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Tanti dubbi sul Nobel per la pace

photodi Michele Marsonet. Fino a che punto si può prendere sul serio l’annuale assegnazione del Premio Nobel per la pace? A mio avviso non molto anche se, dicendolo, si corre il rischio di essere accusati di insensibilità o – ancor peggio – di cinismo. Questa volta è toccato al quartetto che, in Tunisia, ha cercato di favorire il dialogo preservando la democrazia in un Paese dove, al pari delle nazioni confinanti, si rischiava la solita deriva islamista. Tutto ciò è importante, intendiamoci, e alle quattro persone insignite del Premio va riconosciuto il coraggio di perseguire un obiettivo nobile in un ambiente a dir poco difficile. Tuttavia la proclamazione ha colto pressoché tutti di sorpresa, anche perché altri erano i nomi in pole position, tra i quali quello di Papa Francesco. La sorpresa ha poi ceduto il passo alle usuali esaltazioni ed è scattata subito la corsa per scoprire chi fossero le quattro persone suddette e per capire le motivazioni della decisione assunta dalla giuria di Oslo.

In effetti, guardando la vicenda dal punto di vista del realismo politico, il Nobel per la pace 2015 sembra un riconoscimento postumo alle cosiddette “primavere arabe” così esaltate, sino a poco tempo fa, da Hillary Clinton e dall’ala sinistra del partito democratico statunitense.

Come sappiamo le citate “primavere” sono poi fallite miseramente, e in altri contesti la vittoria totale del fondamentalismo è stata impedita solo dalle “maniere forti”, con i militari che hanno assunto il potere per evitare guai ancor peggiori.

E allora anche questo Nobel, come è già avvenuto in tante occasioni, è l’ennesimo tributo al “politicamente corretto”, che sempre più sta diventando la nuova forma di senso comune diffuso a macchia d’olio nelle democrazie occidentali, Italia in testa.

Occorre ammettere che un riconoscimento siffatto è sempre soggetto a un alto grado di opinabilità. Ne consegue che ogni anno la giuria ha le sue belle gatte da pelare quando si tratta di scegliere tra una rosa di nomi – o di istituzioni – assai ampia. Ovvio che le polemiche a posteriori ci sono sempre. Anche se, superando per l’appunto il tabù della correttezza politica, si ha la sensazione che il riconoscimento in fondo non incida più di tanto.

La storia del Premio è lì a dimostrare che tali considerazioni non sono affatto campate per aria. A seconda dei punti di vista e, soprattutto, delle preferenze politiche, gli “scandali” sono stati numerosi. Bastano e avanzano pochi esempi, e mi limito a quelli recenti.

Nel 1973 toccò a Henry Kissinger (pur in coppia con il nordvietnamita Le Duc Tho), e tanti non hanno mai digerito il riconoscimento al Segretario di Stato di Richard Nixon. Nel 1991 fu premiata Aung San Suu Kyi. Sembravano tutti d’accordo, salvo poi accorgersi che la leader birmana aveva in mente un concetto di democrazia non proprio collimante con quello occidentale. Meglio tacere su Yasser Arafat, insignito nel 1994. Per finire con Barack Obama, premiato poco dopo il suo ingresso alla Casa Bianca quando – ovviamente – non si sapeva come si sarebbe comportato. Molti ancora si chiedono perché mai la giuria prese quella decisione.

Viene allora spontaneo chiedersi se il Premio sia davvero una cosa seria, e se inoltre serva a qualche scopo. Non si tratta, piuttosto, di un evento puramente mediatico, destinato a riempire soprattutto i rotocalchi? Un sospetto maligno, naturalmente, ma che forse non è privo di fondamenti.