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Hong Kong sempre più “normalizzata”

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di Michele Marsonet.

La Repubblica Popolare Cinese sta procedendo con pazienza, ma a passi spediti, verso la completa “normalizzazione” di Hong Kong. Incurante delle proteste internazionali – peraltro poco efficaci – Pechino mantiene il progetto di trasformare in tempi brevi la ex colonia britannica in una città cinese come tutte le altre, cancellando di fatto ogni traccia dello stato di diritto che era il lascito del governo inglese nella città-isola.
La governatrice Carrie Lam, longa manus di Pechino e per questo molto impopolare in loco, ha approfittato della pandemia, che anche qui sta colpendo duro, per annunciare che saranno rinviate le elezioni locali, già previste per il 6 settembre.
Rinviate, si badi bene, non per qualche settimana o pochi mesi, ma addirittura di un anno. Ciò significa che, se non ci saranno ulteriori ripensamenti da parte di Xi Jinping e del suo gruppo dirigente, i cittadini di Hong Kong potranno votare per eleggere i propri rappresentanti soltanto nel settembre del 2021.
Si tratta di una mossa audace e che non ha mancato di sorprendere gli osservatori internazionali. E molti hanno notato che in altri Paesi asiatici – per esempio Singapore e Corea del Sud – le elezioni si sono svolte regolarmente, pur in presenza della pandemia, adottando tutte le necessarie precauzioni.
A questo punto è chiaro che il Partito Comunista Cinese è disposto a tutto pur di stroncare ogni velleità autonomista nella città-isola. A Pechino aveva destato molta irritazione il trionfo delle forze democratiche nelle elezioni precedenti.
Infatti, nonostante minacce e intimidazioni, tali forze avevano conquistato una larga maggioranza nel parlamento locale sconfiggendo nettamente i filo-cinesi capeggiati da Carrie Lam.
Xi non vuole che la cosa si ripeta, evento pressoché certo se le elezioni fossero davvero libere. Il coronavirus diventa quindi uno strumento che Pechino intende sfruttare per ottenere la totale sottomissione della città, premessa per la sua normalizzazione (o “armonizzazione”, per usare il termine confuciano assai caro al governo centrale).
A fronte di quest’ansia di dominio assoluto, i giovani leader della rivolta si comportano in modo diverso. Alcuni hanno chiesto, e ottenuto, asilo politico nel Regno Unito sfruttando l’opzione loro offerta da Boris Johnson.
Altri si sono rifugiati a Taiwan, l’isola che resta indipendente pur rientrando nelle mire espansionistiche della Repubblica Popolare, e che fronteggia la minaccia costante dell’invasione cinese aiutata dal supporto degli Stati Uniti e di altre nazioni occidentali.
Ma non mancano gli oppositori che hanno deciso, a loro rischio e pericolo, di restare nella città proseguendo la battaglia dall’interno. Una battaglia che diventa sempre più difficile poiché Pechino ha assunto il controllo totale di giornali, tv e social network.
La Repubblica Popolare aggiunge insomma tassello dopo tassello alla sua operazione di strangolamento autoritario della città, anche se voci di dissenso sono ancora presenti e mentre le manifestazioni non sono affatto scomparse, a dispetto della pesante repressione della polizia.
Xi Jinping attende l’esito delle elezioni americane, giacché Donald Trump è stato tra i più solleciti ad appoggiare le istanze di Hong Kong. Forse spera nell’avvento di un presidente Usa più “morbido” e disposto ad accettare il fatto compiuto.
Nel frattempo la promessa di mantenere viva la formula “un Paese, due sistemi” fino al 2047, firmata ufficialmente con i britannici nel 1997, è stata del tutto disattesa e sostituita da “un Paese, un sistema”, slogan molto più consono agli interessi di Pechino.