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La longa manus di Pechino sulle isole Samoa

di Michele Marsonet.

Ennesimo capitolo della “strategia del debito” che la Repubblica Popolare Cinese utilizza in tutto il mondo per legare a sé nazioni che hanno difficoltà economiche. Questa volta si tratta del piccolo arcipelago delle Samoa nel Pacifico meridionale.
Tipico paradiso turistico polinesiano, le isole si trovano più o meno a metà strada tra le Hawaii e la Nuova Zelanda, Paese da cui hanno ottenuto l’indipendenza nel 1962.
Si noti inoltre che sono molto vicine al quasi omonimo arcipelago delle Samoa americane, appartenenti agli Stati Uniti pur non essendo incorporate nel territorio Usa.
Lo Stato indipendente di Samoa possiede quindi un grande valore strategico considerata la sua contiguità alle isole statunitensi. Dunque terreno di scontro privilegiato nella contesa che vede impegnati Cina e Usa per il controllo delle acque del Pacifico.
Essendo una monarchia costituzionale, il potere di governo viene esercitato dal primo ministro eletto a suffragio universale. Quello attuale, che è il secondo più longevo al mondo, è il 76enne Tuilaepa Aiono Sailele Malielegaoi, in carica dal lontano 1998.
Ha tuttavia perduto – senza riconoscerlo ufficialmente – le ultime elezioni, anche se di misura. Il nuovo premier è (o almeno dovrebbe essere) una donna, la 64enne Fiame Naomi Mata’afa.
Il premier uscente ha tuttavia fatto occupare il Parlamento del piccolo Stato, costringendo Mata’afa a prestare giuramento sotto un tendone esterno. Nel frattempo il vecchio primo ministro sta conducendo una battaglia legale per invalidare i risultati elettorali, ma senza successo.
Posta in questi termini la vicenda potrebbe anche far sorridere, tanto per i nomi esotici quanto perché, come detto in precedenza, stiamo parlando delle tipiche isole da sogno del Pacifico meridionale.
E invece la questione è seria. Già nell’ultimo conflitto mondiale i giapponesi capirono il valore strategico delle isole, pur non riuscendo a conquistarle.

Tale valore in seguito è ulteriormente cresciuto a causa degli intensi traffici marittimi presenti in quei mari, e per l’ovvia possibilità di sfruttare dal punto di vista militare la loro posizione.
Ad essere preoccupati sono soprattutto gli americani, a causa della politica filo-cinese praticata negli ultimi anni dal vecchio premier ora sconfitto nelle urne.
La battaglia elettorale ha avuto quale tema principale il faraonico progetto (128 milioni di dollari) di un nuovo porto che Pechino si è offerta di finanziare e di costruire. La nuova premier si è impegnata a cancellare il progetto, giudicandolo inadatto per uno Stato di soli 400.000 abitanti.
Tra l’altro le Samoa sono già fortemente indebitare con la Cina, ed esiste il fondato timore che non sarà possibile restituire la grande somma necessaria per la costruzione del nuovo porto.
Naturalmente Fiame Naomi Mata’afa sostiene di voler mantenere buoni rapporti con la Repubblica Popolare, ma si prevede già una svolta filo-occidentale nella sua politica estera.
Com’era lecito attendersi, questi nuovi sviluppi hanno causato grande soddisfazione negli Stati Uniti, che cercano in ogni modo di contrastare l’espansionismo cinese nel Pacifico.
E i buoni argomenti, in effetti, non mancano. Molti Paesi hanno ormai capito che i finanziamenti di Pechino possono risultare pericolosi. Se infatti scatta la “trappola del debito”, l’unica via d’uscita è la cessione ai cinesi di parte della sovranità nazionale e di asset fondamentali quali porti e infrastrutture.