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La crisi economica getta ombre sulla potenza militare cinese

di Michele Marsonet.

In Occidente si è diffusa la tesi che la Cina sia in procinto di superare gli Stati Uniti per quanto riguarda la potenza militare. Si tratta di una narrazione che trova ampia eco in molti settori del mondo politico occidentale, nonché sui media che, spesso, forniscono all’opinione pubblica un’immagine sin troppo positiva della realtà della Repubblica Popolare.
Inizio con la crescita delle capacità belliche di Pechino. Indubbiamente tale crescita c’è stata. Se prendiamo per esempio in considerazione le flotte militari dei due Paesi, è noto che quella cinese ha superato la US Navy dal punto di vista meramente numerico. 425 le navi da guerra della Repubblica Popolare a fronte delle 243 americane. Gli Usa mantengono la superiorità nel settore chiave delle portaerei (11 contro 3), ma anche qui scatta un segnale d’allarme. Quello dell’obsolescenza.
Le portaerei americane sono in genere piuttosto vecchie e, a detta di molti analisti, Washington non sta puntando sull’ammodernamento della flotta. Basti dire che l’America ha ordinato 67 nuove navi, mentre la Cina ne ha in cantiere ben 84. Questo fatto non può che peggiorare il divario numerico dianzi citato a favore di Pechino.
Annualmente, il numero di vascelli militari costruiti dai cantieri navali cinesi supera da 3 a 5 volte quello delle nuove navi statunitensi, il che spiega l’inquietudine degli ambienti militari di Washington. Nonché quella del Congresso, dove i parlamentari repubblicani (ma non solo) stanno mettendo sulla graticola Joe Biden, accusandolo di spendere somme troppo ingenti per l’Ucraina trascurando la minaccia sempre più pressante posta dal Dragone.
A tutto ciò si aggiunga che la Cina si è dotata di un buon numero di grandi navi anfibie d’assalto (che prima non possedeva). Ed è facile dedurre che tale mossa sia finalizzata al più volte annunciato attacco a Taiwan, che già deve subire quotidiane incursioni di navi e aerei cinesi in vicinanza delle sue acque territoriali e del suo spazio aereo.
Occorre tuttavia chiedersi fino a che punto il Partito comunista (e il governo che ad esso obbedisce) riuscirà a mantenere su Usa e Occidente una pressione così forte. Anche in questo caso la macchina propagandistica di Xi Jiinping vorrebbe convincerci che la situazione economica del Paese è più florida che mai, e che la Cina sostituirà presto gli Usa come prima potenza economica mondiale.

I numeri, però, sono impietosi. La locomotiva cinese sta rallentando a ritmi impensabili sino a poco tempo fa. Per esempio le esportazioni del “made in China” nell’ultimo anno sono calate del 14,5%, e le importazioni del 12,4%. Il settore immobiliare continua a essere scosso da crisi gravi e continue, e lo stesso dicasi del settore manifatturiero in generale. Al contempo sta crescendo in modo esponenziale la disoccupazione giovanile, fenomeno prima sconosciuto nel Paese.
E’ necessario per l’appunto chiedersi se, con una simile situazione, i cantieri potranno continuare a sfornare navi da guerra e se l’esercito continuerà a essere rafforzato. Quesiti cui non è facile rispondere. A differenza di quanto accade in Occidente, i cittadini cinesi non possono chiedere al Partito comunista di spiegare gli insuccessi economici. Rinchiusi in una ferrea cortina informativa che impedisce loro di sapere ciò che accade fuori, sono preda fi una propaganda tanto efficiente quanto pervasiva.
Alcuni pensano che il regime possa reagire con una fuga in avanti, tentando l’avventura con l’invasione di Taiwan. Ma Xi e il suo gruppo dirigente appaiono avventati più a parole che nei fatti, come si è notato anche in occasione del conflitto ucraino, dove al loro sodale Putin hanno dato ben poche soddisfazioni.
E’ possibile, quindi, che Xi debba abbandonare il suo sogno di dar vita a un nuovo ordine mondiale a trazione cinese. Il vero pericolo, ancora una volta, si annida nello stesso Occidente. A causa della debolezza della presidenza Biden innanzitutto. E poi anche per l’influenza che gli “amici” di Pechino continuano ad esercitare in numerosi Paesi, Italia in primis.

Prof. Michele Marsonet

University of Genoa