L’espansionismo cinese nel Pacifico meridionale

di Michele Marsonet.
Repubblica Popolare Cinese e Stati Uniti stanno sono impegnati in una complicata partita a scacchi che ha quale posta l’egemonia nell’Oceano Pacifico. Alcuni episodi recenti indicano che ora, ad essere coinvolta, è la parte meridionale del Pacifico che include arcipelaghi collocati in posizione strategica tanto dal punto di vista commerciale quanto da quello militare.
Sono infatti gli stessi arcipelaghi in cui furono combattute parecchie grandi battaglie terrestri e aeronavali tra esercito e marina Usa e quelli del Giappone imperiale nel secondo conflitto mondiale. Americani e giapponesi capirono ben presto che i territori in questione, pur essendo di dimensioni limitate, sono molto importanti per il controllo dei traffici marittimi di ogni tipo.
Mette conto notare che, dopo il Giappone imperiale negli anni ’40 del secolo scorso, nessuno aveva più osato sfidare il predominio americano in queste acque. Con l’avvento al potere di Xi Jinping, tuttavia, ci ha provato la Cina comunista. La chiave è la concessione alle piccole nazioni dell’area di aiuti consistenti e “gratuiti” solo in apparenza.
Anche in quest’area, come è già avvenuto in Africa e America Latina, il governo cinese fa scattare a un certo punto la ben cosiddetta trappola del debito. Le deboli economie locali non sono in grado di restituire i finanziamenti grazie ai quali le aziende cinesi costruiscono infrastrutture di dimensioni spesso faraoniche.
Appellandosi all’insolvenza, Pechino reagisce impossessandosi di strutture strategiche quali porti, aeroporti e autostrade a fini militari. Ciò consente alla Repubblica Popolare di espandere la sua sfera d’influenza fino a coinvolgere, per quanto in modo indiretto, i principali Paesi dell’Oceania come Australia e Nuova Zelanda.
Il caso più recente ed eclatante di questo espansionismo è quello delle Isole Salomone che includono Guadalcanal, dove Marines Usa e truppe scelte nipponiche combatterono una battaglia fondamentale per le sorti della guerra del Pacifico, con vittoria finale degli americani.
Qui il governo di Manasseh Sovagare ha deciso, nel 2019, di interrompere i rapporti diplomatici con Taiwan – che si autodefinisce “Repubblica di Cina” – per allacciarli invece con la Cina comunista, diventata nel frattempo la seconda superpotenza mondiale. Questa mossa ha consentito a Pechino di isolare ancora di più Taiwan, riconosciuta da pochissimi Stati stranieri.
La maggioranza degli abitanti delle Salomone, tuttavia, non ha gradito questa scelta, chiedendo al governo di ritornare sulla sua decisione. Si sono in seguito verificato violenti scontri che hanno causato numerosi morti e feriti. Devastata anche la “Chinatown” di Honiara, capitale del Paese. I manifestanti temono che rapporti troppo stretti con la Cina mettano in pericolo i diritti umani nell’arcipelago e conducano a fenomeni di sfruttamento economico.
L’Australia, che è la maggiore potenza regionale dell’area, ha allora deciso – su invito del governo locale – di inviare un contingente di soldati e poliziotti per tenere la situazione sotto controllo. Si noti che le Salomone si trovano a poche ore di volo dalle coste australiane, e considerata la vicinanza Canberra si è sente minacciata nei suoi interessi nazionali.
Il malumore anticinese è comunque diffuso in altri arcipelaghi vicini come Tonga, Kiribati e Vanuatu, luoghi noti perché mete del turismo internazionale per i loro paesaggi e spiagge da sogno. Luoghi, però, pesantemente indebitati con Pechino. Il debito di Tonga, per esempio, ammonta a oltre 100 milioni di dollari, il che significa a un quarto del Pil nazionale.
L’espansionismo cinese basato, come dicevo dianzi, sulla “trappola del debito”, sta quindi incontrando seri ostacoli nella sua corsa. Da notare, inoltre, il favore con cui viene vista Taiwan, lontana erede della Cina nazionalista di Chiang Kai-shek. Xi Jinping cerca in tutti i modi di isolarla, ma la decisa reazione del presidente Usa Biden ed episodi come quello delle Salomone fanno capire che tale strategia è meno facile da condurre in porto di quanto pensano i dirigenti cinesi.
La partita a scacchi tra Washington e Pechino, che ho nominata all’inizio, è in pieno svolgimento e, come si è visto, non è detto che l’aggressività della Repubblica Popolare paghi sempre e comunque. Tutte le nazioni dell’Estremo Oriente – incluse quelle in teoria più vicine ideologicamente come il Vietnam – hanno compreso che l’egemonia cinese metterebbe a rischio anche la loro indipendenza.