Sul caos nella politica estera Usa
un intervento di Michele Marsonet.
Donald Trump continua a stupire, ben oltre le previsioni più fosche. La decisione – piuttosto improvvisa – di ritirare le truppe dalla Siria e, soprattutto, dall’Afghanistan, ha destato sconcerto non soltanto negli ambienti occidentali.
A questo punto è chiaro che, per il tycoon, la politica estera Usa è una sorta di feudo personale, in cui nessuno dovrebbe permettersi di interferire, tranne i pochi (anzi, pochissimi) che concordano con lui. E costoro appartengono tutti alla sua più stretta cerchia familiare.
Ma come si è arrivati a questo punto? In realtà Trump diede già indicazioni neo-isolazioniste durante la campagna elettorale, cercando poi di attuarle fin dai primi mesi di presidenza. Aveva infatti detto che gli Stati Uniti non devono essere i “poliziotti del mondo”.
Chi conosce la storia potrebbe essere indotto a credere che, adottando una simile linea, il tycoon si collochi su una sponda isolazionista che, negli Usa, è sempre stata viva, particolarmente sul versante repubblicano dello schieramento politico.
Si rammenti quanto accadde alla vigilia del secondo conflitto mondiale. Un Presidente pur assai popolare come Franklin D. Roosevelt sudò le proverbiali sette camicie per far entrare gli Stati Uniti in guerra contro Germania, Italia e Giappone, superando la dura ostilità degli ambienti repubblicani del Congresso.
E anche in seguito la palma dell’interventismo estero è quasi sempre spettata ai democratici, a partire dalla decisione di John Kennedy di inviare truppe in Vietnam negli anni ’60 del secolo scorso. Seguire tale linea di ragionamento significa, tuttavia, attribuire alle azioni trumpiane una patente di nobiltà che invece non hanno.
In realtà l’attuale Presidente non possiede una sua linea di politica estera perché essa non si colloca al centro dei suoi interessi. E ha talvolta confessato di essere ignorante al riguardo, vantandosene pure. Gli interessano, invece, le questioni commerciali, del resto più consone al suo modi di vedere il mondo.
Si ha l’impressione che, a dispetto della slogan “America first”, egli sia un americano tutto sommato anomalo, insensibile alla divisione dei poteri e allergico al controllo parlamentare sull’operato presidenziale. Così si spiegano le parole di lode per Putin, Xi Jinping, e addirittura per Kim Jong-un (“ragazzo sveglio”).
Vorrebbe forse essere al loro posto, senza dover trattare in continuazione per imporre le sue idee e libero di decidere facendo affidamento soltanto su un gruppo ristretto di fedelissimi. Ma il sistema parlamentare e legislativo americano non lo consente. E allora ecco spiegati i licenziamenti e le dimissioni senza posa nel suo governo.
Considerato il ruolo che gli Usa svolgono tuttora nel mondo, si tratta di un atteggiamento pericoloso. Si noti che gli americani avevano chiesto, non molto tempo fa, il rafforzamento dell’impegno militare degli alleati in Siria e in Afghanistan. Le ultime decisioni trumpiane ora lasciano quegli stessi alleati – Italia inclusa – in braghe di tela.
Trump afferma (perché gli conviene) che l’Isis è stato definitivamente sconfitto, e che in Afghanistan i talebani stanno perdendo terreno. Purtroppo non è vero, e adesso si rischia il riaffacciarsi dello Stato Islamico tra Siria e Irak, nonché la vittoria talebana a spese del debole esercito nazionale afghano. E, a questo punto, gli alleati hanno il diritto di chiedersi se davvero valga la pena di continuare a impegnarsi.
E’ il prezzo che si paga a causa dell’inesistenza di una politica estera Usa ben definita, fatto che chi scrive ha già sottolineato in altri interventi. Le dimissioni di James Mattis sono soltanto l’ultimo tassello di un puzzle insolubile a causa di una politica estera che non c’è.