La ciclicità della Storia in Spengler

di Michele Marsonet.
Come Nietzsche, Oswald Spengler ha ripreso e prospettato la riflessione sulla storia in termini di eterno ritorno dell’identico e di decadenze cicliche. Pensatore di intonazione pessimistica, Spengler ha sviluppato una forma di storicismo naturalistico nella famosa opera “Il tramonto dell’occidente” (scritta nel periodo 1918-1922). I germi di tale pensiero sono da ricercare già nella sua tesi di dottorato sulla filosofia di Eraclito, in cui l’autore sosteneva di aver trovato nel filosofo greco una legge di carattere universale: tutte le cose si ripetono. Più tardi svilupperà tale concetto, ricorrendo alla metafora del ciclo biologico: i fatti della storia, la cui verità va “intuita” e non analizzata, ricalcano lo schema delle ripetizioni biologiche: nascita, crescita, tramonto e morte.
Condizionato emotivamente dalla crisi della Prima Guerra mondiale, finì per accantonare ogni riflessione sulla libertà dell’uomo e celebrare invece, in una sorta di fatalismo rassegnato, il tempo presente come epoca di consunzione e, quindi, di tramonto della civiltà europea. L’Europa, al pari delle altre civiltà, è stata creativa nella stagione primaverile della sua cultura; le altre stagioni (in analogia con quelle naturali) stanno a indicare il suo progressivo esaurimento. Spengler, in verità, non parla dell’Europa in termini di unità, ma distingue otto culture planetarie, singolarmente caratterizzate dalla forma magica, apollinea o faustiana. I Greci e i Romani sono stati portatori di cultura apollinea, l’Europa moderna obbedisce allo spirito di intraprendenza borghese, o faustiano. L’importante è intuire l’anima di una cultura per rendersi conto della sua vitalità o del suo incipiente decadere. L’uomo non può far nulla per arrestarne il decorso naturale che si compie nel giro di mille anni.
L’impostazione dell’opera di Spengler non è quella nietzschiana, ma ha la sua origine altrove, cioè nello storicismo di Dilthey soprattutto, e di Simmel secondariamente. Da Dilthey egli ha tratto appunto le categorie fondamentali e l’insieme di strumenti necessari ad affrontare il problema della civiltà occidentale e del suo avvenire; e Dilthey costituisce un implicito ma costante punto di riferimento del suo pensiero. Soltanto se si pone in luce il modo in cui la problematica diltheyana viene accolta e modificata, dando vita a una costruzione che si distacca poi notevolmente dalla dottrina filosofica di Dilthey per svilupparne unilateralmente l’aspetto più legato alla mentalità romantica, è possibile determinare il rapporto di Spengler con il movimento culturale e speculativo contemporaneo, e il suo legame di appartenenza allo storicismo tedesco.
Occorre quindi muovere dalla distinzione tra “natura” e “storia”, centrale nell’opera spengleriana, in cui confluisce un tema peculiare dello storicismo tedesco contemporaneo – il problema della distinzione tra scienze della natura da un lato e scienze dello spirito e della realtà storico-sociale dall’altro. Al pari della distinzione diltheyana tra scienze della natura e scienze dello spirito, anche la distinzione formulata da Spengler tra natura e storia presenta una pluralità di aspetti che non è facile individuare con precisione, per il minor rigore del suo linguaggio rispetto a quello diltheyano. Anche qui il punto di partenza è una distinzione apertamente oggettiva, anzi, quale non era in Dilthey, metafisica, in quanto natura e storia vengono a designare due realtà tra loro radicalmente differenti, anche se in qualche rapporto. L’antitesi tra natura e storia non indica perciò soltanto l’essenziale storicità dell’uomo, ma viene a identificarsi con l’antitesi tra “divenuto” e “divenire” formulata in precedenza da Goethe: la natura è ciò che è divenuto, ciò che il divenire ha sì prodotto, ma che ha ora assunto una forma fissa, statica, mentre la storia è il divenire, il processo della vita nella sua “realizzazione del possibile” in maniera necessaria.
Come la natura è il regno dello spazio e quindi dell’estensione, così la storia è il regno del tempo e quindi della direzione, che ne designa il carattere irreversibile. Tra di esse vi è quindi una netta antitesi e una puntuale contrapposizione, su cui Spengler ritorna ripetutamente ne “Il tramonto dell’occidente”. Questa netta antitesi non annulla però l’originaria identità dei due termini: la storia è a base della natura come il divenire è origine del divenuto, in quanto la natura è il prodotto di quello stesso divenire biologico da cui sorge l’uomo e sorgono le civiltà, e non vi è alcuna frattura tra il mondo sub-umano e il mondo umano. La natura, come divenuto, rappresenta soltanto il cristallizzarsi del divenire in una forma determinata, nella quale si arresta lo sforzo creativo della realtà.
L’antitesi tra natura e storia viene però sviluppata da Spengler anche sul piano conoscitivo, quale antitesi tra due differenti e opposti tipi di logica: la logica “meccanica”, propria della natura, e la logica “organica”, propria della storia. Anch’egli, come tutto lo storicismo tedesco contemporaneo, rimprovera a Kant di aver limitato la sua indagine critica alle scienze della natura, senza aver tenuto conto del carattere autonomo ed originale della ricerca storica, e di aver trascurato nella sua speculazione la fisionomia logica peculiare dello sforzo di comprensione della storia. Egli contrappone pertanto la logica meccanica, che ha alla sua base il principio di “causalità” e che si volge alla considerazione di ciò che è spazialità ed estensione, e la logica organica, che sfugge alle leggi causali e che si volge alla considerazione di ciò che è temporalità e direzione, affermando la vanità di ogni tentativo razionalistico o positivistico di sovrapporre la prima alla seconda.
La Storia non può venir compresa con il procedimento intellettuale, con la ricerca del rapporto di causa e di effetto, in quanto “ogni accadere è unico, irripetibile” e quindi “reca il segno della direzione (del ‘tempo’), dell’irreversibilità”. Gli strumenti necessari alla comprensione della Storia non sono quelli della ragione e della riflessione critica, ma sono soltanto l’intuizione, il sentimento e l’esperienza vissuta (Erlebnis): non la mediazione intellettuale, ma soltanto l’immediatezza è capace di attingere il divenire nel suo processo creativo, ed ogni autentica ricerca storica deve fondarsi appunto su di essa. Pertanto l’Erlebnis, che Dilthey aveva individuato come organo proprio di comprensione della storia, per poi riconoscerne l’insufficienza, torna in Spengler come via di accesso unica e necessaria al divenire.
Lo sforzo diltheyano di scrollarsi dalle spalle la pesante eredità romantica che ispira ancora la nozione di Erlebnis viene completamente scordato da Spengler, allorché afferma, in una sostanziale assimilazione, che “solo il sentimento, solo l’Erlebnis e la visione” possono penetrare la storia in quanto divenire. Ma l’antitesi tra natura e Storia, come già in Dilthey, non è soltanto antitesi tra il divenuto e il divenire, oppure antitesi tra due forme radicalmente differenti di attingere il divenuto e il divenire. Natura e storia costituiscono anche, e soprattutto, una distinzione di “atteggiamento”, in quanto indicano due maniere opposte di concepire la realtà o, meglio, i termini estremi di una serie di possibilità che l’uomo pone in atto nel forgiarsi un’immagine del mondo. “Una realtà è natura in quanto subordina ogni divenire al divenuto, è storia in quanto subordina ogni divenuto al divenire”.
Da un lato c’è pertanto “il mondo come natura” e dall’altro c’è invece “il mondo come Storia”; da un lato un’immagine del mondo imperniata sul divenuto, sullo spazio, sull’estensione, che perciò si serve di una logica meccanica e del principio di causalità. Dall’altro un’immagine del mondo imperniata sul divenire, sul tempo, sulla direzione, che perciò si serve di una logica organica e dell’esperienza vissuta. “Qui si tratta non già di un’alternativa, bensì di una serie di possibilità indefinite e assai differenti”, al cui duplice limite stanno “una concezione puramente organica e una concezione puramente meccanica del mondo”.
Su questa antitesi insiste in maniera particolare Spengler, illustrando il differente linguaggio che si esprime nelle due opposte immagini del mondo: da una parte il linguaggio sistematico della legalità causale che corrisponde alla logica meccanica, dall’altro il linguaggio “simbolico” che corrisponde alla logica organica. “La morfologia di ciò che è meccanico ed esteso, una scienza che scopre e coordina leggi naturali e rapporti causali, si chiama sistematica. La morfologia di ciò che è organico, della Storia e della vita, di tutto ciò che reca in sé una direzione e un destino, si chiama fisiognomica”. L’antitesi di natura e storia assume l’aspetto dell’antitesi tra un’immagine del mondo dominata dal quantitativo, in cui i fenomeni sono ridotti ad una connessione legale di causa e di effetto meccanicamente eguale in ogni punto dello spazio, e un’immagine del mondo dominata dal “qualitativo”, in cui ogni fenomeno è considerato nella sua forma singolare e irripetibile, come espressione del divenire e simbolo della vita.
Tale antitesi, che non esclude una subordinazione del primo al secondo termine – poiché l’immagine storica del mondo precede l’immagine naturale come il divenire è all’origine del divenuto, ed entrambe poi sorgono e si sviluppano storicamente, nell’ambito di una determinata civiltà e in una certa fase del suo sviluppo – rappresenta il punto di partenza della speculazione di Spengler e del suo tentativo di una “morfologia della storia universale”, che vuole porsi appunto quale delineazione di una concezione storica del mondo indipendente dalla posizione di chi la formula, anche se pur sempre storicamente condizionata. L’opera spengleriana intende infatti costituire un’immagine storica del mondo incentrata sulla “civiltà” come organismo biologico entro cui è inclusa la vita umana, mirando così a svolgere una logica organica conforme alla “struttura per così dire metafisica dell’umanità storica”, che assume a principio direttivo l’idea di “destino” e si avvale della nozione di simbolo per penetrare la vita e lo sviluppo di ogni civiltà. La risposta che egli fornisce al problema della crisi della civiltà occidentale e del suo avvenire, come l’insieme degli strumenti di cui si serve per dare questa risposta, deriva dalla morfologia della storia universale che ha il suo punto di partenza nell’antitesi tra “il mondo come natura” e “il mondo come storia”. Questa antitesi rappresenta la confluenza della problematica storicistica, e soprattutto diltheyana, nel pensiero di Spengler, poiché essa fornisce l’impostazione generale al suo tentativo. Proprio qui il suo legame di appartenenza allo storicismo tedesco contemporaneo risulta particolarmente chiaro, e intrinseco alla sua opera. Come la filosofia di Dilthey si configura dal suo inizio quale critica della ragione storica, per poi svilupparsi in uno sforzo sempre più approfondito di comprensione del mondo umano nell’orizzonte storico che gli è costitutivo, così l’opera di Spengler si rivela come un tentativo di immagine storica del mondo, e perciò di morfologia della storia universale. Entro questo quadro deve venire considerata la sua concezione della civiltà quale organismo biologico avente una propria esistenza determinata.
Il problema fondamentale di Spengler è il problema del futuro della civiltà occidentale: se lo storicismo diltheyano offre a Spengler il quadro dottrinale e l’impostazione generale della sua opera, questa trova però il suo centro ispiratore nella pressante e angosciosa domanda sul corso della storia europea (ed americana) e sul suo destino. La soluzione di questo problema implica però la necessità di chiarire “ciò che è civiltà” e il suo rapporto con la natura e con la storia, con la vita e con la realtà, cioè la necessità di determinare la fisionomia della civiltà nell’ambito della storia universale, più specificamente nell’ambito della storia dell’umanità.
Spengler inizia in serrata polemica contro la concezione unitaria dello svolgimento storico – quale sta a base, per esempio, dello schema tripartito antichità-medioevo-età moderna, che prevale in gran parte della storiografia odierna – affermando la necessità di intendere la storia dell’umanità come esplicitazione di una molteplicità di forme differenti, cioè di diverse civiltà, dotate ognuna di una propria vita e di un proprio sviluppo autonomo. Ogni civiltà viene a costituire per lui un organismo a sé stante, e dell’organismo ha i caratteri fondamentali. Ogni civiltà ha la sua nascita, la sua crescita, la sua decadenza, la sua morte, proprio come qualsiasi organismo biologico: l’appartenenza della civiltà a un tipo organico rappresenta al tempo stesso la sua determinazione ineluttabile entro una linea di sviluppo cui essa non può sottrarsi. Essa sorge quando “un’anima si stacca dallo stato primitivo dell’umanità”, e cresce restando legata al suolo in cui è sorta, per decadere e morire quando la somma delle sue possibilità si è ormai esaurita.
Dal momento che ogni civiltà è un organismo appartenente ad un medesimo tipo, e che la storia universale è la biografia totale delle diverse civiltà – poiché vi è storia in senso stretto solo dove c’è civiltà e la civiltà costituisce l’elemento essenziale della storia – lo sviluppo dell’umanità soggiace a un rigoroso determinismo biologico. Infatti il complesso di possibilità, di cui ogni civiltà dispone all’inizio del suo sviluppo, è esso stesso un complesso determinato dall’appartenenza a un certo tipo biologico: è un complesso di possibilità fin dall’inizio delimitate, che trovano la loro realizzazione necessaria in una certa fase dello sviluppo, e in quella “soltanto”, e che esaurendosi provocano la fine della civiltà. Tale complesso indica esclusivamente la fisionomia peculiare che ogni civiltà, in quanto organismo biologico a sé stante, possiede nell’ambito del proprio tipo, cioè il suo “abito” e lo stile che essa manifesta individualmente nella creazione di un proprio simbolismo eterogeneo rispetto al simbolismo delle altre.
Il complesso di possibilità, di cui ogni civiltà dispone all’inizio del suo sviluppo viene così interpretato alla luce della necessità biologica che governa la sua esistenza, e impiegato per designarne soltanto l’autonomia e la relatività, che deriva dal suo “orizzonte chiuso” ad ogni autentica forma di relazione e di comunicazione. Infatti ogni influenza che una civiltà ha ricevuto da un’altra, secondo Spengler, è stata con ciò stesso modificata radicalmente ed inserita entro un nuovo linguaggio formale e un nuovo mondo simbolico. Parimenti ogni tentativo di penetrare un’altra civiltà non può svincolarsi dall’orizzonte chiuso della civiltà propria di chi tale tentativo compie, e non riesce quindi a intenderla nella sua alterità.
In questa maniera la dottrina diltheyana dell’autocentralità delle epoche storiche è stata da Spengler sviluppata in un senso radicalmente relativistico, in quanto all’epoca storica quale fase autonoma di uno sviluppo che la comprende, e perciò legata alle altre fasi di tale sviluppo, è stata sostituita la civiltà come organismo a sé stante, che non ha al di sopra del proprio ambito nessuna connessione superiore che le consenta il rapporto con le altre civiltà. Ogni civiltà, in quanto possiede un proprio complesso di possibilità, rappresenta un mondo a sé, e possiede un proprio linguaggio formale. Essa crea il suo simbolismo, si foggia la sua immagine della natura e della storia, e dà un carattere specifico a tutte le sue manifestazioni, determinandone il “carattere storicamente relativo”.
Mediante l’opera della civiltà si instaura una nuova relazione di dipendenza tra lo spazio e il tempo, tra l’estensione e la direzione: la vita interiore, l’anima della civiltà si esprime sensibilmente in un insieme di manifestazioni che “possiede il significato di un simbolo”, cioè in un insieme di segni che rivestono carattere spaziale ma che designano tuttavia qualcosa di temporale, cioè il divenire creativo della civiltà nel suo sviluppo. Lo spazio viene così subordinato al tempo, e l’estensione alla direzione, in quanto la natura diventa una funzione della civiltà ed esprime in forma simbolica la sua anima. Ma in tal modo ogni civiltà si foggia il suo mondo formale e dà vita a un proprio “linguaggio simbolico”, che nessun’altra può intendere nel suo autentico significato, poiché finisce sempre per tradurlo nel suo, e quindi per assorbirlo in questo. Il macrocosmo, in quanto totalità dei simboli elaborati da una civiltà, varia perciò secondo la fisionomia peculiare di questa: ognuna si foggia infatti un simbolo primario e una base simbolica essenziale, esplicando in conformità tutto il suo linguaggio.
L’individuo appartenente a una certa civiltà non può pertanto intendere in maniera effettiva le manifestazioni delle altre civiltà, e il suo orizzonte di comprensione è limitato sostanzialmente dalla struttura dell’universo simbolico in cui si trova immerso. Ogni individuo, in quanto inserito in una situazione che è sua soltanto e non di qualsiasi altro individuo, ha un proprio quadro storico e pertanto “ha vissuta esperienza dell’altro e dell’altrui destino solo in rapporto a se stesso”. Ma questo quadro è esso stesso formulato nell’ambito di una certa civiltà, onde gli è possibile una comunicazione autentica e una comprensione effettiva solo nei confronti degli individui che anch’essi fanno parte della sua civiltà, ma non nei confronti degli individui e delle manifestazioni di civiltà differenti. “Come possibilità suprema l’esistenza totale di una civiltà possiede un’immagine simbolica fondamentale del suo mondo come storia”: questa immagine, questo simbolo primario e fondamentale, è a base dell’orizzonte storico di ogni individuo che fa parte di questa civiltà, rendendo possibili comunicazione e comprensione entro il suo ambito, e impedendole invece verso le altre civiltà e le loro manifestazioni.