Ancora sangue a Hong Kong
di Michele Marsonet.
Continua l’escalation della violenza a Hong Kong, anche se l’opinione pubblica internazionale sembra ora meno interessata a quanto accade nella ex colonia britannica. Dopo il ferimento di alcuni dimostranti da parte della polizia locale, un episodio molto grave si è verificato due giorni orsono.
Junius Ho, deputato al parlamento di Hong Kong e leader, con la governatrice Carrie Lam, della fazione filo-cinese, è stato accoltellato al petto da un giovane indipendentista mentre parlava a un comizio elettorale. Le immagini dell’aggressione sono impressionanti. Si vede infatti il feritore che in un primo tempo parla tranquillamente con il deputato, per poi estrarre all’improvviso il coltello da una borsa affondandolo con forza nel petto di Junius Ho.
Il governo locale e quello di Pechino hanno subito stigmatizzato la vicenda, approfittandone per sottolineare che la situazione nella città-isola rischia di sfuggire al controllo delle autorità, il che potrebbe condurre in tempi brevi al tanto temuto intervento diretto dell’Esercito Popolare di Liberazione per stroncare definitivamente le manifestazioni.
Il quadro, tuttavia, non è affatto semplice. In alcuni media occidentali sembra di assistere addirittura a un evento sportivo, con i tifosi delle opposte fazioni che si affrontano a forza di slogan.
In realtà non c’è nulla per cui o contro cui tifare, dal momento che la contrapposizione sta diventando estrema con spazi ormai ridottissimi per la mediazione.
Xi Jinping e il suo gruppo dirigente sono disposti a concedere un’autonomia parziale – del resto già esistente – purché non venga posta in dubbio la completa appartenenza della città alla Cina.
Ma ai manifestanti questo non basta affatto. Non vogliono far parte di un sistema politico e sociale in cui il Partito Comunista governa dal 1949 senza consentire alcuna alternativa. Non intendono integrarsi del tutto in una nazione dove lo stato di diritto occidentale non esiste, e nel quale non è possibile eleggere liberamente i propri rappresentanti al parlamento.
Finora sono riusciti a mantenere una parvenza di autonomia conservando le vestigia del governo britannico, che era sì un governo coloniale ma garantiva anche la libertà di parola, quella di voto in una certa misura, e la libertà d’insegnamento nelle scuole e negli atenei sottraendosi così all’obbligo dei corsi di marxismo-leninismo-maoismo inteso come filosofia ufficiale dello Stato.
Nessuna delle due parti sembra disposta a compromessi. Pechino perché non vuole che il contagio si estenda ad altre parti del territorio. I manifestanti perché non vogliono integrarsi in un sistema retto da un regime al quale si sentono completamente estranei.
Né si deve scordare che le due fazioni sono entrambe cospicue dal punto di vista numerico. I manifestanti sono tantissimi e riempiono strade e piazze. I filo-cinesi, dei quali proprio Junius Ho è uno dei leader, si vedono meno ma potrebbero anche loro bloccare la città come fanno gli altri.
Pechino per ora se ne sta alla finestra limitandosi a minacciare l’intervento diretto, ben sapendo, tuttavia, che esso danneggerebbe in modo irrimediabile la sua reputazione internazionale. I dirigenti cinesi confidano dunque sulla prevalenza a lungo termine degli elementi a loro favorevoli. E senza dubbio l’accoltellamento di Ho gioca a favore della strategia di Pechino.
Da rilevare, infine, che l’appoggio internazionale ai manifestanti è assai più nominale che concreto. Un esempio emblematico è stato fornito dal nostro ministro degli Esteri in visita a Pechino. Luigi Di Maio ha infatti detto che l’Italia non intende ingerirsi negli affari interni di altri Paesi, con ciò lasciando capire che Hong Kong è per l’appunto un “affare interno” della Repubblica Popolare.