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Una straordinaria storia vera dell’Olocausto, una storia di amore e di forza: Fritz Kleinmann, il ragazzo che seguì il padre ad Auschwitz.

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Finita la Prima Guerra Mondiale, portando sul petto una medaglia al merito, Gustav Kleinmann, un bravo maestro tappezziere, tornò in Austria ansioso di sposare Tini, la sua fidanzatina di sempre. Poco anni dopo Gustav e Tini vivevano una vita felice, e nel loro piccolo appartamento viennese si prendevano cura della giovane famigliola che cominciava a crescere, essendo ormai composta da quattro figli: Fritz, Edith, Herta e Kurt.

Nel 1938 però il clima politico cambiò bruscamente: l’Austria venne annessa alla Germania nazista e a causa delle famigerate Leggi di Norimberga, gli ebrei austriaci vennero privati della cittadinanza. Anche Fritz, il figlio maggiore dei Kleinmann, sentì presto sulla pelle gli effetti del nuovo regime, soprattutto quando fu espulso dalla scuola che frequentava con il sogno di diventare commerciante, proprio come il padre. Infine, fu il loro stesso negozio di famiglia ad essere sequestrato e chiuso. Gli avventori, pure tedeschi, che osavano comprare in negozi ebrei erano costretti a portare un cartello: “Sono un ariano ma anche un maiale, ho fatto acquisti in un negozio ebreo”.

Nonostante i tempi difficili, la famiglia Kleinmann tirava comunque avanti, sorrideva alla vita, almeno fino al settembre del 1939. Fu in una triste domenica di quel mese, infatti, che un gruppo di vicini di casa entrarono dai Kleismann: volevano Gustav, dovevano arrestarlo.

“Se non ci dite dove si trova, porteremo via Fritz, il figlio maggiore” sbraitarono gli uomini e afferrato il ragazzo se lo trascinarono dietro.

Quando Gustav tornò a casa e seppe dell’accaduto fece subito per uscire e costituirsi.

“Non andare” gli urlò la moglie, “ti arresteranno”.

“Non lascerò mai Fritz nelle loro mani” rispose l’uomo. Indifferente alle proteste e alle lacrime di Tini, Gustav uscì e si recò dai nazisti: “Sono Gustav Kleinmann” disse. “Sono qui per costituirmi. Avete preso mio figlio, liberatelo e arrestate me”.

“Vai al diavolo” gli rispose un poliziotto. “Fuori di qui!”.

Gustav non capiva: “Ci riprovo domani”, si disse. Quella notte però ci fu un altro rastrellamento. Alle due del mattino altri uomini entrarono in casa Kleinmann e mentre gettavano nel panico l’intera famiglia, si portarono via Gustav, destinato così ad iniziare la sua terribile esperienza di prigioniero nel campo di concentramento di Buchenwald.

Anche il giovane Fritz era stato assegnato ai lavori forzati in quel campo nel quale l’unica felicità era appunto rappresentata dall’essere ancora insieme, padre e figlio. La vita era dura però e le cose peggiorarono dopo un altro dei numerosi attentati falliti contro Hitler. In quell’occasione il giovane Fritz fu torturato davanti al padre che dovette assistere impotente alle pene inflitte al ragazzo. Malgrado le sue sofferenze, Fritz era preoccupato soprattutto per il vecchio genitore che nel campo si era preso la dissenteria. Non passò troppo tempo e Gustav, non più capace di lavorare, venne trasferito in un reparto per malati terminali dal quale mai nessuno era uscito vivo.

Arrivò tosto l’ottobre del 1942, e Fritz fu chiamato nell’ufficio del suo kapò:

“Abbiamo preparato una lista di ebrei da trasferire a Auschwitz” gli disse l’uomo. “C’é anche tuo padre”.

“Andrò con lui” rispose Fritz.

“Questo è impossibile: sarebbe un suicidio. Dimenticatene!”.

“Mai! Io voglio andare con mio padre, non mi importa cosa mi accadrà”.

E per una volta i nazisti lo accontentarono.

Quel ragazzo è la mia gioia più grande” scrisse in quei giorni Gustav sul suo diario. “Insieme ci facciamo forza, siamo inseparabili. Tutti ci dicono che il nostro viaggio ci porterà a morte certa, ma io e Fritz non ci lasciamo buttare giù. Mi dico sempre che un uomo può morire una sola volta”.

Appena arrivati i Kleinmann si resero subito conto dell’inferno che era la loro nuova casa, un luogo in cui la vita era appesa con un filo molto sottile ad ogni parola detta, ad ogni errore commesso, o ritenuto tale. Gustav e Fritz furono inviati a Monowitz, una sezione di Auschwitz. In quel luogo Fritz lavorava alla costruzione del campo e Gustav lavorava come tappezziere. Intorno a loro i compagni morivano, scomparivano velocemente e altrettanto velocemente venivano sostituiti. Non mancavano neppure le torture, che lo stesso Fritz subì nuovamente quando fu accusato di non voler fare i nomi di fantomatici amici partigiani.

Insieme, padre e figlio vissero una terribile odissea durata 6 anni, che si concluse nel gennaio del 1945. Fu in quel periodo che i due tentarono la fuga provando a salire su un treno diretto in Austria. Ma in quella occasione Gustav, ormai vecchio e stanco, non riuscì nel suo intento. Tuttavia, l’uomo usò tutte le forze che gli rimanevano per spingere il figlio sul treno, raccomandandogli di salvarsi. Il tentativo di fuga fallì comunque, Fritz fu arrestato e imprigionato a Mauthausen. Per tre lunghi mesi Gustav e Fritz non seppero nulla l’uno dell’altro, ma fortunatamente la fine del Reich era vicina. Il 30 aprile Hitler si suicidò e Doeniz viveva il suo ultimo maggio da gerarca nazista.

Liberato dagli americani Fritz tornò a casa per scoprire che la madre e le sorelle erano state assassinate dai tedeschi. Poco tempo dopo però a casa sarebbe tornato anche il vecchio Gustav, che, sebbene distrutto nel fisico e nell’anima, finalmente ebbe la possibilità di riabbracciare la sua “gioia più grande!”.

Rina Brundu

image (1).jpgQuesta straordinaria storia dell’Olocausto – liberamente arrangiata in italiano da me – è tratta dal libro di Jeremy Dronfield The Boy Who Followed His Father Into Auschwitz, edito da Michael Joseph nel 2019.