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La dimensione del mistico in Wittgenstein

di Michele Marsonet.

Per il neopositivismo logico le asserzioni della metafisica – e della teologia – non sono semplicemente false ma prive di senso, occupandosi essa di un dominio di enti circa i quali noi non siamo in grado di dire alcunché di significante. E – si noti – l’ispiratore di questa trasformazione radicale della filosofia è il primo Wittgenstein, il quale nel “Tractatus” afferma: “Il metodo corretto in filosofia sarebbe dunque il seguente: non dire nulla eccetto ciò che può essere detto, e cioè le proposizioni della scienza naturale – vale a dire, qualcosa che nulla ha a che fare con la filosofia – e quindi, ogni volta che qualcuno volesse dire qualcosa di metafisico, mostrargli che non è riuscito a dare un significato a certi segni contenuti nelle sue proposizioni”.
A ben guardare, tuttavia, nel “Tractatus” è ben presente l’esigenza di riconoscere una dimensione diversa da quella fattuale. Tutti i problemi trattati confluiscono nella celebre proposizione 7: “Su ciò di cui non si può parlare, si deve tacere”. Emerge in sostanza il problema del “mistico”, vale a dire di una realtà collocata al di là del mondo dei fatti e, quindi, trascendente l’ordine delle cose esperibili. Il silenzio che viene richiesto in tal caso dà la misura di come si è risospinti al di là del mondo, nell’ “indicibile”. E proprio il concetto di “mistico” costituisce l’anello di congiunzione tra il “Tractatus” e la seconda grande opera di Wittgenstein, le “Ricerche filosofiche”. Secondo il filosofo viennese il “mistico” è un dato ineliminabile, di cui bisogna prendere atto ed esprime, in primo luogo, il senso del mistero che si avverte di fronte al mondo, e in secondo luogo l’incapacità della scienza di soddisfare i desideri più profondi dell’uomo. Il “mistico” mette in crisi la pretesa neopositivista di ridurre il dicibile al mondo dei fatti, e induce a riconoscere la varietà dei mondi del significato, le “forme di vita”.
In Wittgenstein, la religione e la teologia non escono sconfitte o umiliate, ma ritrovano uno “spazio” di senso, precedentemente negato dalle filosofie neoempiriste. Merito di Wittgenstein è l’aver individuato l’esistenza di logiche diverse per ogni tipo di sapere. Non, perciò, una sola logica, a cui riferire tutti i saperi, ma tante logiche, quanti sono i saperi. C’è qui il superamento della pregiudiziale antimetafisica e antireligiosa dell’empirismo logico del Circolo di Vienna, i cui componenti avevano posto la verifica empirica delle proposizioni come criterio ultimo di senso.
Per esempio, la riflessione wittgensteiniana sull’etica non è limitata alla comprensione dell’etica in quanto tale, perché riguarda anche la comprensione della religione, dato che questa è assimilata all’etica. Tra etica e religione, sostiene Wittgenstein, c’è un rapporto come tra un tutto e una sua parte. L’etica “sorge dal desiderio di dire qualcosa sul significato ultimo della vita, il bene assoluto, l’assoluto valore” e conseguentemente “non può essere una scienza”; d’altra parte “il significato ultimo della vita lo possiamo chiamare Dio”. Etica e religione hanno la stessa origine, ma non aggiungono nulla alla nostra conoscenza; sono solo un “documento di una tendenza nell’animo umano che io personalmente non posso non rispettare profondamente e che non vorrei davvero mai, a costo della vita, porre in ridicolo”. L’etica e la religione esprimono un desiderio, una tendenza dell’uomo a rompere il piano del visibile, nel quale si è immersi, per raggiungere e possedere il piano dell’invisibile. Il silenzio è l’ultima parola dell’etica e della religione.
Secondo Wittgenstein, la religione, in quanto atteggiamento nei confronti della vita, è, in sostanza, soprattutto, etica. Ed è proprio l’etica a costituire la chiave interpretativa dello stesso “Tractatus”. Wittgenstein consiglia di leggere soltanto la prefazione e la conclusione del libro per capirne il senso più profondo. Nella prefazione al “Tractatus” Wittgenstein scrive: “Tutto il senso del libro si potrebbe riassumere nelle parole: Quanto può dirsi, si può dir chiaro; su ciò di cui non si può parlare si deve tacere”. Come si vede, nella conclusione del libro si ripete la stessa affermazione letterale della prefazione, segno chiaro della delimitazione del dominio della parola all’ambito dei fatti del mondo.
Da un esame della “Conferenza sull’etica”, tenuta da Wittgenstein nel 1929 a Cambridge, si può desumere il punto di vista del filosofo sulla religione, che è rimasto sostanzialmente immutato nel corso degli anni. Etica e religione si equivalgono. Lo sbocco ultimo di entrambe rimane il silenzio; “le nostre parole usate come noi le usiamo nella scienza, sono strumenti capaci solo di contenere e di trasmettere senso e significato naturali”. Da questo ambito di senso rimane fuori la domanda religiosa più decisiva: “Che so di Dio e del fine della vita”. Siamo nel dominio dell’inesprimibile, sapendo, però, che “Quando non ci si studia di esprimere l’inesprimibile, allora niente va perduto. Ma l’inesprimibile è – ineffabilmente – contenuto in ciò che si è espresso”.

L’etica e la religione, pertanto, non possono essere “comunicate”, perché le parole possono comunicare solo fatti, mentre esse riguardano, invece, un campo dell’esperienza altro dal mondo dei fatti. Le stesse espressioni dell’etica e della religione non sono descrivibili in termini fattuali, si può solo tentare di spiegare il “che cosa abbiamo in mente” e “il che cosa cerchiamo di esprimere” quando usiamo queste espressioni. Con esse si cerca “di andare al di là del mondo, ossia al di là del linguaggio significante”. Eppure, “un certo caratteristico uso errato della nostra lingua percorre tutte le espressioni etiche e religiose. Dietro questo uso distorto della lingua, il filosofo vede lo sforzo di avventarsi disperatamente contro “le pareti della nostra gabbia”, che sono i limiti del linguaggio. Rompere i limiti del linguaggio significherebbe aprirsi un varco nell’indicibile, proiettandosi proprio nel campo dell’etica e della religione.
Di qui la necessità di rivendicare per l’etica e la religione un diverso statuto rispetto alle scienze empiriche. Né l’etica, né la religione possono essere scienza; esse sorgono “dal desiderio di dire qualcosa sul significato ultimo della vita, il bene assoluto, l’assoluto valore” e sono solo “documento di una tendenza nell’animo umano”. Di fronte all’etica e alla religione “Posso solamente dire “Non mi prendo gioco di questa tendenza umana, mi levo il cappello di fronte ad essa”. E qui è essenziale il fatto che non è una descrizione sociologica, ma che io parlo per me stesso”. Rimane ferma nel filosofo la convinzione, a cui non sarebbe venuto mai meno, che, dopo tutto, “i fatti per me non sono importanti. Ma a me sta a cuore quel che intendono gli uomini quando dicono che “il mondo c’è”.
L’etica, in quanto tale, appartiene all’area del “mistico”, ma nello stesso tempo essa è oggetto anche delle scienze umane. Da una parte, l’etica è una “forma di vita” e, perciò, irriducibile ad ogni fondazione e definizione razionale; dall’altra, come qualsiasi “oggetto di ricerca”, si presta a una descrizione. Una teoria etica non potrebbe mai essere dello stesso genere di una teoria delle scienze naturali. Rispetto a una teoria collegata a fatti o fenomeni propri delle scienze empiriche, quella etica ha una sua “trascendenza” riguardo al mondo e ai limiti del linguaggio. E’ questa, in fondo, la concezione dell’etica soggiacente al “Tractatus”, mentre nelle “Ricerche” si rivendica per l’etica, come per ogni altra “forma di vita”, una grammatica specifica. Questo passaggio è attestato nella Conferenza sull’etica nel momento in cui si esplicita una medesima ispirazione rispetto al “Tractatus”, mentre il procedimento d’analisi seguito è quello che sarebbe stato formalizzato nelle “Ricerche”. Così, ad una interrogazione sulla natura dell’etica, Wittgenstein considera la questione improponibile e si ferma, invece, a presentare e ad analizzare dei casi significativi, che possano servire a chiarire le espressioni etiche più comuni.
Se questo è il procedimento di chiarificazione a cui sottoporre le espressioni etiche, lo è anche di quelle religiose. Sul piano filosofico ne consegue l’abbandono di ogni pretesa di verità, o di falsità, a favore di un’attività di semplice descrizione. Non si può entrare nel merito dei fatti etici e religiosi, essi possono solo essere descritti nelle azioni degli uomini, in ciò che essi dicono o fanno. La perdita del valore di verità è solo in via di principio, perché, di fatto, Wittgenstein sospende su di essi qualsiasi giudizio. Seguendo questo criterio, la verità delle affermazioni etiche e religiose viene ritrovata dal filosofo nell’agente, nell’uomo, cioè, che, credendo in certe cose, agisce in un certo modo, modellando il suo comportamento sulla credenza a cui fa riferimento. Non si dà una credenza che non si realizzi nell’esistenza del credente. Da qui prende forma il senso dell’interrogazione religiosa, che porta a riproporre la religione come risposta a quegli interrogativi decisivi dell’uomo, non diversamente risolvibili rimanendo nell’ambito dei fatti del mondo. Ma questi interrogativi non sono affatto astratti, perché chiamano in causa la vita stessa del credente, coinvolta, com’è, nell’avventura di una continua ricerca.
Si noti, in conclusione, quanto Witgenstein sia vicino alla concezione della verità esposta nel Vangelo di Giovanni (18:38). “Quid est veritas?”, chiede Ponzio Pilato a Gesù, e quest’ultimo risponde lasciando intendere che essa si identifica con la sua stessa persona. Una verità “incarnata”, dunque, e non qualcosa di risolvibile all’interno del linguaggio come siamo abituati a credere.