L’ennesimo Nobel per la pace anomalo

di Michele Marsonet.
Sino a che punto si può prendere sul serio l’annuale assegnazione del Premio Nobel per la pace? Direi ben poco, anche se per questo rischio l’accusa di cinismo.
L’ultimo esempio è il premier etiope Abiy Ahmed, al quale il suddetto Premio fu assegnato due anni orsono. Le motivazioni in effetti erano, allora, serie. Giunto al potere, infatti, liberò la maggior parte dei prigionieri politici detenuti nelle carceri del suo Paese.
E, fatto ancora più importante, firmò il trattato di pace con l’Eritrea, che con l’Etiopia era in stato di guerra da anni per questioni di confine e di sbocco al mare. Appena insediato, inoltre, ha promosso riforme economiche destinate a migliorare le condizioni di vita della popolazione. L’unico problema è che tali riforme sono per lo più rimaste sulla carta.
Alla guida della seconda maggiore nazione dell’Africa, Abiy Ahmed sembrava destinato a diventare leader di un rinnovato sviluppo del Continente Nero, capace di mediare anche nei tanti conflitti in cui sono impegnate le giovani nazioni africane.
Tuttavia la maledizione che incombe sui Nobel per la pace ha ben presto coinvolto anche lui. Una rivolta militare nell’importante regione settentrionale del Tigrè lo ha infatti indotto a inviare in loco l’esercito federale.
Si sono verificati massacri di civili inermi e gli osservatori internazionali parlano di una situazione ormai fuori controllo, anche perché i ribelli dispongono di armamenti in grado di tenere in scacco le truppe di Addis Abeba.
La mancanza di comunicazioni efficienti rende difficoltosa un’analisi oggettiva dei fatti, ma è chiaro che l’intervento dell’esercito non ha certo avuto effetti di pacificazione, né sembra che il premier etiope sia intenzionato a compiere mediazioni.
Giunto quasi alla scadenza del suo mandato, Abiy Ahmed ha inoltre rinviato le elezioni, e molti sospettano che lo abbia fatto per mantenere il potere oltre i limiti che la legge gli consente. Potrebbe quindi trovarsi nella scomoda posizione di dover gestire una lunga guerra civile.
Per un neonominato al Nobel per la pace non è davvero poco, ma occorre notare che il suo non è certo un caso isolato. Naturalmente un riconoscimento siffatto è sempre soggetto a un alto grado di opinabilità. Ne consegue che ogni anno la giuria ha grossi problemi quando si tratta di scegliere tra una rosa di nomi assai ampia. Ovvio che le polemiche a posteriori ci sono sempre. Anche se, superando il tabù della correttezza politica, si ha la sensazione che il riconoscimento in fondo non incida più di tanto.
La storia del Premio è lì a dimostrare che tali considerazioni non sono affatto campate per aria. A seconda dei punti di vista e, soprattutto, delle preferenze politiche, gli “scandali” sono stati numerosi. Bastano e avanzano pochi esempi, e mi limito a quelli recenti.
Nel 1973 toccò a Henry Kissinger (pur in coppia con il nordvietnamita Le Duc Tho), e tanti non hanno mai digerito il riconoscimento al Segretario di Stato di Richard Nixon. Nel 1991 a essere premiata fu Aung San Suu Kyi per la sua lotta contro la dittatura militare in Myanmar. Tutti erano d’accordo, salvo poi accorgersi che la leader birmana aveva in mente un concetto di democrazia diverso da quello occidentale. Non si è opposta con efficacia, inoltre, alla persecuzione della minoranza musulmana dei Rohingya.
Meglio tacere su Yasser Arafat, insignito nel 1994. Per finire con Barack Obama, premiato poco dopo il suo ingresso alla Casa Bianca quando non si sapeva come si sarebbe comportato. Molti ancora si chiedono perché mai la giuria prese quella decisione, e ne fu egli stesso sorpreso.
Ora quadro etiopico è tutt’altro che roseo. I ribelli del Tigré hanno infatti scatenato una forte offensiva riconquistando Macallè, la capitale della regione in rivolta. Ahmed ha proclamato un cessate il fuoco unilaterale ma, visti i massacri compiuti in precedenza dall’esercito governativo, i suoi avversari non sembrano per nulla disposti a scendere a patti: vogliono uno sgombero totale.
Ahmed si è inoltre posto in rotta di collisione con Egitto e Sudan. Ha deciso di riempire nei prossimi giorni il bacino della diga etiope Gerd situata sul Nilo Azzurro. Con questo toglierà acqua preziosa a egiziani e sudanesi, che stanno già cercando di accerchiare l’Etiopia stringendo un’alleanza militare con Uganda, Burundi, Kenya e Rwanda.
Infine la stampa – e i media in generale – avevano goduto all’inizio del mandato di Ahmed di una relativa libertà. Ora viene di nuovo repressa con durezza e più di venti giornalisti sono stati arrestati. L’Etiopia, insomma, è di nuovo diventata una “grande prigione per giornalisti”. Non male per un uomo che ha ricevuto un riconoscimento così prestigioso.
La conclusione è che il Nobel per la pace, se continuerà ad essere assegnato con tali modalità, non è per niente una cosa seria. E’ diventato, invece, un evento puramente mediatico, destinato a riempire di “fake news” quotidiani e rotocalchi.