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Sul concetto di Occidente

di Michele Marsonet.

Da parecchio tempo si nota una crescita delle discussioni sul concetto di “Occidente”. Si tratta di un fatto del tutto naturale. Terminata la contrapposizione tra il blocco sovietico e quello che per decenni si è definito per l’appunto “occidentale”, lo scenario internazionale è molto cambiato con la comparsa di nuove potenze non collocabili nel quadro di cui sopra. Inoltre la leadership americana ha subito un certo appannamento, anche politico e culturale, e le ultime amministrazioni Usa sembrano avere una visione geopolitica in cui il termine “Occidente” trova meno spazio rispetto a quanto eravamo abituati.
Ancora più importanti, tuttavia, sono i riflessi di questa nuova situazione per l’Unione Europea flagellata dalle incertezze. Secondo molti osservatori fu l’occupazione sovietica dell’Europa orientale che indusse – erroneamente – a considerare europee in modo omogeneo realtà assai diverse quali Francia, Italia, Germania e Benelux. Storie diverse, tradizioni culturali anche molto differenti.
La vera forza aggregante, in realtà, fu esterna. I sei Paesi fondatori della UE avevano in comune solo il fatto di gravitare nell’orbita americana, l’unico comun denominatore essendo quindi l’atlantismo. Si sarebbe trattato, insomma, di un’unione ben diversa da quella che siamo abituati a pensare. Un’operazione nata sotto l’egida americana e spiegata dal timore dell’espansionismo sovietico.
Non solo. Il vizio di fondo – insito negli stessi Trattati di Roma – è aver cancellato con un semplice colpo di spugna la differenza fondamentale tra l’Europa “nordica” e quella mediterranea. Alle origini, tra l’altro, rappresentata soltanto dall’Italia e in maniera assai parziale dalla Francia, nazione notoriamente divisa tra le due anime.
Se ne deduce che per parecchio tempo tutto andò bene proprio perché la componente mediterranea era minoritaria, e in quanto tale controllabile con facilità dai Paesi nordici (inclusa la parte settentrionale della Francia). La crisi si manifesta solo in seguito, quando entrano parecchie nazioni del Sud che, portando all’interno della Ue i loro antichi vizi, causano lo squilibrio poi sfociato nella crisi attuale.
Qual è il problema di tale narrazione? Sostanzialmente questo. Viene da un lato riconosciuta l’esistenza di comuni valori europei, mentre dall’altro si sottolineano i conflitti che hanno insanguinato il vecchio continente per secoli, creando solchi e diffidenze che un semplice atto di fede non è in grado di superare.

Essi hanno radici “vastissime e profonde”. La Cee in un primo momento, e la Ue in seguito, sono riuscite a mascherarli utilizzando non solo l’economia (fino a quando andava bene), ma anche e soprattutto un mantello ideologico fragile come l’Occidente. Quest’ultimo ha resistito in presenza dei due blocchi contrapposti. Crollato quello sovietico, pure l’altro ha cominciato a manifestare segni di crisi, deboli all’inizio e via via sempre più marcati. Si aggiunga che gli Stati Uniti hanno da tempo cessato di considerare l’Europa quale teatro principale in cui esercitare la propria influenza, e il baricentro si è spostato con decisione in altre parti del mondo (soprattutto in Asia). Quell’Occidente cui si attribuiva tanta importanza, e del quale Oswald Spengler aveva preconizzato il tramonto, si è dunque rivelato per ciò che era: una semplice foglia di fico.
Importante pure la constatazione che nella stragrande maggioranza delle nazioni europee la democrazia non è una pianta autoctona. Per radicarla, quasi dappertutto è stato necessario il vento d’oltreoceano. E, aggiungo, questo spiega perché gli inglesi sono sempre stati così tiepidi nei confronti dell’unità europea: si sentono più vicini agli Usa e alle loro ex colonie anglofone che alle nazioni continentali.
In realtà i padri fondatori erano ben coscienti dei problemi menzionati. Lo erano i tedeschi reduci dall’apocalisse nazista, gli italiani appena usciti dal ventennio, e pure i francesi sbaragliati in guerra ma capaci di trasformare miracolosamente la sconfitta in vittoria.
Era ben presente in tutti la coscienza che – isolatamente – i Paesi europei, sia grandi che piccoli, avrebbero avuto un peso marginale nelle vicende mondiali. Di qui l’idea di una unificazione progressiva, il cui errore principale è stato procedere con troppa fretta inglobando realtà nazionali che non erano pronte al grande salto.
Si può dire con certezza che gli egoismi ora tornano a prevalere. Chi ha i conti in (relativo) ordine, e la Germania in primis, non si rende conto che il crollo dell’Unione causerebbe danni ingentissimi anche alle economie più fiorenti, come del resto dimostrano alcuni studi proprio di marca tedesca.
Resta sullo sfondo una questione di grande portata. Ogni volta che si raggiunge il livello di guardia sono i banchieri a parlare, non i politici. Questi ultimi sono quasi silenti, tranne quando litigano nei vertici così frequenti. Adenauer, De Gasperi – e lo stesso De Gaulle – non si sarebbero comportati così. I mercati sono importantissimi, come la sorte dell’euro. Tuttavia il vero deficit europeo è di carattere politico.