Che fine farà il progetto cinese della “Via della seta”?
di Michele Marsonet.
Tra le molte conseguenze dell’attuale pandemia si possono anche citare i dubbi circa il destino del mastodontico progetto della “Nuova via della seta” (Belt and Road Initiative), promosso da Xi Jinping per proiettare la Cina al centro del commercio mondiale.
Attraverso una fitta rete di accordi bilaterali con numerosi Paesi asiatici, sudamericani e africani, Pechino ha stanziato cifre enormi per costruire in questi Paesi infrastrutture e impianti industriali. Si parla di prestiti per 500 miliardi di dollari a tassi molto favorevoli, ma tale cifra avrebbe dovuto essere ben maggiore alla fine del progetto. Non si tratta però di prestiti a fondo perduto, essi devono essere restituiti entro un certo lasso di tempo e pagando gli interessi, per quanto bassi, fissati dal governo cinese.
Ancor prima dello scoppio della pandemia di coronavirus, tuttavia, parecchie nazioni – come Pakistan e Nigeria – avevano già capito che, viste le loro pessime condizioni economiche, non sarebbero state in grado di restituire i prestiti. A questo punto i cinesi hanno reagito assumendo il controllo di infrastrutture strategiche nei Paesi di cui sopra.
Si parla per esempio di porti, aeroporti e autostrade. La trappola è dunque scattata come molti analisti avevano previsto. I Paesi indebitati sono costretti a cedere a Pechino il controllo di infrastrutture strategiche, aumentando così la loro dipendenza non solo economica, ma anche politica dalla Repubblica Popolare.
Si rammenterà, a questo punto, che nel mese di marzo 2019 l’Italia fu l’unico Paese del G7 e della UE a firmare un “Memorandum of understanding” con la Repubblica Popolare Cinese riguardante proprio la “Via della seta”. Si era allora ai tempi del governo giallo-verde e fu la componente grillina a spingere in tale direzione. L’impegno però sussiste anche con il governo giallo-rosso sempre grazie alle forti posizioni filo-cinesi adottate da M5S. E, ancora una volta, si manifesta l’ostilità di Stati Uniti e UE, con il timore che simili operazioni possano preludere a un cambiamento della collocazione internazionale dell’Italia.
Ora lo scenario sta rapidamente cambiando. La Repubblica Popolare, luogo d’origine della pandemia, è ancora alle prese con il virus e la dirigenza del Partito comunista ha meno tempo da dedicare alla Via della seta. Anche perché aumentano le richieste di riduzione – o addirittura di cancellazione – del debito da parte dei Paesi che hanno già ricevuto i finanziamenti.
Tuttavia la “trappola del debito” con coinvolge soltanto le nazioni insolventi, ma anche la stessa Repubblica Popolare. Le banche di Pechino, che sono tutte sotto il controllo governativo, vogliono ora la restituzione degli ingenti fondi erogati. Infatti, con l’attuale blocco dei traffici, il controllo delle infrastrutture di Paesi stranieri interessa poco.
Vengono così rinfocolate le precedenti polemiche, per quanto filtrate dal blocco della censura del partito. Pur se appare difficile crederlo, la Repubblica Popolare Cinese è ancora classificata ufficialmente come un Paese in via di sviluppo, a causa della forte discrepanza tra scintillanti metropoli quali Pechino e Shanghai e le campagne rimaste in un grande stato di arretratezza. Parecchi critici notano che il governo dovrebbe investire sullo sviluppo interno piuttosto che puntare su faraonici progetti esteri.
E su questi temi si giocherà anche il futuro politico di Xi Jinping che, al momento, non sembra avere oppositori. Tuttavia, se la pandemia avesse conseguenze più pesanti del previsto impedendo una ripresa economica immediata, anche il destino della “Via della seta” diventerebbe più incerto.