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La filosofia della storia di Arnold Toynbee

di Michele Marsonet.

E’ nota l’estraneità della problematica dello storicismo nell’ambito del pensiero inglese contemporaneo – nel quale è raro, infatti, ritrovare studi di metodologia storiografica, ed ancor più studi diretti a una determinazione della struttura dello sviluppo storico, almeno fino all’ultimo dopoguerra. Ciò si può comprendere se si tiene presente che la tradizione empiristica del pensiero inglese – di solito filtrata attraverso l’esperienza positivistica – ha non soltanto impedito l’accoglimento della filosofia della storia di stampo metafisico, che tanta importanza ha avuto nello sviluppo della cultura continentale, ma ha pure rappresentato un forte ostacolo sia all’analisi del procedimento della ricerca storica sia alla considerazione delle dimensioni storiche del mondo umano. L’attenzione dell’empirismo tradizionale si è infatti soffermata, in prevalenza, sulla metodologia delle scienze naturali.
Anche nel “System of Logic” di John Stuart Mill, che nellambito del pensiero positivistico rappresenta la più diretta eredità della tradizione empiristica (e che non a caso costituirà in seguito un termine di riferimento essenziale della logica di John Dewey), lo scopo delle scienze sociali è posto nella determinazione a base induttiva delle leggi di sviluppo della società, e il metodo storico diventa semplicemente un metodo specifico entro questo processo di determinazione. Anche quando l’empirismo si è trasformato in analisi linguistica, questa situazione di sostanziale estraneità è rimasta; poiché la logica matematica di Russell ha concentrato l’attenzione della filosofia sull’elaborazione del simbolismo matematico e sul problema del rapporto tra proposizioni atomiche e dati sensoriali, mentre l’analisi della scuola di Oxford – di derivazione wittgensteiniana – ha costituito la base di una filosofia “terapeutica” in cui la considerazione delle dimensioni storiche del linguaggio è stata costantemente lasciata da parte, e la considerazione della struttura linguistica delle varie discipline di ricerca è stata sacrificata alla considerazione della struttura del linguaggio ordinario. E quando il pensiero inglese ha cercato di accostarsi alla filosofia continentale, rifacendosi all’idealismo di Hegel, esso ha tuttavia lasciato cadere l’orientamento storico della visione romantica della realtà, per procedere alla dimostrazione della tesi hegeliana dell’identità di finito e infinito non per via positiva, ma per via negativa – attraverso la considerazione del necessario rinvio dalla contraddittorietà del finito alla non contraddittorietà di una coscienza infinita che deve costituirne il fondamento.
La figura come Arnold. Toynbee è pertanto un’eccezione nell’ambito del panorama del pensiero inglese contemporaneo. Essa segna l’incontro della tradizione empiristica con la problematica dello storicismo tedesco contemporaneo, quale si era configurata nell’opera di Spengler, nello sforzo di determinare il significato della crisi della civiltà nel mondo contemporaneo. L’opera di Toynbee, al pari di quella di Spengler, trae infatti origine dalla coscienza della crisi della civiltà nell’attuale momento storico, cioè dal riconoscimento consapevole della precarietà della sua esistenza e dal’’interrogativo intorno al suo avvenire. Caduta la concezione romantica – conservata anche nella speculazione positivistica – della storia come progredire immancabile di un principio assoluto che non può incontrare resistenze alla propria marcia, la civiltà è apparsa al mondo contemporaneo non più come una conquista assicurata una volta per sempre, ma come una conquista sempre in pericolo, sempre sottoposta al rischio di una perdita irreparabile. L’esistenza della civiltà appare priva di una garanzia assoluta; essa ha davanti a sé non soltanto la strada del progresso e del consolidamento, ma anche la strada del crollo, della disgregazione, della morte. Sulla base di questo riconoscimento, la crisi della civiltà designa il prevalere delle possibilità negative dello sviluppo su quelle positive; e la coscienza di questa crisi, quale si è manifestata fin dagli anni della prima guerra mondiale, ha posto in primo piano l’interrogativo intorno alla sorte futura della civiltà.
La risposta di Spengler è una profezia di imminente rovina: il riconoscimento della problematicità della storia si rovescia, in lui, nell’affermazione di una necessità storica che prescrive alla civiltà la sua inevitabile distruzione in futuro. A questa risposta si richiama l’opera di Toynbee; ma la natura del suo riferimento è sempre quella di un riferimento polemico. Essa deriva da Spengler, infatti, il proprio problema centrale, cioè il problema del rapporto tra unità e molteplicità delle civiltà come base per intendere il significato della crisi odierna – e, insieme ad esso, il proposito di formulare una risposta precisa all’interrogativo intorno alla sorte futura della civiltà. Mai presupposti biologico.-fatalistici elaborati da Spengler sono senz’altro rigettati, allo scopo di far valere nella sua genuina portata il riconoscimento della problematicità della storia.

A fondamento dell’analisi di “A Study of History” sta la concezione della storia come storia di civiltà – concezione che, se da un lato rivela il rapporto di Toynbee con Spengler, dall’altro riprende un’esigenza centrale della storiografia illuministica. Soltanto la civiltà può costituire «un campo intelligibile di studio storico indipendente dai punti di vista e dall’attività spazialmente e temporalmente condizionata degli storici», vale a dire un campo di ricerca dotato di una propria auto-intelligibilità oggettiva. Muovendo dalla critica dell’orientamento “nazionale” di gran parte della ricerca storica ottocentesca, Toynbee avanza la tesi che la vita e lo sviluppo di una nazione possano venir compresi soltanto nell’ambito di una più vasta unità che racchiuda diverse nazioni nel loro rapporto reciproco, e che è appunto la civiltà nella sua esistenza autonoma. Da tale concezione Toynbee deriva, in conformità alla prospettiva spengleriana, due conseguenze principali. In primo luogo, se la storia è essenzialmente storia di civiltà, ogni fenomeno storico può venir inteso soltanto come fenomeno di una determinata civiltà, o di un determinato rapporto tra civiltà distinte: cultura, politica, economia – che per Toynbee rappresentano i tre piani di sviluppo di ogni civiltà – acquistano il loro significato soltanto se vengono considerate dal punto di vista non di una storia culturale o politica o economica, ma di una storia di civiltà.
In secondo luogo, se la civiltà rappresenta uno specifico campo di studio storico definito da una propria auto-intelligibilità oggettiva, dev’esserci una pluralità di civiltà diverse, ognuna con una propria fisionomia per cui viene a differenziarsi dalle altre. Il postulato dell’unità e della continuità del divenire storico e il corollario di una linea progressiva di sviluppo dell’umanità devono lasciare il posto alla considerazione del diverso processo evolutivo delle varie civiltà nella loro esistenza indipendente. Ciò non significa però che Toynbee abbia accolto la dottrina spengleriana dell’assoluta eterogeneità – e quindi dell’incomunicabilità – tra le diverse civiltà. Anzi, egli rifiuta il presupposto da cui tale dottrina derivava, cioè la definizione della civiltà come organismo biologico, determinante in maniera necessaria l’orizzonte di vita degli individui che essa racchiude: la civiltà è per lui, al pari di ogni società, una relazione tra individui, “un particolare genere di relazione tra esseri umani che non sono soltanto individui ma sono pure animali sociali nel senso che essi non possono esistere del tutto – o in ogni modo non umanamente – senza essere in questa relazione reciproca”. Respingendo da un lato la teoria atomistica della società – che intende l’individuo. come un essere a sé stante, e la società come una somma o un aggregato di individui – Toynbee respinge però contemporaneamente, e in modo non meno esplicito, la teoria organicistica per cui la società è una totalità organica della quale gli individui sono semplici “parti”. La società è una relazione inter-individuale, che trae origine dagli individui stessi, e non costituisce un’entità trascendente l’esistenza individuale. “La società non è né può essere nulla di più che un mezzo di comunicazione attraverso cui l’individuo umano agisce reciprocamente su di un altro”.
Sono gli individui umani e non le società umane che “fanno” la storia. Ma se la civiltà non è un organismo fornito di una struttura biologica definita, ne deriva anche che essa non possiede una fisionomia immutabile, identica dall’inizio alla fine del suo corso, che racchiuda entro il proprio ambito tutte le sue manifestazioni: i caratteri distintivi di una civiltà sono il risultato di uno sviluppo storico. E ne deriva, inoltre, che essa può entrare in rapporto con le altre civiltà, comunicando con queste e comprendendole nella loro diversa fisionomia.
La diversità di struttura delle varie civiltà non vuol dire eterogeneità; essa è una diversità che si costituisce storicamente sulla base di uno sforzo comune, per quanto orientato in vario modo, per trascendere il livello dell’umanità primitiva. Con questo distacco dai presupposti spengleriani Toynbee ha posto la base per un’analisi comparativa delle civiltà che si presenta sotto forma di un’indagine storica a carattere empirico-scientifico, e che rappresenta l’incontro della problematica di Spengler con le esigenze metodologiche della tradizione empiristica, di un empirismo reinterpretato attraverso schemi di origine positivistica.