Perché Visegrad non è un blocco compatto?
di Michele Marsonet.
Ha destato curiosità – e anche un po’ di preoccupazione – la notizia che truppe polacche hanno “invaso” la Repubblica Ceca lo scorso 14 giugno. In realtà si è trattato di un’invasione da operetta. Varsavia ha affermato che i suoi soldati, affiancati da reparti paramilitari vicini al presidente in scadenza Andrzej Duda, hanno varcato il confine senza saperlo, attestandosi nel piccolo villaggio di Pelhrimovy situato nella parte orientale della Cechia.
L’incidente non può ovviamente essere considerato serio, ma il governo di Praga ha espresso una certa irritazione per il fatto che il Paese vicino si è sì scusato, ma non sul piano ufficiale. Tra l’altro pare che i militari polacchi abbiano trattato con durezza giornalisti e cittadini cechi accorsi sul posto per verificare quanto stava accadendo e chiedere informazioni.
Come si è detto poc’anzi, non occorre attribuire all’incidente eccessiva importanza, e naturalmente i militari polacchi si sono ritirati in gran fretta una volta compreso l’errore. Resta però il fatto che, a Praga, molti hanno pensato che non di errore si trattasse, bensì di una provocazione deliberata (pur se è difficile comprenderne i motivi).
Anche episodi minori come questo fanno però riflettere. Noi siamo abituati a pensare che il cosiddetto “Gruppo di Visegrad”, composto da Ungheria, Polonia, Repubblica Ceca e Slovacchia, sia un blocco compatto e molto unito. Secondo tale visione esso rappresenta un punto di riferimento per tutti i nazionalisti e sovranisti europei, inclusi gli italiani.
In realtà il gruppo è nato proprio con questi intenti, proponendo un’alleanza economica, culturale e militare in grado di attrarre nella sua orbita altre nazioni del Vecchio Continente. I quattro membri fondatori fanno infatti parte dell’Unione Europea, dove assumono spesso posizioni discordanti da quelle di Bruxelles su molti temi. Sono per esempio nettamente contrari a qualsiasi forma di immigrazione, e insistono sulla gelosa salvaguardia delle identità nazionali rifiutando il globalismo.
Tuttavia, chi ha un minimo di conoscenza della storia dell’Europa Orientale sa bene che i quattro Stati vantano, ognuno, rivendicazioni territoriali di vario tipo, che affondano per l’appunto le loro radici nella storia locale. A Budapest Victor Orbàn nomina spesso la “grande Ungheria”, rammentando i tempi in cui la nazione aveva un’estensione territoriale molto più vasta di quella odierna. Né perde occasione di invocare il ritorno alla patria non solo dei territori perduti, ma anche dei numerosi gruppi di magiari rimasti dispersi nei Paesi vicini dopo la fine del secondo conflitto mondiale.
Stessa situazione in Polonia, che nel 1945 ha subito uno stravolgimento dei confini. A Est ha perduto vasti territori a favore della ex Unione Sovietica, poi inclusi in Ucraina e Bielorussia dopo il crollo dell’Urss, acquisendo al contempo spazi a Ovest ai danni della Germania. Tipico il caso di Breslavia, città germanica (Breslau) poi passata alla Polonia con il nome di Wroclaw. Cechia e Slovacchia si sono separate consensualmente ma, anche in quel caso, le rivendicazioni non mancano.
Ciò che in verità accomuna il Blocco di Visegrad è l’acceso nazionalismo di ciascuno dei suoi membri, accompagnato purtroppo da un antisemitismo che in questa parte dell’Europa è sempre stato vivo. E lo accomuna pure l’ostilità per alcune politiche di Bruxelles, nonostante le quattro nazioni continuino ad approfittare dei fondi Ue che arrivano copiosi, in particolare in Polonia.
Sarebbe comunque un errore – che spesso commettono anche alcuni politici italiani – considerare Visegrad un’entità coesa e compatta. Non lo è e non potrà mai esserlo per le motivazioni storiche già citate in precedenza. Budapest, Praga, Varsavia e Bratislava badano in primo luogo ai propri interessi nazionali, attente a coordinarsi solo quando si tratta di resistere alle richieste e di rifiutare le critiche provenienti dall’Unione Europea.