La Cina considera Hong Kong un caso chiuso

di Michele Marsonet.
Il sipario sta calando in modo definitivo sulla rivolta di Hong Kong. Come si rammenterà, il 6 settembre dell’anno in corso si dovevano tenere le elezioni nella ex colonia britannica ma, con la scusa della pandemia, la governatrice filo-cinese Carrie Lam le ha rinviate addirittura di un anno.
Se tutto va bene, quindi, i cittadini di Hong Kong potranno recarsi alle urne solo nel settembre del 2021. Evidente la paura di Pechino che si ripetesse il clamoroso successo delle forze democratiche, che nel corso dell’ultima tornata elettorale avevano conquistato la maggioranza assoluta dei seggi a dispetto delle intimidazioni poste in atto dalle autorità.
Eppure gli abitanti non si danno ancora per vinti. Ieri sono scesi in piazza per l’ennesima volta sfidando tutti i divieti. Risultato: 300 arresti in poche ore e cariche a non finire della polizia.
Mette conto ricordare che, in base alla nuova legge sulla sicurezza imposta dal Partito Comunista, si può essere arrestati anche solo per aver pronunciato slogan anti-cinesi o cantato inni in favore della democrazia e della libertà.
Con questo il compito dei poliziotti diventa molto facile. Caricano e spruzzano spray al peperoncino senza tanti complimenti, solamente perché le persone urlano slogan e cantano inni non graditi al governo.
Si tratta di un completo stravolgimento della situazione precedente. Prima, in base al principio “un governo, due sistemi” ideato da Deng Xiaoping quando l’ex colonia tornò sotto la sovranità della Repubblica Popolare, i cittadini potevano manifestare liberamente il loro pensiero.
In teoria l’accordo era valido fino al 2047, ma con l’avvento al potere di Xi Jinping e del suo gruppo dirigente le maglie sono ben presto diventate strettissime, e nessuna manifestazione di dissenso, anche minimo, viene tollerata.
I 300 arresti di ieri lo confermano ancora una volta. I cittadini di Hong Kong devono rassegnarsi a vivere in uno degli Stati più autoritari e repressivi del mondo. E, contemporaneamente, devono dimenticare la “Common Law” e lo stato di diritto garantiti per decenni dal governo britannico.
Che il fuoco continui a covare sotto le ceneri è più che mai evidente. L’arresto può anche comportare la deportazione nelle carceri della Cina continentale. Tuttavia, nonostante il pericolo assai reale, molti degli abitanti continuano a manifestare.
L’intento è far capire al mondo che la Repubblica Popolare sta conculcando diritti che in Occidente vengono considerati scontati. Nemmeno la sostanziale indifferenza dell’opinione pubblica internazionale riesce a frenare l’anelito alla libertà.
Nel frattempo continua la caccia ai leader – quasi tutti giovanissimi – del dissenso. Solo pochi di essi hanno scelto di rifugiarsi all’estero, e in particolare nel Regno Unito. Gli altri preferiscono continuare la lotta che, tuttavia, sta diventando sempre più clandestina.
Una volta a Hong Kong erano presenti i social network occidentali come Facebook, sui quali venivano postati appelli e manifesti. Anche questo ora sta finendo. Pechino esercita infatti un controllo capillare su Internet, autorizzando solo la presenza dei network in linea con le direttive del governo.
In ogni caso è chiaro che Pechino, approfittando anche della scarsa reazione internazionale, considera la vicenda di Hong Kong un caso chiuso. La città verrà totalmente assimilata alla Repubblica Popolare, dove vige uno strano miscuglio di marxismo e neoconfucianesimo adottato come filosofia ufficiale dello Stato.