Diario dai giorni del golpe bianco – La guida definitiva al renzismo
Almeno sulle mie qualità di critico non mi devo ricredere,
anche se nulla toglie che si possa essere un buon critico
e un gran coglione a un tempo.
Rina Brundu (dal “Diario dai giorni del golpe bianco”)
Seguo la politica italiana da oltre un quarto di secolo. Negli anni 80 andava di moda l’edonismo reaganiano, mentre il nostro paese viveva il suo secondo boom economico. Erano i giorni della Milano da bere e del Bettino Craxi della Crisi di Sigonella. Dopo gli scandali di Mani Pulite[1] sono arrivati prima il berlusconismo e venti anni più tardi il renzismo.
Il periodo del berlusconismo l’ho vissuto in Irlanda, lavorando nelle società multinazionali di hardware e di software che colonizzavano l’Europa e preparavano la rivoluzione digitale. Si trattava di anni ancora analogici, ma già Internet ci raccontava molto del mondo che cambiava anche politicamente. Non posso dire di essere mai stata pro Berlusconi, però non sono mai stata afflitta dalla sindrome dell’antiberlusconismo. Da cittadina italiana residente all’estero, ho invece avversato sin da subito il maggior danno d’immagine che arrecava all’Italia la Guerra dei vent’anni tra Silvio Berlusconi e Carlo De Benedetti. Mai avrei immaginato che il peggio dovesse ancora venire…
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Seguire la politica, sia pure solo come osservatori, critici, analisti, non significa che si riesca a scriverne. In realtà riuscire a scrivere di politica comporta il sapersi costringere a un grande salto mentale, e bisogna trovare prima di tutto il coraggio di farlo. Si tratta di un’attività o di un hobby che non è per tutti o da tutti, perché oltre a scrivere bisogna imparare a fare i nomi e i cognomi, a limitare la retorica. Poi bisogna avere il coraggio di esporsi, di costruirsi degli avversari, degli oppositori, bisogna persino avere il coraggio di farsi dei nemici.
I miei primi articoli strettamente politici sono degli inizi degli anni 2000, e raccontavano la mia visione dell’implosione dell’impero politico dell’allora Cavaliere: le lotte intestine, lo strappo di Gianfranco Fini, la cronica incapacità della politica di Silvio Berlusconi di rinascere in altra forma che non fosse quella dell’araba fenice che si nutre di ceneri miracolose, ma che restano sempre e soltanto le ceneri del signore di Arcore. Tali scritture non sono mai state continuative, tendevano a catturare il momento per poi perdersi dimenticate, di raro le rendevo pubbliche.
L’arrivo del renzismo ha coinciso con un periodo di intensa attività sul mio sito Rosebud, dedicato alla scrittura digitale e al giornalismo online (www.rinabrundu.com), e a quel punto pubblicare commenti politici più o meno impegnati era già diventata per me una attività come un’altra da esercitare nel tempo libero.
Confesso però che a fine 2013 non avevo perfettamente compreso ciò che si andava preparando per l’Italia di quei giorni, e non avevo capito che io stessa mi stavo imbarcando in una sorta di battaglia civile che avrebbe cambiato in molti modi anche me.
Quasi tre anni più tardi e centinaia di commenti e di articoli dopo, con il renzismo che ormai si può raccontare a babbo politico morto, ho deciso che è arrivato il momento del punto e a capo: di renzismo non ne voglio sapere più, non ne voglio scrivere più, se non incidentalmente. Mi sono resa conto, tuttavia, che per poter mettere questa sorta di fantasma politico nell’armadio per davvero, onde evitare che a volte ritorni a infestarmi le nottate e le giornate, dovevo esorcizzarlo in una maniera importante, convincente, plastica…
Questa raccolta di molte (non tutte) delle scritture che ho dedicato al renzismo in questi anni, nasce proprio da una tale esigenza, ma nasce anche da una più attenta rilettura dei pezzi più datati che ho fatto nell’ultimo periodo e che in qualche modo mi hanno colpito, impedendomi di distruggerli. Mi ha colpito il loro essere un vero e proprio diario politico e mediatico, cioè un racconto lineare, logico, mancante di nulla, che si spiega in sé dall’inizio alla fine (rendendo ridondante anche questa presentazione); mi ha colpito il loro essere un racconto sui generis di un importante momento della vita politica del mio paese visto da una prospettiva di osservazione molto particolare e sicuramente diversa, un racconto che ha pure una sua trama ben definita, un suo climax da ricordare e chiaramente databile dentro la dimensione temporale: il 4 dicembre 2016. Mi ha colpito, inoltre, il processo di mutamento, di crescita che, sotto diverse prospettive, mi ha riguardato mentre scrivevo: da aziendalista convinta sono partita da una posizione per nulla contraria alla nuova dottrina politica propugnata da Matteo Renzi, per poi ritrovarmi ad avversarla fortemente, fieramente, persino in una maniera decisamente azzardata per chi dichiara di avere voluto guardare a queste dinamiche con occhio critico e solo nel ruolo di osservatore distaccato. D’altro canto, la mia intransigenza intellettuale verso gli atteggiamenti spesso furbi e scaltri dei media italiani si è mantenuta sempre uguale a se stessa, non è mai venuta meno. Mi ha sorpreso anche la passione che ho riversato in questi scritti, i quali mi hanno forzatamente messo a confronto con una parte di me della cui esistenza sapevo, ma che non immaginavo potesse proporsi con tanta forza. Una forza che si è manifestata subito soprattutto nello stile scritturale digitale adottato (un esempio sono i molti costrutti hyphenated, cioè scritti con un trattino a separare due o più parole), che ho ritenuto mio dovere preservare: non renderebbe molto onore a quella lunga battaglia che ha richiesto tempo e tante energie, se lo editassi troppo per renderlo presentabile, politically-correct, per renderlo più knowledgeable, più informato[2], meditato a freddo, mentre gli stessi articoli non rappresenterebbero più il lavoro che è stato fatto in prima battuta, e che in molti luoghi del narrato si presenta arricchito di tanti momenti scritturali che a loro modo si fanno ricordare.
Da un punto di vista strettamente tecnico questo testo rientra a tutti gli effetti dentro il genere diaristico, dunque ha una estensione temporale che, per sua natura, determina una mutazione quasi inerziale dell’io che scrive. Determina un cambiamento inevitabile di prospettiva di visione su livelli multipli, sebbene in questa cronaca politica e mediatica sui-generis non sia solo il fattore temporale a spingere verso il climax finale, ma una sicura passione (in questo caso politica), che specialmente nella seconda parte del lavoro si trasforma in mera indignazione che tutto pervade e divora: divora il linguaggio, la stessa concatenazione logica del discorso, si scopre tendente alla ridondanza tematica. Tono e mood sono invece altalenanti, dipendono dall’argomento trattato, dall’umore del momento, come accade con ogni scrittura digitale. Inoltre ho voluto preservare, dove possibile, il linguaggio dei post originali. Un linguaggio che non esiterei a definire 2.0, che in molte situazioni si propone caricato di una terminologia ben lontana dal politicamente corretto, forse afflitta dalla Sindrome del populismo dal basso, o da una ossimorica riflessione sobillata dalla pancia, ma che in questo suo essere tale riesce a farsi strumento di denuncia politica. Data la natura atipica di un diario anche mediatico, che vive dunque di una scrittura di tipo giornalistico, l’io che scrive si barcamena invece tra le necessità del narratore in prima persona e una forzata spersonalizzazione, mediaticizzazione, un racconto in terza persona (laddove anche l’utilizzo del plurale maiestatis in molti luoghi è una conseguenza della costrizione tecnica). Tenuto conto degli argomenti trattati, e tenuto conto della genesi digitale del lavoro, non mi sarebbe stato possibile cambiare questa impostazione senza stravolgere completamente il progetto iniziale. La mia speranza è che l’intenzione goliardica che pervade ogni pagina scritta, spesso diventando anch’essa una sorta di arma scritturale contundente, riesca a dare ragione dei limiti estetici che impone una tale impostazione dicotomica del metodo narrativo. La goliardia è un altro tratto senza il quale queste scritture politiche non sarebbero mai potute esistere, e senza il quale io non potrei essere come persona…. Sebbene debba confessare che c’è stato un giorno, la vigilia di quell’ormai storico 4 dicembre, in cui di ridere non me la sono sentita, e mai avrei pensato che una qualsiasi questione politica nazionale avrebbe potuto coinvolgermi così tanto, cambiarmi nella persona e nelle abitudini, forse per sempre.
Anche pubblicare un libro come questo non è un passo semplice da farsi, specie perché bisogna prendersene la responsabilità sotto ogni punto di vista, se si vuole vantare prima di tutto il coraggio e la dignità delle nostre azioni, dei nostri pensieri, del rispetto della nostra memoria e soprattutto della nostra onestà intellettuale, tratti identificanti che non dovrebbero mai venire a mancare in ogni vero spirito che scrive. Domani invece sarà un altro giorno, e seppure non parlerò più di renzismo, sono sicura che continuerò a seguire la politica italiana, nella speranza di non dover scoprire negli anni di avere sottostimato troppo le possibilità della frase “il peggio doveva ancora venire”, soprattutto la sua capacità di rendersi sempre attuale nel tempo.
Rina Brundu
Dublin, 3 agosto 2017
[1] L’espressione Mani pulite indica una serie d’inchieste giudiziarie condotte negli anni novanta in Italia, che accompagnò lo scandalo di Tangentopoli. Queste inchieste rivelarono un sistema fraudolento che coinvolgeva la politica e l’imprenditoria: l’impatto mediatico e il clima di sdegno della popolazione che seguirono furono così grandi che tali inchieste ebbero come effetto quello di decretare la fine della Prima Repubblica e l’inizio della Seconda Repubblica: partiti come la DC si sciolsero mentre altri come il PDS furono fortemente ridimensionati.
[2] Ho preferito non investigare giornalisticamente e a posteriori l’attualità fatta oggetto di questi scritti, parendomi che anche eventuali misunderstanding, fraintendimenti su una qualsiasi tematica trattata (per i quali evidentemente mi scuso in anticipo), siano elemento tecnico del discorso “diaristico”, persino tratto a suo modo goliardico. In ogni caso questo lavoro non vuole essere un saggio politico, quanto piuttosto una critica dei tempi politici e mediatici, narrativamente e tecnicamente esplicitata da una summa di opinioni più o meno informate; e non racconta alcuna verità rivelata o inscardinabile.
Per chi volesse continuare a leggere un estratto da questo testo può cliccare sulla prima sottostante immagine linkata all’ebook. Del testo è disponibile anche una versione cartacea (558 pagine – cliccare sulla seconda immagine). Più avanti questo libro sarà distribuito da altri players e ci saranno molte novità che lo riguardano, novità che però per il momento ci teniamo così da non interrompere l’encomiabile sfrucugliamento di Rosebud da parte di chi di dovere, che è avvenuto e sta avvenendo in questi giorni: datevi una calmata!
(Altri estratti e altre informazioni verranno pubblicate nei prossismi giorni su questo sito)