Empirismo e anti-empirismo nella Storia

di Michele Marsonet.
Secondo gli autori di tendenza ermeneutica, più che di “spiegazione” (come fanno gli empiristi), si deve parlare di “comprensione esplicativa”: cioè una comprensione razionale della motivazione, la quale consiste nel collocare l’azione in un più vasto contesto di significati. Weber usa spesso il termine “empatia” per caratterizzare tale processo, ma non ipotizza l’esistenza di una facoltà autonoma che consentirebbe di interpretare lo stato d’animo dell’agente.
Si tratta piuttosto di prendere in considerazione i possibili propositi, valori e credenze in grado di generare l’azione, e cercare poi di determinare, attraverso l’evidenza diretta o indiretta, se l’interpretazione è corretta o meno. Il metodo della “comprensione”, pertanto, è basato in primo luogo sulla formazione di ipotesi; tramite esse storici e scienziati sociali formulano una congettura circa lo stato d’animo dell’agente, e poi tentano di verificare la validità della propria congettura osservando le azioni e le espressioni verbali di colui che agisce.
Gli empiristi hanno spesso notato che le indicazioni metodologiche di Weber sono piuttosto vaghe, dal che deriva a loro avviso l’inesistenza nei suoi scritti sia di un metodo autonomo, sia di un insieme di regole che ci consentano di derivare l’interpretazione da una descrizione del comportamento sociale. Concordano invece sull’importanza del processo di formazione delle ipotesi, problema che ogni scienziato sociale deve affrontare. Come l’empirista, anche l’ermeneuta deve formulare un’ipotesi circa il significato di un’azione che le attribuisca un senso alla luce dei fatti conosciuti, e non vi sono “ricette” automatiche in grado di produrre ipotesi buone.
Gli empiristi continuano osservando che, quando ci viene fornita l’interpretazione di un’azione o di una pratica sociale – per esempio quella dell’uomo che fa gli scongiuri dopo essere passato sotto una scala – siamo praticamente obbligati a far rientrare in gioco il problema della verifica: in altre parole, come giungiamo a stabilire se l’interpretazione è vera o falsa?
Di quali criteri di adeguatezza disponiamo per scegliere tra interpretazioni che sono tra loro in conflitto? E ancora, quali strumenti empirici possono essere usati per valutare il significato delle azioni e delle pratiche che osserviamo? Vi è in effetti un criterio che svolge un ruolo essenziale nelle discussioni metodologiche degli ermeneuti: la “coerenza”. Si richiede, in altri termini, che i vari elementi che concorrono all’interpretazione stiano tra loro in rapporti tali da formare un tutto coerente e fornito di significato. Ma anche questo criterio fa sorgere dei problemi.
In primo luogo dobbiamo chiederci di “quale” coerenza si sta parlando in questo contesto. La nozione di coerenza logica è troppo debole, poiché essa richiede soltanto che non vi siano contraddizioni logiche nel resoconto fornito. Supponiamo che, nel precedente esempio, l’uomo che passa sotto la scala sia un individuo dotato di istruzione superiore: il fatto che egli ricorra agli scongiuri sembra manifestare un certo grado di incoerenza (di solito non ci aspettiamo comportamenti simili da persone istruite). Tuttavia non c’è contraddizione logica in questo caso, dal momento che si conoscono casi di scienziati e filosofi famosi che erano superstiziosi. Pare che gli studiosi di tendenza ermeneutica abbiano in mente una sorta di coerenza estetica, richiedendo che degli elementi simbolici siano in accordo tra loro. Ma, ovviamente, tale idea è troppo imprecisa per costituire un criterio di verità che risulti utilizzabile.
In secondo luogo, sostengono ancora gli empiristi, il requisito della coerenza è troppo debole perché non ci fornisce una valida base per dare giudizi empirici circa le interpretazioni. Quando ci viene offerta un’interpretazione di un evento o di una pratica sociale, non ci basta sapere che essa è coerente: desideriamo piuttosto sapere se è vera o meno. E ciò è possibile solo se esiste dell’evidenza empirica a suo favore.
In altre parole, dobbiamo utilizzare le nostre osservazioni del comportamento e delle usanze degli altri per verificare certe interpretazioni ed escluderne altre. Ecco perché secondo gli empiristi il processo interpretativo non è di per sé sufficiente. L’interpretazione si limita a descrivere eventi identificando un insieme di significati a livello culturale o individuale. Gli scienziati sociali empiristi pensano invece che occorra spiegare un evento ponendolo in connessione con una catena di altri eventi e cercandone le “cause”.
Ancora una volta gli anti-empiristi rispondono che i fenomeni sociali, oltre ad essere intrinsecamente dotati di significato, non possono essere equiparati ai fenomeni oggettivi studiati dalle scienze naturali. I campi elettromagnetici hanno proprietà oggettive e indipendenti dai modi in cui gli esseri umani li concepiscono. Gli ermeneuti affermano che, al contrario, istituzioni e pratiche umane dipendono per la loro stessa natura proprio dai modi in cui le persone che partecipano ad esse le concepiscono. In quest’ambito non abbiamo quindi le leggi di Newton, le forze di Volta o i meccanismi di Darwin, ma “costruzioni” come quelle di Weber e Freud: cioè “disvelamenti” sistematici di “mondi concettuali” in cui vivono i personaggi del passato o le persone con turbe psichiche.
Si deve inoltre notare la preferenza per la specificità culturale manifestata dai teorici dell’interpretazione. Essi insistono sulla fondamentale variabilità culturale dei significati umani, cosicché dal loro punto di vista risultano inutilizzabili tutti i resoconti che astraggono dai tratti tipici della cultura che viene esaminata. Non vi sono elementi universali (trans-culturali) che ci mettano in grado di confrontare a colpo sicuro gruppi e società diversi, e le generalizzazioni privilegiate dagli empiristi altro non fanno che portare lo scienziato sociale fuori strada. Sul piano dell’ontologia sociale non esistono entità universali, il che significa che i concetti utilizzati all’interno di un certo gruppo non possono essere applicati ad altri gruppi. Tale tesi richiama subito alla mente la nozione della “incommensurabilità dei paradigmi scientifici” elaborata dal filosofo e storico della scienza Thomas S. Kuhn nel suo celebre testo “La struttura delle rivoluzioni scientifiche”.
L’approccio ermeneutico ai fenomeni sociali si può dunque condensare in queste tesi di fondo:
(1) Tutte le azioni umane sono filtrate da una visione del mondo soggettiva;
(2) Di inter-soggettività si può parlare, ma solo riferendosi a un gruppo specifico;
(3) La scienza sociale è possibile solo se è in grado di penetrare nel mondo degli individui;
(4) Tutte le azioni sociali debbono essere interpretate sulla base dei significati individuali.
Naturalmente ci si può chiedere se gli ermeneuti hanno validi motivi per sostenere che soltanto il loro approccio può dar vita ad una scienza sociale degna di questa nome. I loro avversari insistono sulla vaghezza dei termini usati e sull’incapacità del modello ermeneutico di fornire spiegazioni. A loro avviso, la scienza sociale ermeneutica si riduce ad una semplice collezione di interpretazioni e di “letture” di diversi tipi di società, senza tener conto del ruolo giocato nei fenomeni sociali dalle leggi e dalle cause.
Si noti, comunque, un punto essenziale che riguarda il concetto di “natura umana”. Per gli empiristi esiste davvero qualcosa di questo tipo, e la diversità delle elaborazioni culturali non esclude affatto la presenza di tratti comuni. Per gli anti-empiristi vale il contrario: non esiste alcuna natura umana in quanto tale, ma “tante” nature umane quanti sono i gruppi socio-culturali.