cui si entra e si esce quando si vuole. Majorana dimostra invece di poter rientrare quando vuole in quella che Amaldi chiama la vita normale. E ci rientra, crediamo, per un ‘normale’ ripicco, per un risveglio di quel latente antagonismo nei riguardi di Fermi e dei ‘ragazzi di via Panisperna’, che non erano più ragazzi, ma professori ordinarî o incaricati – con tutto quel che comporta, sul piano delle strategie e tattiche interne, sul piano del costume, l’esser professori in Italia, il far parte in Italia della vita accademica (ma non soltanto in Italia). E dispiace dover dire che è un po’ una mistificazione la versione che da parte accademica si dà del rientro di Ettore Majorana nella ‘normalità’: che cioè furono Fermi e gli altri amici a convincerlo di partecipare al concorso per la cattedra di Fisica Teorica. In realtà i conti per l’attribuzione delle tre cattedre messe a concorso erano stati fatti sull’assenza e non sulla partecipazione di Majorana; e la decisione di concorrere crediamo sia scattata in Majorana dal gusto di guastare un giuoco preparato a sua insaputa ed a sua esclusione. Candidamente, Laura Fermi rompe quella specie di omertà che si è stabilita sull’episodio e racconta le cose per come effettivamente sono andate. La terna dei vincitori era stata già tranquillamente decisa, come d’uso, prima della espletazione del concorso; e in quest’ordine: Giancarlo Wick primo, Giulio Racah secondo, Giovanni Gentile junior terzo[95]. ‘La commissione, di cui faceva parte anche Fermi, si riunì a esaminare i titoli dei candidati. A questo punto un avvenimento imprevisto rese vane le previsioni: Majorana decise improvvisamente di concorrere, senza consultarsi con nessuno. Le conseguenze della sua decisione erano evidenti: egli sarebbe riuscito primo e Giovannino Gentile non sarebbe entrato in terna’. Di fronte a questo pericolo, il filosofo Giovanni Gentile svegliò in sé le energie e gli accorgimenti del buon padre di famiglia dell’agro di Castelvetrano: dal ministro dell’Educazione Nazionale fece ordinare la sospensione del concorso[96]; e fu ripreso dopo la graziosa eliminazione da concorrente di Ettore Majorana, nominato alla cattedra di Fisica Teorica dell’Università di Napoli per ‘chiara fama’, in base a una vecchia legge del ministro Casati rinvigorita dal fascismo nel 1935. Tutto tornò dunque nell’ordine. E a Majorana toccò di rientrare sul serio nella ‘normalità’: ché aveva partecipato al concorso soltanto per fare acre scherzo ai colleghi. Tra i quali più tardi, dopo la scomparsa, prese piede la convinzione che fosse fuggito per il panico, il trauma, di dover comunicare, di dover insegnare.
Come a dire che ben gli stava.”
Se dal punto di vista delle pure possibilità logiche quella che precede è internamente coerente, al pari dell’altra versione ‘edulcorata’, pure essa ha in più rispetto a quella “ufficiale” il suono particolare della verità (o, se si preferisce, della verosimiglianza), un’espressione che daranno mostra di non capire neppure cosa significhi, coloro che un simile suono non l’hanno mai sentito – o se l’hanno qualche volta sentito, hanno preferito dimenticarlo; e come si potrà allora spiegar loro cosa sia? Esso si può percepire soltanto facendo ricorso a una logica superiore a quella dell’intelletto, la logica della ragione, secondo una distinzione splendidamente introdotta e sviluppata dall’illustre matematico e filosofo Federigo Enriques[97] (per la sua particolare disciplina, certo, ma che può andar bene del pari anche per altre). La riportiamo qui integralmente, per edificazione del lettore che non abbia mai avuto la fortuna di imbattercisi in precedenza.
“Se, come abbiam detto, il valore di una teoria matematica fa appello a qualcosa che è fuori dell’ordine formato dalle sue proposizioni, il matematico che nel suo sforzo di astrazione e nel suo desiderio di compiutezza ha purificato la logica discorsiva, si trova condotto a riconoscere che questa logica dell’intelletto postula un giudizio superiore della ragione, che lo porta al di là delle stesse matematiche o almeno di ogni particolare dottrina di questa scienza.
Distinguere una ‘logica della ragione’ che supera la semplice ‘logica dell’intelletto’ non è comune fra i matematici. Il loro amore per ciò che è chiaro e preciso li induce volentieri a concentrare tutta l’attenzione sui criterii meccanici del rigore formale della deduzione o della definizione. Ma il significato che assume il giudizio razionale si può illustrare anche senza uscire dall’ambito delle teorie particolari, purché si esamini il loro ordinamento, non già come qualcosa di fatto, ma come un problema”[98].
La ricostruzione così godibilmente offerta da Sciascia, seguendo la credibilissima testimonianza di Laura Fermi (al solito, quale avrebbe potuto essere l’interesse a mentire?!), non contiene in effetti nulla di particolarmente scandaloso. I concorsi universitari si sono sempre svolti nel modo descritto, in piena aderenza allo spirito della cooptazione in un “ambiente chiuso”, in un club esclusivo, l’appartenenza al quale è un privilegio. La successione è decisa allora dai membri più anziani, e influenti, della corporazione, in altre sedi e in precedenza; ogni iniziato deve avere un iniziatore, un garante. Questo sistema ha del resto consentito per anni la conservazione dell’università a un livello di dignità almeno decente, e chi scrive queste pagine può affermarlo per esperienza diretta: essendosi laureato a Roma nel 1967, e quindi prima della tempesta parificatrice e massificante del 1968, ha avuto modo almeno di intravedere le superstiti vestigia della ‘vecchia’ università, e i cosiddetti “baroni”[99] all’opera. Crollati gli argini, e impostate le cose dal punto di vista democratico-sindacale, delle leggi dei ‘grandi numeri’[100], delle riforme solo nominali, della rissosa aggressiva volgarità dei ‘gruppi’, nella dialettica dei quali (ispirata quasi esclusivamente da motivazioni d’ordine economico, e spesso solo per pochi soldi) emergono piuttosto i talenti dei capopopolo che quelli dei caposcuola, non c’è da meravigliarsi che oggi la situazione dell’università italiana sia quella descritta dalla seguente lettera.
“Sono uno studente di ingegneria presso La Sapienza di Roma […] dovevo sostenere l’esame di calcolo delle probabilità, di cui si sapeva soltanto che, forse, avrebbe dovuto tenersi stamane, chissà dove e a quale ora […] arrivo alle 8.30 e sento da alcuni che l’esame pare ci sia ma non si sa dove. Alle 10 giunge il docente che ci conduce in un’aula già occupata da altri studenti per un altro esame. Ci dice che non ci sono altre aule a disposizione e pertanto ci invita, dopo aver effettuato l’appello in corridoio, a prendere posto in mezzo a quegli altri poveri studenti che avevano iniziato il loro compito già da un pezzo […] in mancanza di cattedra su cui scrivere, ha preso un bidone dei rifiuti (vuoto per fortuna) e, ribaltandolo a mo’ di tavolino, ci ha invitato a segnarci sul foglio di prenotazione. Finalmente, in aula, stretto fra due studenti dell’altro esame che non cessavano di comunicarsi i risultati del loro compito a un discreto volume locale (del resto bisognava parlare per forza ad alta voce per farsi sentire, visto che c’era una docente che urlava a squarciagola contro chi, secondo lei, stava copiando), riesco ad iniziare il compito […] Questa storiella, dottor Scalfari, è solo una fra le tante qui a ingegneria. Spesso, e mi rattrista constatarlo, è colpa degli stessi studenti se le cose non funzionano; si lamentano a voce alta, ma anche quando si offre loro un’occasione per cambiare […] si annichiliscono e dicono che tanto non cambia niente […]”[101].
Eppure, contro la versione dei fatti riportata da Sciascia, successivamente alla pubblicazione del suo libro, si aprì una vivace polemica, tra i protagonisti della quale Amaldi, Segrè, e lo stesso Recami, che ce ne dà notizia alla p. 29 della sua ricerca. Quest’ultimo ritiene di poter riuscire a fare in qualche modo opera di verità facendo parlare i soli “documenti certi”, con un’ingenuità e un candore autentici (per chi lo conosce), come se veramente ci si potesse aspettare che di siffatte ‘manovre’ sia mai esistita una traccia scritta, e tanto più in ‘carte’ ufficiali[102]. Chi cerca di capire la storia solo attraverso di queste, sarà sempre condannato a edificare le sue costruzioni intellettuali sugli unici materiali, e fondamenti, che altri al di fuori di lui hanno voluto fossero i soli conosciuti e analizzati, e non riuscirà mai a cogliere l’essenza nascosta delle umane vicende.
[1] Si tratta di un appellativo accademico del tutto consueto, che non vuole accennare in nulla a qualche presunta ‘eccezionalità’. Soltanto, si dice “straordinario” il titolare di una cattedra universitaria al momento della nomina, e per i suoi primi tre anni di servizio; prima che diventi appunto “ordinario”, che è quindi ‘di più’, e meglio, dal punto di vista burocratico ed economico, che straordinario!
[2] ER, pp. 11 e 168-169.
[3] ER, pp. 11 e 169.
[4] Carrelli aveva ricevuto la lettera a lui spedita da Napoli alle ore 14 del giorno 26, preceduta alle ore 11 dello stesso giorno da un telegramma spedito da Palermo, che diceva soltanto: “Non allarmarti. Segue lettera. Majorana”, che naturalmente non era potuto non riuscirgli “incomprensibile”, almeno fino all’arrivo della ‘prima’ missiva tre ore dopo. L’espresso da Palermo gli pervenne invece la mattina del giorno successivo, 27. Si tratta di informazioni che abbiamo tutte da una comunicazione “Riservatissima personale” (che qui nel seguito sarà integralmente riprodotta), che lo stesso Carrelli indirizzò al Rettore dell’Università di Napoli il mercoledì 30 marzo, segnalandogli il perdurare dell’inquietante assenza del ‘suo’ professore.
[5] ER, pp. 12 e 169.
[6] ER, p. 216.
[7] ER, p. 65. É certamente per questo motivo che il testo della lettera di Majorana a Carrelli da Palermo appare quindi completamente ‘ricostruito’ alla p. 104 di DM (a memoria di chi?!, dello stesso Carrelli? di Edoardo Amaldi?, di Maria Majorana?, l’autore non lo dice). La circostanza può essere in questo caso giustificata, dal momento che, quando l’autore presumibilmente scrive, non erano ancora disponibili i risultati delle ricerche di Erasmo Recami (che furono inoltre pubblicati per la prima volta soltanto nel 1987).
[8] ER, p. 216.
[9] ER, pp. 12-13.
[10] Il viaggio d’andata appariva comunque certo, tenuto conto delle comunicazioni spedite a suo nome da Palermo.
[11] DM, p. 104, dà il ritorno da Palermo come avvenuto la sera del 25 marzo, data in cui Majorana stava invece effettuando il viaggio da Napoli!
[12] ER, pp. 15-16. L’intervento di Strazzeri, di cui ci restano tracce certe in una lettera da lui indirizzata al fratello di Ettore, Salvatore, in data 31.5.38, appare comunque molto ‘tardo’ rispetto agli avvenimenti in parola. A chiusa della citata comunicazione, si comincia a proporre ai familiari di Majorana di trovare conforto nel pensiero che il giovane possa essersi “chiuso in qualche convento”.
[13] ER, p. 15.
[14] ER, p. 14.
[15] Si tratta di Salvatore, secondo ER, p. 14, al quale va dato maggior credito che al ricordo di Amaldi, il quale nomina invece a questo proposito il fratello Luciano (ER, p. 216). Ancora ER, ibidem, nota però come pure il fratello Luciano si fosse recato immediatamente a Napoli, e vi venisse coinvolto nelle primissime ansiose ricerche dello scomparso.
[16] É d’uso, anche tra colleghi (il Rettore è uno tra i professori, che viene attualmente da questi eletto – mentre in passato era designato dal Ministro), rivolgersi al Rettore di un ateneo con l’appellativo di “Magnifico”, e qui la sigla sta appunto per “Magnificenza Vostra”.
[17] ER, pp 13-14 e 178.
[18] ER, p. 13.
[19] ER, p. 217.
[20] Fermi aveva ricevuto l’onore di tale elezione nel 1929, ovviamente dietro il solito interessamento del suo ‘protettore’, il senatore Orso Mario Corbino, di cui presto faremo la conoscenza.
[21] ER, pp. 172-173. In DM, p. 8, compare al proposito una svista, laddove si attribuisce alla lettera la data del 30 marzo, confondendola evidentemente con la denuncia di Carrelli al Rettore. Equivoco a parte, si direbbe che all’autore non è sembrato assurdo, e anzi naturale, un intervento immediato di Fermi nella questione, intervento che viceversa, nella realtà, non si verificò affatto. Sulla circostanza avremo modo di ritornare ancora nell’ultimo capitolo.
[22] ER, pp. 171-172.
[23] Invece era intervenuto, e assai tempestivamente (il 16.4.38), il senatore Giovanni Gentile, padre di un affezionato amico di Ettore, di cui avremo modo di riparlare spesso. Gentile raccomandò “caldamente” in quell’occasione al collega Bocchini il fratello maggiore di Majorana, Salvatore, che voleva perorargli la causa di nuove ricerche, “nei conventi di Napoli e dintorni, forse per tutta l’Italia meridionale e centrale” (LS, p. 3).
[24] DM, p. 8.
[25] Secondo LS, p. 6, si giunge perfino al ridicolo che in un rapporto di polizia si dubita che causa di equivoco potrebbe risiedere nel cognome stesso, Majorana, che si scrive con la i lunga, “onde potrebbe darsi che sia sfuggito il nome alle prime ricerche effettuate”!
[26] LS, p. 10. Questo autore esprime però al riguardo l’opinione che la polizia era “ormai rassegnata all’impossibilità di risolvere il caso” dalla convinzione che “il professor Majorana fosse morto” (p. 16), mentre noi viceversa pensiamo, e ci torneremo sopra, che la polizia fosse piuttosto convinta di un allontanamento volontario, una fuga, da parte dello scienziato.
[27] Fu, invece, soltanto il 22 aprile 1939 che la segnalazione del Majorana ai posti di frontiera fu archiviata (ER, p. 20).
[28] ER, p. 18. La scelta della data del 25 marzo è veramente sorprendente, considerato il fatto che all’epoca il Majorana era certamente vivo. Forse si riferiva alla data della prima lettera del docente al suo direttore, Carrelli, nonostante essa fosse stata consegnata da questi al fratello di Majorana, Salvatore, e il Prof. Carrelli, dimenticatosi successivamente della circostanza, l’avesse dichiarata, con il resto della documentazione, smarrita (vedi anche la precedente Nota N. 16), sicché Bottai non poteva averla a disposizione. Un’altra spiegazione potrebbe contemplare il fatto già citato che quel giorno Majorana non tenne la sua consueta lezione, ma i professori universitari non hanno per tradizione degli stretti doveri di osservanza di calendari e di orari (essendo anche strutturalmente impegnati nell’attività di ricerca).
[29] A proposito di “rapidità” nelle comunicazioni, c’è da osservare che quelle a cui si è fatto riferimento furono senz’altro tempestive, certo, come ai giorni d’oggi in Italia non avrebbero forse potuto essere, ma che, in questioni di tanta importanza, brilla per la sua assenza il telefono, che pure al tempo era strumento abbastanza ben utilizzabile. Forse Majorana non si fidava di questo mezzo, perché le chiamate sarebbero state, se non addirittura ascoltate, comunque annotate nel registro di qualche centralinista? Si è certi che non abbia usato il telefono dal Grand Hotel Sole per chiamare qualcuno? Qualche traccia di una tale comunicazione, o di un tale tentativo, sarebbe potuta rimanere.
[30] DM, p. 107. Per chi conosce la Sicilia, e soprattutto la Sicilia di quei tempi, la notizia non è affatto incredibile. Nonostante la strenua lotta del fascismo per debellarla, la Mafia continuava a far parte delle tradizioni secolari dell’isola, e non era ancora circondata dall’alone decisamente criminale che oggi le viene attribuito.
[31] Sua Eccellenza.
[32] ER, pp. 117-118; LS, p. 17.
[33] Per le quali seguiremo molto da vicino non soltanto gli usuali nostri testi di riferimento, DM e ER, ma anche VT.
[34] E si noti che Angelo, secondo figlio di Salvatore Majorana, divenne Rettore prima del fratello maggiore, quando non aveva ancora 30 anni, essendo nato nel dicembre del 1865! Del resto, Angelo Majorana aveva vinto il concorso a professore universitario non ancora maggiorenne (la maggiore età era fissata allora in 21 anni), segno che la precocità e l’ingegno non erano merce rara presso quella famiglia (ER, p. 38).
[35] In realtà Salvatrice, anche se preferiva farsi chiamare, per vezzo femminile, alla spagnola, Dorina (ER p. 41).
[36] DM, p. 16.
[37] C’è qui una coincidenza che val la pena di essere notata. Lo zio ‘fisico’ di Ettore, Quirino, fu uno dei membri della commissione che attribuirono la cattedra a Fermi, oltre all’ovviamente immancabile Corbino (ER, p. 35).
[38] Sulle cui origini, e organizzatori, gli storici della fisica dovrebbero porsi qualche domanda, e investigare di più. Nel 1923 Carlo Somigliana, un notevole nostro fisico-matematico (per un’altra delle ‘coincidenze’ di questa storia, uno dei commissari del concorso di cui alla successiva Nota N. 47!), parla di un “mistico entusiasmo” sviluppatosi intorno alle teorie e alla persona di Einstein, aggiungendo che di tale “illimitata fede aprioristica […] non abbiamo mai avuto esempio nel campo scientifico. E ciò fa pensare che esista alla radice di questo movimento d’idee qualche fatto anormale, che turba la serena visione delle cose”. Aveva espresso la stessa sensazione nel 1921 Giovanni Boccardi, un valente astronomo torinese, secondo il quale: “Dall’accanimento (è la parola) che alcuni mettono a sostenere la nuova teoria si deve dire che vincoli più forti di quelli scientifici leghino lo Einstein ai suoi partigiani. Così si spiega il can-can che oggi stordisce tutto il mondo” (citazioni da: Roberto Maiocchi, Einstein in Italia – La scienza e la filosofia italiane di fronte alla teoria della relatività, Ed. Franco Angeli, Milano, 1985, pp. 66-67). Il fatto è che i critici dell’arte si interrogano spesso, e ci danno qualche informazione, sui committenti di un’opera artistica, mentre questo tipo di indagini non è usuale, anzi è sdegnosamente respinto, a proposito di ‘opere scientifiche’. Il rimando alla successiva Nota N. 136 è d’obbligo.
[39] VT, p. 13. Va notato che l’apprezzamento di Corbino non era universalmente condiviso, tanto che Fermi era stato da poco (febbraio 1926) ‘bocciato’ al concorso per una cattedra di Fisica Matematica a Cagliari (vedi la Nota Biografica di Emilio Segrè citata nella successiva Nota N. 81, p. xxvii), nonostante della relativa commissione facessero parte i professori Levi-Civita e Volterra (per i quali vedi ancora la successiva Nota N. 81), a lui probabilmente favorevoli. Chissà come sarebbe cambiata la storia se fosse stato viceversa ‘promosso’!
[40] Ibidem.
[41] DM, p. 38. In realtà, al tempo in cui si svolgevano i fatti qui raccontati, ci si riferiva al gruppo di Fermi come a quello dei ragazzi di Corbino, come ricorda uno dei suoi componenti, Oscar D’Agostino (secondo una fonte che avremo modo di citare più particolareggiatamente nel seguito)
[42] ER, p. 26.
[43] Ibidem.
[44] DM, p. 77.
[45] Tra le quali il fatto che i ricordi di Amaldi contenuti nel libro prendono l’avvio dalla sera del 6 dicembre 1938, dal momento in cui la famiglia Fermi partì da Roma per Stoccolma, quando Majorana era quindi già scomparso da diversi mesi.
[46] DM, p. 46. VT, p. 34, annota: “Dopo la laurea, Ettore continuò a frequentare l’Istituto dove passava più o meno regolarmente un paio di ore al mattino, dalle 10,30-11 alle 12,30-13, e qualche ora nel pomeriggio, dalle 5 alle 7,30. Queste ore venivano trascorse in biblioteca ove studiava soprattutto i lavori di Dirac, Heisenberg, Pauli, Weyl e Wigner. Gli ultimi due autori erano forse i soli per cui egli esprimesse ammirazione senza riserve”.
[47] Vedi anche quanto verrà detto nel successivo Capitolo V.
[48] DM, p. 44.
[49] VT, p. 72.
[50] Si dicono “particelle alfa” i nuclei dell’atomo di elio (che venivano dette quindi anche elioni), ovvero le particelle che sappiamo oggi costituite da una coppia di protoni e una di neutroni (particelle elementari della cui scoperta parleremo prestissimo). Mezza particella alfa, ovvero un protone più un neutrone, o se si preferisce un nucleo di deuterio (uno degli isotopi dell’idrogeno – vedi la successiva Nota N. 76 – che entra nella costituzione della cosiddetta “acqua pesante”; esiste un terzo isotopo dell’idrogeno, con due neutroni, che viene chiamato trizio), si dice invece un deutone. Le particelle alfa sono emesse in modo naturale da certi elementi radioattivi. La nomenclatura prosegue con le “particelle beta”, che sono semplicemente gli elettroni, mentre poi più che di “particelle gamma” si preferisce parlare di “raggi gamma”. Si tratta di una radiazione elettromagnetica di altissima frequenza (superiore a quella dei raggi X), e quindi piccolissima lunghezza d’onda, della stessa natura perciò della radiazione luminosa o delle onde radio, dalle quali differisce solo quantitativamente (le particelle gamma sarebbero in ultima analisi dei fotoni, o “quanti di luce”, di altissima energia). La radioattività, naturale o artificiale, è spesso un misto di radiazioni alfa, beta e gamma.
[51] Figlia la seconda della celebre coppia di chimici Pierre e Marie Curie, tra i primi studiosi della radioattività naturale, scoperta nel 1896 da un altro fisico francese, Antonie-Henri Becquerel, con il quale condivisero il premio Nobel nel 1903 (Marie ottenne anche un secondo premio Nobel, per la chimica, nel 1911!). Si può aggiungere che Joliot assunse dopo il matrimonio anche il cognome della moglie, sicché divenne Joliot-Curie.
[52] Secondo il ricordo di Amaldi (ER, p. 209).
[53] Il merito della ‘dimostrazione’ certa e definitiva della cui esistenza, avvenuta sempre nel 1932, va al fisico inglese James Chadwick, premio Nobel 1935, un allievo dell’altro famoso scienziato della stessa nazionalità Ernest Rutherford, tra i primi a usare metodi di “bombardamento” negli studi sull’atomo, ad avanzare la teoria della sua struttura nucleare (1911), e a congetturare l’esistenza del neutrone, che veniva considerato semplicemente un “protone scarico”.
[54] ER, p. 57.
[55] ER p. 59. Anti-elettrone è la stessa cosa che elettrone avente carica positiva, oggi chiamato positrone, da alcuni anche positone. Questa particella fu scoperta dal fisico americano Carl D. Anderson (premio Nobel 1936) proprio nel 1932. I neutrini, così chiamati da Fermi nello stesso anno, dopo essere stati ipotizzati dal fisico austriaco Wolfgang Pauli (premio Nobel 1945) l’anno precedente, sono elusive particelle prive di carica e di massa piccolissima, rimaste per molto tempo allo stato di ‘particelle fantasma’, prive di evidenza osservativa (vedi anche la successiva Nota N. 73).
[56] DM, p. 51.
[57] Che Majorana considerava, con espressione di franca sincerità, “un po’ invecchiato e sensibilmente rimbambito” (lettera al padre del 18.2.33; ER, p. 126). Sciascia (LS, p. 40) commenta dicendo che: “Benché Majorana dia altri dettagli del rimbambimento di Bohr, il fatto che gli alleati abbiano fatto tanto, durante la guerra, per portarlo via dalla Danimarca occupata dai tedeschi, dimostra che proprio rimbambito non era” (o, noteremmo noi, che non era così da tutti considerato). La fuga di Bohr fu organizzata da agenti inglesi, che lo fecero avventurosamente arrivare nella vicina neutrale Svezia, e da lì in Inghilterra, d’onde successivamente negli Stati Uniti. Vedi anche quanto si dirà a proposito di Bohr, e sul ruolo del suo eventuale “rimbambimento”, nel Capitolo VI (e nel Capitolo IV).
[58] DM, p. 74.
[59] ER, p. 54.
[60] É essenziale naturalmente avere a disposizione delle efficaci sorgenti di tali “proiettili”, e della questione la scuola romana si occupò a lungo, riuscendo a passare da costose “sorgenti naturali”, come nei primi tempi, a “sorgenti artificiali”. Vedi per esempio quanto ne viene detto in “Un generatore artificiale di neutroni”, Nota di E. Amaldi, E. Fermi, F. Rasetti, La Ricerca Scientifica, Roma, 1937: “Lo sviluppo acquisito negli ultimi anni dalle ricerche sulle reazioni nucleari prodotte da neutroni ha reso assai importante il problema di ottenere forti sorgenti di queste particelle. In precedenti ricerche abbiamo usato, per produrre neutroni, tubetti contenenti emanazione di radio e polvere di berillio […] Attività assai più considerevoli si possono ottenere quando si usino sorgenti artificiali di neutroni” (che vengono ottenute utilizzando come proiettili dei deutoni, anziché delle particelle alfa). Va detto, per maggiore intelligenza della situazione, che i neutroni non vengono emessi, almeno generalmente, in modo ‘diretto’ dalle sostanze radioattive, come al contrario le particelle alfa, che per questo motivo erano sempre utilizzate in tale tipo di ricerche. I neutroni venivano pertanto ottenuti dai fisici romani in modo indiretto, avendo come punto di partenza il preziosissimo radio, quello appunto messo a disposizione dalla “Divina Provvidenza” (che lo conservava in cassaforte, tanto per schermarne la pericolosa radioattività, quanto per cautelarsi da eventuali furti!). Si usava a via Panisperna un gas radioattivo emanato spontaneamente dal radio, il radon (mentre il radio ha numero atomico 88, il radon ha numero atomico 86, ed è sempre, come il radio, un emettitore di particelle alfa; si tratta di un “vapore” che era assai pericoloso, e quindi difficile, da ‘gestire’), e lo si rinchiudeva in provette di vetro sigillate assieme a della polvere di berillio. Il radon emetteva particelle alfa che andavano a urtare gli atomi di berillio, che si trasformavano in atomi di carbonio dopo aver lasciato finalmente fuoriuscire i tanto sospirati neutroni.
[61] Per questo particolare aspetto della situazione, vedi ancora quanto se ne dice in DM, pp. 77-79, in una sezione intitolata: “Pochi soldi”.
[62] DM, pp. 79-80.
[63] DM, p. 80.
[64] “Come risulta chiaramente dal testo del discorso del senatore Corbino e dalle note preliminari da me inviate a riviste scientifiche, la dimostrazione della produzione dell’elemento 93 … richiede ancora numerose e delicate prove…” (questo è il contenuto di una dichiarazione ufficiale di Fermi, come riportata in DM, p. 81).
[65] Il neutrone, che ha poco più della massa del protone, viene considerato sostanzialmente una coppia protone-elettrone (più, in realtà, un “neutrino”, la ‘particella fantasma’ di cui si è già parlato, la cui presenza è necessaria per far quadrare certi conti). L’elettrone poi se ne va via dove vuole, in quello che si chiama un “decadimento beta”.
[66] Si pensò anche ai nomi, più decisamente ‘fascisti’, di Littorio, o perfino di Mussolinio? Gira la voce in certi ambienti di fisici che anche questi nomi furono per un certo tempo dei possibili candidati, fino a che qualcuno non fece notare che sarebbe stato di pessimo auspicio attribuire tali illustri denominazioni a elementi così instabili, e poco duraturi! In realtà, se questo può dirsi vero in parte per l’elemento 93, che ha una vita media di un paio di giorni, non è più vero però per il 94, che ha una vita media di circa 24.000 anni! Uno dei testimoni diretti di questa vicenda, il Prof. Oscar D’Agostino, la cui testimonianza citeremo poco oltre, esclude però la fondatezza di queste voci (delle quali avrebbe potuto peraltro non essere al corrente).
[67] Gli elementi 93 e 94, che oggi vengono chiamati rispettivamente nettunio e plutonio, furono prodotti successivamente, nel 1940, sempre in modo artificiale, mediante bombardamento di uranio con neutroni, dai fisici americani Edwin M. McMillan, Philip H. Abelson, Glenn T. Seaborg (il primo e l’ultimo saranno premi Nobel per la chimica nel 1951).
[68]DM, p. 93. Una storia più precisa della questione non dovrebbe trascurare i contributi di Lise Meitner, fuggita dall’Austria in Svezia a seguito dell’annessione del suo paese alla Germania nazista (il cosiddetto Anschluss, del 12 marzo 1938; ma già nel 1934 la tensione tra i due paesi si era evidenziata con l’assassinio del cancelliere austriaco Engelbert Dollfuss), e di suo nipote Otto Frisch, uno dei collaboratori di Bohr. Il fatto, ancora sconosciuto nel 1934, e noto soltanto dall’anno successivo, è che esistono diversi tipi di uranio naturale (isotopi), il cui atomo contiene sempre lo stesso numero di protoni (il numero atomico dell’elemento), ma che hanno differente numero di neutroni (la somma del numero di protoni e di neutroni presenti nel nucleo si dice il numero di massa dell’elemento). Uno di questi isotopi, come si scoprì appunto alla fine del 1938, subisce la fissione (quello del resto più raro, il 235, vale a dire costituito da 92 protoni e 143 neutroni), mentre l’altro, più comunemente presente in natura, il 238 (92 protoni e 146 neutroni), no. Si tratta sempre di una ‘cattura’ dei neutroni da parte del nucleo, ma mentre nel primo caso il nucleo diventa così instabile da disintegrarsi in due frammenti di numero atomico inferiore (e sostanzialmente imprevedibili a priori), nel secondo caso avviene esattamente quello che immaginavano Fermi e i suoi collaboratori, ovvero dall’uranio si ottiene il nettunio (e successivamente da questo, per un nuovo decadimento radioattivo, il plutonio). Con terminologia naturale, l’uranio 235 si dice fissile, mentre quello 238 si dice fertile. Questa, una prima spiegazione per sommi capi. In realtà, a complicare ulteriormente la situazione, si è scoperto che anche i nuclei di uranio 238 possono subire la fissione, ma si richiedono in tal caso dei neutroni aventi un “livello energetico” assai superiore a quelli emessi dalle ‘sorgenti’ a disposizione di Fermi – vedi quanto verrà detto in seguito sulla distinzione tra “neutroni lenti” e “neutroni veloci”). Quindi, come dicevamo, non può escludersi che a via Panisperna si siano ottenute per la prima volta tracce di questi nuovi elementi, visto che quello che si aveva a disposizione era soprattutto uranio 238, ma resta il fatto che i fisici romani non si accorsero che la ‘strana’ radioattività che osservavano era soprattutto conseguenza dell’altro fenomeno che era stato prodotto dall’uranio 235, mescolato con il 238, e cioè la “fissione”.
[69] Il premio Nobel fu assegnato “Al Prof. Enrico Fermi, di Roma, per la sua identificazione di nuovi elementi radioattivi prodotti con il bombardamento di neutroni, e la scoperta, fatta in relazione a questo lavoro, delle reazioni nucleari effettuate dai neutroni lenti”; dal libro di ricordi della moglie di Fermi, Laura: Atomi in famiglia, Ed. Mondadori, Milano, 1954, p. 150 (il libro fu per la prima volta però pubblicato a Chicago, dalla Chicago University Press, nello stesso anno). Si tratta (assieme ai libri in qualche senso ‘analoghi’ di E. Segrè, Enrico Fermi, fisico, Bologna, 1971, e di B. Pontecorvo, Fermi e la fisica moderna, Roma, 1972) di una fonte abbastanza preziosa per la storia della fisica di quegli anni, che avremo in seguito modo di citare di nuovo. Dei “neutroni lenti”, della loro scoperta e della loro efficacia, parleremo invece tra pochissimo.
[70] DM, p. 93.
[71] E i cui problemi psicologici sono fatti oggetto di premurosa attenzione, come nel dramma di Friedrich Dürrenmatt, I fisici. Tutto questo stato di cose conferma l’antica opinione di Francesco Bacone, secondo la quale: “Scienza e potere umano coincidono esattamente” (De dignitate et augmentis scientiarum).
[72] Raffaele Conversano e Nicola Pacilio, “Il merito e la colpa – La bomba atomica dalla fissione di uranio e plutonio”, Prometeo, Anno 15, N. 59, 1997, p. 40.
[73] Vito Volterra e Tullio Levi-Civita sono esponenti di spicco di quella che può dirsi una vera e propria ‘scuola di matematica’ romana, che comprende anche i nomi, che del resto incontreremo più tardi, di Guido Castelnuovo, Federigo Enriques e Francesco Severi. Ad esclusione dell’ultimo, si tratta di tutte persone che verranno più tardi coinvolte nell’infelice questione razziale, con le quali Fermi ebbe rapporti di stima e di amicizia. Così ricorda la circostanza Emilio Segrè, in una sua Nota Biografica dedicata al ‘maestro’ scomparso: “Risale a quell’epoca [1922, lo stesso periodo in cui Fermi fece conoscenza con Corbino] la conoscenza, tramutatasi poi in amicizia, tra Fermi e i Proff. Castelnuovo, Enriques e Levi-Civita, tre distintissimi matematici che insegnavano allora a Roma e che si interessavano assai più di molti fisici dei nuovi sviluppi della fisica teorica e soprattutto di relatività. Certo conobbe allora anche il Prof. Volterra, che peraltro non divenne particolarmente intimo di Fermi, e che si interessava a questioni di fisica matematica classica” (in Enrico Fermi, Note e Memorie (Collected Papers), Volume I, Italia 1921-1938, Accademia Nazionale dei Lincei, Roma, The University of Chicago Press, 1962, p. xxvi). Di Enriques e Castelnuovo parleremo ancora a tempo debito. Di Levi-Civita (Padova 1873, Roma 1941), professore di Meccanica Razionale a Roma, possiamo dire che egli è universalmente noto per i suoi importanti contributi dati allo sviluppo e all’approfondimento della teoria generale della relatività (come afferma lo stesso Albert Einstein – vedi il volume celebrativo 50 anni di relatività, a cura di Mario Pantaleo, Edizioni Universitarie, Firenze, 1955, p. xxiii), mentre Vito Volterra (Ancona 1860, Roma 1950), laureato in Fisica presso l’Università di Pisa, e lì assistente prima di approdare come professore di Meccanica Razionale a Roma nel 1900, è oggi ricordato soprattutto in biomatematica per le sue teorie che regolano la dinamica di popolazioni biologiche.
[74] Secondo un ricordo di Bruno Pontecorvo, citato in DM, p. 75. Visto che vi si fa cenno al governo del tempo, c’è da chiedersi quale fosse la situazione nello stesso periodo in altri paesi.
[75] F. Dyson, Mondi possibili, Mc Graw-Hill Libri Italia, Milano, 1998, pp. 115-116. Si tratta di una serie di conferenze tenute nel maggio 1995 presso l’Università Ebraica di Gerusalemme. La riflessione in oggetto è stata anche proposta all’attenzione dei lettori della rivista La Fisica nella scuola, Bollettino Trimestrale dell’Associazione per l’Insegnamento della Fisica, Anno XXXI, n. 2, aprile-giugno 1998.
[76] Riportato soltanto, a quel che pare, in un articolo “L’era atomica è incominciata a Roma nel 1934 – Storia segreta degli studi che hanno portato alla più clamorosa scoperta di questo secolo, narrata da uno dei protagonisti: Oscar D’Agostino”, apparso in più puntate nel 1958 sul Candido, il “settimanale d’attualità e politica fondato da Giovannino Guareschi nel 1945” (si tratta qui in particolare del N. 24 del 15 giugno). Questa fonte, che appare abbastanza diretta e ‘sincera’, oltre che di prima mano, è ignorata, o almeno non citata, negli altri studi su Majorana che abbiamo frequentemente menzionato (da alcuni particolari sembrerebbe non ignota almeno all’autore di DM). Forse perché il Candido era un settimanale di destra, in un momento in cui la cultura italiana era, ed è, soprattutto di sinistra? Circostanza per spiegare la quale non sembrano necessarie profonde riflessioni, dal momento che prima della guerra la collocazione media degli intellettuali era decisamente opposta, e può essere quindi facilmente ascritta all’atavica predisposizione di questi (già menzionata nella Prefazione) a collocarsi sempre e comunque dalla parte del “potere”.
[77] E per capire bene questa ‘storia siciliana’ (vedi anche la successiva Nota N. 140), bisogna sapersi rendere conto di quanto possa essere rigido, e incrollabile, un orgoglio meridionale…
[78] Questi, nato nel mese di agosto del 1901 a Pozzuolo Umbro, comune di Castiglione del Lago in provincia di Perugia, aveva effettuato gli studi a Pisa a partire dal liceo. Fermi invece, romano di nascita, aveva compiuto gli studi liceali nella capitale, ma portato a termine la carriera scolastica fino alla laurea quale allievo interno della Scuola Normale Superiore di Pisa, di Rasetti finendo con l’essere compagno di studi.
[79] Che differisce naturalmente da quella “ufficiale” offerta a posteriori dagli altri protagonisti di questa storia.
[80] Che il presente autore desidera ringraziare in modo particolare, per la gentile collaborazione ricevuta nel corso della redazione definitiva di questo lavoro.
[81] O. D’Agostino, loc. cit. nella Nota N. 84.
[82] DM, p. 85: O. D’Agostino, ibidem.
[83] DM, p. 87.
[84] DM, p. 94. Si tratta naturalmente dei ricordi pubblicati dalla moglie di Fermi, che abbiamo già citato nella Nota N. 77.
[85] ER, p. 213.
[86] DM, p. 95.
[87] DM, p. 96. L”incomprensione’ tra Lo Surdo e Fermi è ricordata anche da Segrè, nella Nota Biografica citata nella precedente Nota N. 81: “La successiva morte di Corbino (23 gennaio 1937) portò altre complicazioni alla vita dell’Istituto fisico romano. Fu chiamato alla Direzione il Prof. Lo Surdo, che non apprezzava al suo giusto valore l’opera di Fermi e l’Istituto stesso fu traslocato da via Panisperna alla nuova Città Universitaria, in una sede più grande e moderna. Per quanto desiderabile, il trasloco causò una perdita di tempo prezioso”. La sopravvivenza nella ‘storia’ per questo solo particolare ruolo ‘negativo’ impedisce a volte di ricordare che viene tuttora denominato “effetto Stark-Lo Surdo” un fenomeno fisico per la scoperta del quale il primo dei due fisici, che avremo modo di nominare nuovamente nel Capitolo V, conseguì il premio Nobel nel 1919.
[88] DM, pp. 96-97.
[89] Quelli relativi alla “Teoria simmetrica dell’elettrone e del positrone”, che era stata elaborata, come abbiamo visto, negli anni 1932-33.
[90] ER, p. 214.
[91] ER, p. 30.
[92] ER, p. 31.
[93] ER, p. 177.
[94] In realtà, secondo le norme del tempo, non solo non c’erano tre vincitori, né del resto per il concorso a un unico posto ciò sarebbe stato possibile, ma neppure un vincitore. Le commissioni si limitavano a indicare al massimo tre nomi di possibili degni candidati a ricoprire il posto messo a concorso (e che per questo si dicevano ternati), ma era poi diritto dell’ateneo che aveva bandito la cattedra di scegliere uno di quei tre, o perfino nessuno, se non avesse trovato tra quelli proposti un nominativo di proprio gradimento. In questo modo si cercava di contemperare il criterio del concorso che si svolgeva su scala nazionale, con una commissione nominata dal Ministro, a quello dell’autonomia locale dei singoli atenei. Gli altri ternati non prescelti a ricoprire il posto dall’università che era stata all’origine di tutta questa procedura, acquistavano il diritto di poter essere ‘chiamati’ da qualche altra università, per un periodo di tempo limitato, e accadeva che quasi sempre tutti e tre i designati trovassero prima o poi una cattedra di loro soddisfazione.
[95] Tanto per la ‘storia’, oltre ai tre successivamente “ternati”, e a Majorana, c’erano ancora due altri candidati, Leo Pincherle e Gleb Wataghin, che divennero in seguito anch’essi dei noti fisici (VT, p. 105). Secondo questa fonte, Majorana riconosce che, producendo egli “poco o nulla”, “almeno quattro dovrebbero effettivamente batter[lo]”.
[96] E sarebbe curioso di accertare se fu proprio il Ministro a proporre alla commissione la sospensione dei lavori – come accredita anche la versione di DM, p. 97 – o se si trattò davvero di un motu proprio dei commissari, come risulterebbe dai verbali. Questi sono un esempio dei famosi ‘documenti ufficiali’ tanto graditi agli storici di professione, i quali, servendosene come sola base delle loro ricostruzioni, si compiacciono pertanto di definirsi obiettivi – laddove è quasi sempre inutile, invece, sperare di trovare scritta la ‘verità’ (o almeno ‘tutta’ la verità).
[97] Federigo Enriques (Livorno 1871, Roma 1946), laureato a Pisa, professore di Geometria Proiettiva e di Geometria Superiore prima presso l’Università di Bologna e poi presso quella di Roma, è da considerarsi, con Guido Castelnuovo e Francesco Severi, uno dei protagonisti della celebre scuola di geometria algebrica italiana. Anche illustre filosofo e storico della scienza, fondò nel 1906 la Società Filosofica Italiana, di cui fu il Presidente fino al 1913. Fu allontanato dall’insegnamento a seguito delle leggi razziali nel 1938.
[98] Le matematiche nella storia e nella cultura, Ed. Zanichelli, Bologna, 1938, p. 148.
[99] Non nel senso di grandi bari, ma in quello ‘nobiliare’!
[100] Ma, come notava già Cicerone (nel De Republica; VI, 1), in certi contesti “quando i buoni valgono più dei molti, i cittadini si devono pesare e non contare”. Questo non significa naturalmente che non è bene tenere conto di ogni opinione al momento delle decisioni finali, ma che non bisogna favorire la falsa e ‘comoda’ impressione che sia sufficiente il numero per fare la ragione. Certi attuali leaders della nostra società modificano freneticamente le norme (e perfino i ‘nomi’), cercando di ‘accontentare’ il maggior numero possibile di postulanti, e pensando (in buona fede?!) di riuscire così a migliorare certe situazioni, senza apparentemente rendersi conto che quelle che sono andate distrutte erano le norme non scritte di una tradizione, che segnavano la differenza tra il lecito e l’illecito, sancivano le azioni delle quali era necessario ‘vergognarsi’, regolavano il comportamento, all’interno dell’università, delle sue diverse componenti e dei diversi individui. Il problema è che una tradizione non si può improvvisare a colpi di regolamento (tanto più quando vengono modificati ogni giorno…).
[101] Apparsa il 24.7.98 sul supplemento Il Venerdì del quotidiano la Repubblica, del quale il “dottor Scalfari” è il direttore. La reazione descritta alla fine della lettera è quella timidezza/vergogna su cui conta sempre ogni “potere” umano per proseguire indisturbato nei suoi abusi. Naturalmente, non può dirsi che simili episodi avvengano in ogni luogo, e allo stesso livello di degrado, ma il già citato Battistelli (Nota N. 3) conferma in qualche modo l’episodio, quando dice che deve doverosamente ringraziare il Collegio dei docenti del proprio ateneo perché: “i molteplici impegni politico-culturali in ambito cittadino e nazionale dei suoi membri si sono tradotti in una assoluta libertà scientifica accordata all’autore di queste righe”.
[102] Esiste un documento ‘non ufficiale’, una lettera privata di Majorana all’amico Giovannino Gentile (ER, p. 161), nella quale, commentando i risultati del concorso, si dice: “É vero che prevedevo una terna leggermente diversa, ma sapevo che Wick doveva essere il primo” (il corsivo è aggiunto dal presente autore).
Dal libro del Prof. Umberto Bartocci La scomparsa di Ettore Majorana: un affare di stato?
Cortesia del Prof. Umberto Bartocci, inossidabile, brillante, caro amico di sempre.