Il Mini Tuesday conferma Biden
di Michele Marsonet.
Martedì 10 marzo, il “Mini Tuesday” nel gergo politico americano, ha confermato in pieno i risultati, piuttosto sorprendenti, del più celebre “Super Tuesday” di martedì 3 marzo. Il 77nne Joe Biden, già vice-presidente degli Stati Uniti durante i due mandati di Barack Obama, ha vinto anche questa contesa ipotecando seriamente la “nomination” del partito democratico.
L’esito era in fondo atteso, ma Biden ha dimostrato di avere il fiato lungo e, soprattutto, di non temere più rivali all’interno del suo stesso partito. Preziosa la vittoria nel Michigan, grande Stato industriale dove in passato aveva trionfato Bernie Sanders sconfiggendo Hillary Clinton, che poi ottenne la nomination e sfidò Donald Trump.
Oltre al Michigan, Biden ha vinto anche in Missouri, Mississippi e Idaho, lasciando a Bernie Sanders soltanto i meno importanti Washington e North Dakota. Con questo la candidatura di Biden si dimostra trasversale, giacché è riuscito a prevalere nel Nord, a Sud e nel Midwest.
Ovviamente la corsa non è finita. Tuttavia i 666 delegati di Sanders non sono sufficienti per la vittoria finale, mentre quelli di Biden sono ora già 826, con un distacco tale da indurre all’ottimismo l’ex vice di Obama e i suoi sostenitori.
Se si rammenta che, fino a poche settimane orsono, Sanders pareva in costante ascesa e Biden in irrimediabile declino, le ultime primarie hanno davvero rovesciato le previsioni. Ed è noto e ammesso da tutti che l’appoggio, discreto ma deciso, di Barack Obama ha avuto un peso decisivo, contribuendo tra l’altro ad assicurare al suo ex vice l’appoggio pressoché completo dell’importante comunità afroamericana.
Difficile che Bernie Sanders, il senatore del Vermont che si autodefinisce “socialista”, getti la spugna e si ritiri, come ha fatto per esempio l’altra candidata radicale Elizabeth Warren. Del resto Sanders può comunque contare su un numero consistente di delegati, tale – forse – da condizionare le scelte di Biden (qualora vincesse) e dell’intero partito.
Tuttavia l’appello di Obama a non spaventare l’elettorato democratico moderato ha sortito il suo effetto. Il timore era che il radicalismo di Sanders finisse per favorire Trump e i repubblicani, inducendo per l’appunto i democratici moderati a trasferirsi nel campo repubblicano.
Oltre che su Obama, ancora molto influente, Biden può pure contare sulle enormi risorse finanziarie e sulla macchina elettorale del “tycoon” newyorkese Michael Bloomberg, sconfitto e in pratica affondato nel Super Tuesday del 3 marzo.
Un fatto interessante da notare è che l’epidemia di coronavirus ha fatto il suo ingresso anche nelle primarie Usa. Donald Trump, almeno inizialmente, non ha dato peso al problema. Salvo poi accorgersi che importanti focolai ormai sono presenti anche negli Stati Uniti.
Nel solo Stato di New York, per esempio, è stata annullata la celebre maratona, è stato chiuso al pubblico il Palazzo di Vetro delle Nazioni Unite e il governatore Andrew Cuomo ha ipotizzato l’intervento della Guardia Nazionale.
I democratici accusano Trump di aver sottovalutato il problema, e tanto Biden quanto Sanders hanno proposto di dare maggior forza all’Obamacare, la riforma sanitaria varata dall’ex presidente per assicurare ai cittadini almeno un nucleo di servizio sanitario nazionale. Se, com’è prevedibile, il coronavirus si espanderà anche negli Usa, questo diventerà un tema cruciale della corsa alla Casa Bianca.
E’ evidente, a questo punto, che la gara finale per la presidenza vedrà in lizza l’attuale presidente e Joe Biden. L’esito non è poi così scontato come poteva sembrare sino a poco tempo fa. Biden ha dimostrato di possedere una buona capacità di aggregazione, e rappresenta per Trump un avversario certo più insidioso di Bernie Sanders.