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Attilio Momigliano e Grazia Deledda


Attilio Momigliano e Grazia Deledda

Non mi risulta che il Momigliano e la Deledda si siano mai conosciuti di persona, anzi ne dubito, per il fatto che, quando il critico letterario insegnava nel Ginnasio di Nùoro, la scrittrice ormai risiedeva fuori Nùoro, prima a Cagliari e dopo a Roma. Però mi sembra quasi certo che il Momigliano sia venuto a conoscenza delle opere della Deledda appunto in virtù del suo soggiorno di uno o due anni a Nùoro.

Ebbene, sono del parere che, dall’insegnamento di Attilio Momigliano nel Ginnasio di Nùoro derivò un certa parte di fortuna per Grazia Deledda, per l’importante circostanza che in pratica egli risultò essere stato l’unico critico letterario che ne abbia formulato un giudizio fondamentalmente positivo e soprattutto privo di riserve. E dico di stupirmi parecchio per il fatto che i recenti critici e commentatori della Deledda, soprattutto quelli sardi, non abbiano mai fatto riferimento al giudizio che il Momigliano aveva a suo tempo formulato sull’opera della Deledda. A meno che non lo abbiano mai conosciuto… Eppure si tratta di un giudizio grandemente elogiativo: «Nessuno, dopo il Manzoni, ha arricchito e approfondito come lei, in una vera opera d’arte, il nostro senso della vita» (A. Momigliano, Storia della letteratura italiana, Milano-Messina, 1964, V edizione).

Di passaggio dico che a Firenze, quando insegnavo a Pontassieve nell’anno scolastico 1948-49, ebbi modo di ascoltare un certo numero di lezioni sulla Divina Commedia che il Momigliano teneva nella Facoltà di Lettere, immediatamente dopo il suo rientro in patria dopo l’esilio subìto dal fascismo a causa della sua appartenenza alla razza ebraica; erano lezioni molto frequentate dagli studenti, ma anche da uomini di cultura fiorentini. Io qui le ricordo, sia per il riferimento fatto alla Deledda, sia perché le ho sempre ritenute le più brillanti lezioni che io abbia mai ascoltato nella mia frequenza dell’Università.

A proposito di Grazia Deledda sono in grado di segnalare un certo fatto interessante che riguarda proprio la scrittrice. I miei genitori e i miei fratelli maggiori hanno avuto modo di conoscere e di fare amicizia con Giacinto Satta, che era un nobile e un bell’uomo, professore di francese, scrittore e soprattutto pittore, il quale aveva la casa quasi a fianco della cattedrale di Nùoro. Ebbene, io credo di avere dimostrato, nel mio libro Ulisse e Nausica in Sardegna (Nùoro 1994, cap. 15) che Grazia Deledda adolescente si era innamorata del brillante professore-pittore Giacinto Satta, dal quale probabilmente ebbe lezioni private di italiano, e come dimostra una sua poesiola intitolata «Il mio fiorellino», che termina con un verso che è molto significativo:

Nasce e cresce in un angolo del prato,

del mestissimo prato pien di gelo,

un fiorellin gentile e delicato

da le tinte dolcissime del cielo;

fratel della viola, profumato,

sorridente sul languido suo stelo,

povero fior, giacinto ti chiamiamo,

eppure sovra ogni fior, giacinto, io ti amo!

Una volta diventata adulta e famosa scrittrice, in ricordo del suo amore giovanile ella presentò il nobile professore-pittore come protagonista di uno dei suoi romanzi meglio riusciti, Canne al vento, chiamandolo col suo esatto nome «Giacinto», ma con un cognome differente, Pintor. Giacinto Satta aveva effettivamente parenti a Galtellì, sede del romanzo, ma questi si chiamavano Nieddu, imparentati coi Satta, e non Pintor, che invece intendeva significare per l’appunto «(Giacinto il) Pittore».

Che cosa io penso del valore letterario dell’opera della Deledda in generale e del Premio Nobel che le è stato assegnato? Il giudizio che mi sento di poter formulare sull’opera della Deledda è, in sintesi, il seguente:

1) In primo luogo sono anche io dell’avviso che essa abbia scritto troppo: dei suoi troppo numerosi scritti, anche io ritengo che si salvino solamente cinque o sei romanzi.

2) Anche a me non è mai piaciuta la forma linguistica italiana da lei adoperata. La sua lingua italiana è globalmente scadente e rudimentale e talvolta anche scorretta. Però per questa sua forma linguistica scadente, rudimentale e scorretta la Deledda ha avuto una notevole fortuna: i suoi romanzi colpirono immediatamente, per i suoi contenuti, i lettori stranieri, sia perché vi si narrano storie di un mondo lontano, sconosciuto e misterioso, sia perché vi si espongono usanze, costumi, credenze e miti folclorici del tutto strani (la Deledda, fatta esperta dalla riuscita del suo saggio giovanile Tradizioni popolari di Nuoro , ha avuto la furbizia di farceli entrare quasi sempre nei suoi romanzi). D’altra parte è certo ed ovvio che i traduttori sono quasi sempre individui forniti di una cultura superiore ed in virtù di questa i traduttori svedesi, tedeschi, francesi, inglesi ecc. della Deledda di fatto hanno proceduto a correggere e a migliorare grandemente la forma linguistica italiana dei suoi romanzi. Detto in altre parole, la forma linguistica svedese, tedesca, francese, inglese, ecc. delle corrispondenti traduzioni straniere ottenne l’effetto di fare sparire la pesantezza linguistica della stesura originaria italiana dei romanzi deleddiani.

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