Hong Kong e il virus della democrazia
di Michele Marsonet.
Nemmeno il coronavirus è riuscito a fermare la protesta dei cittadini di Hong Kong a favore della democrazia. Pur osservando le regole del distanziamento sociale, molti abitanti della città-isola hanno continuato a manifestare contro i progetti di assimilazione totale alla Repubblica Popolare e contro la politica filo-cinese della governatrice Carrie Lam, accusata di essere soltanto il portavoce di Pechino.
Il rallentamento della diffusione del virus ha spinto ancora una volta tanti manifestanti a invadere strade e piazze. Nella sola giornata di domenica 10 maggio, la polizia in tenuta antisommossa ha arrestato 230 persone in vari distretti della città, utilizzando manganelli e i soliti spray urticanti. Hanno subito attacchi anche i giornalisti che seguivano le manifestazioni.
Gli scontri sono stati aspri come quelli dell’anno passato e, mentre gli agenti usavano ogni mezzo per intimorire i dimostranti, quest’ultimi hanno tenuto riunioni improvvisate nei centri commerciali tentando di incendiare i cassonetti della spazzatura.
La speranza della leadership cinese che la pandemia ponesse finalmente termine alla protesta si è subito infranta contro la resistenza di una popolazione che rivendica orgogliosamente la propria autonomia. I cittadini di Hong Kong non vogliono affatto essere “armonizzati” adeguandosi agli standard della politica cinese.
Non desiderano vivere in una nazione dove non esiste libertà di parola e di stampa, e nella quale lo Stato di diritto è assente. Rivendicano inoltre la possibilità di eleggere liberamente i propri rappresentanti, rigettando al contempo l’autorità di un Partito comunista che in Cina controlla tutto, dai mass media alle istituzioni.
Sperano, gli abitanti di Hong Kong, che la pandemia originata a Wuhan indebolisca il regime, inducendo anche i cittadini cinesi a ribellarsi a un Partito giunto al potere nel lontano 1949, senza mai rinunciare alla dottrina del “partito unico” e senza mai concedere una libera competizione tra formazioni politiche diverse.
La rinnovata repressione non induce ad essere ottimisti al riguardo. Di certo la pandemia sta causando a Xi Jinping e al suo gruppo dirigente enormi problemi, che vengono nascosti da una censura che penetra ovunque e non lascia filtrare notizie provenienti dall’estero.
Eppure una certa inquietudine è percepibile. A dispetto di quanto afferma la propaganda del regime, neanche in Cina il virus è stato sconfitto. Nuovi focolai si sono manifestati in varie aree del Paese, inclusa la regione dell’Hubei dove il coronavirus si è manifestato per la prima volta. Dal punto di vista del governo e del Partito tutto questo è pericoloso, poiché minaccia di revocare in dubbio la sicurezza sociale con cui Pechino ha finora inteso barattare la mancanza di libertà.
Carrie Lam ha nel frattempo promesso di riformare il sistema scolastico rinunciando (almeno in parte) a imporre nelle scuole e negli atenei della città l’insegnamento obbligatorio del marxismo-leninismo, come già avviene in Cina. Il proposito sarebbe quello di istituire dei corsi di cultura generale destinati a favorire lo “spirito critico” degli studenti.
Il problema è che i cittadini non si fidano affatto di simili promesse, che sono già state disattese nel passato recente. Il grande successo riportato dai partiti autonomisti nelle ultime elezioni di Hong Kong ha ancor più rafforzato la volontà di resistenza dei cittadini, disposti a sfidare anche la pandemia pur di non essere assimilati a uno Stato autoritario. Il “virus della democrazia” sembra dunque più forte del virus di Wuhan.