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Gli Usa rischiano una crisi irreversibile

di Michele Marsonet.

Tutti rammentano benissimo il sollievo degli ambienti progressisti, tanto in America quanto in Europa, quando Donald Trump terminò il suo mandato (pur tra contestazioni e accuse di brogli elettorali). Finiva così in soffitta lo slogan “America first” adottato dal tycoon newyorkese, assieme al suo unilateralismo.
Allo stesso tempo gli stessi ambienti salutarono con gioia l’elezione di Joe Biden, esponente di prestigio della corrente centrista del Partito democratico.
Per la verità l’entusiasmo non era proprio totale. Gli esponenti della sinistra democratica accettarono l’elezione quasi “obtorto collo”, giudicando Biden troppo moderato per i loro standard.
E, al fondo, tutti erano preoccupati per l’età del nuovo presidente, giudicandola troppo avanzata per il compito che Biden si accingeva a svolgere. Un presidente Usa dev’essere, come si usa dire, “sempre sul pezzo” perché è spesso chiamato a risolvere crisi e, soprattutto, a prendere decisioni rapide.
Poi Biden aveva goduto della “luna di miele” che l’elettorato sempre accorda al presidente appena giunto alla Casa Bianca. Impressionava favorevolmente, per esempio, la lotta decisa della pandemia dopo le tante incertezze trumpiane.
E piaceva pure il grande programma di investimenti pubblici che rammenta da vicino il “New Deal” di Franklin D. Roosevelt negli anni ’30 del secolo scorso. Per quanto concerne la politica estera, era da tanti gradito il nuovo slogan di Biden “America is back”, premessa di un ritorno al multilateralismo assai gradito agli alleati, e in primis agli europei.
Nello spazio di pochi giorni il disastro afghano ha fatto crollare l’intero edificio, comportando anche un crollo repentino del presidente democratico nei sondaggi (e si sa quanto essi contino negli Stati Uniti).
Il ritiro dall’Afghanistan, già annunciato da Trump – ponendo però precise condizioni ai talebani – si è trasformato ora in una vera e propria fuga che è ancora in corso e il cui esito finale è tuttora incerto.
Biden si è comportato in modo incomprensibile per parecchi motivi. Non ha avvertito gli alleati sul campo che il ritiro sarebbe avvenuto in tempi così rapidi, e ha per di più abbandonato alcune basi militari essenziali per garantire un ritiro ordinato.

Ha ignorato gli avvertimenti provenienti da Pentagono e Cia che lo invitavano a riflettere sull’imminente collasso dell’esercito regolare, armato e finanziato dagli Usa. A suo avviso ciò non era possibile, e quando ha capito che militari e intelligence avevano ragione, i talebani erano ormai alle porte di Kabul.
In seguito ha pronunciato un paio di discorsi in tv cercando di spiegare le sue ragioni ma, com’era prevedibile, la sua confusione ha esacerbato ancor più l’opinione pubblica Usa. Non è tanto il ritiro in sé ad essere contestato, quanto il modo caotico in cui sta avvenendo.
Ha persino detto, il presidente, di non sapere quanti siano effettivamente i cittadini Usa (o comunque dotati di Carta Verde per l’espatrio) ancora in attesa di essere evacuati, e pare quasi impossibile crederlo. Ecco quindi gli aspri attacchi dei grandi giornali che prima gli erano favorevoli, “New York Times” e “Washington Post” in testa.
Quasi non bastasse, ha sostenuto che gli alleati non hanno affatto perso fiducia nell’America. E invece le critiche sono piovute a valanga anche dalle capitali più fedeli come Londra, mentre lo stesso segretario generale della Nato – cosa mai vista in precedenza – ha criticato Washington per la fuga affrettata e caotica.
Tutto questo è cronaca, purtroppo ancora in corso. Il quesito fondamentale, tuttavia, riguarda il futuro ruolo degli Usa nello scenario internazionale. Pare difficile che riescano a superare una simile debacle in tempi brevi. E altrettanto difficile sarà, per Biden, riproporre dopo quanto è accaduto l’atlantismo come collante delle democrazie occidentali.
Siamo in attesa di vedere se qualcuno riempirà il vuoto lasciato dagli Stati Uniti. Molti parlano della Cina come probabile sostituto. Ma, anche in questo caso, pur dando per scontato il grande pragmatismo (e cinismo) cinese, si deve capire come farà Pechino ad appoggiare l’emirato talebano mentre opprime brutalmente i musulmani che vivono entro i suoi confini.
Siamo probabilmente di fronte a una svolta epocale, con un equilibrio mondiale destinato a mutare in modo consistente. Ammesso che l’equilibrio si trovi, e che le forze che puntano a destabilizzare il pianeta non finiscano col prevalere.