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Saggistica: Ettore Majorana (parte quarta)

di Umberto Bartocci.  (Continua dalla terza parte)

“Un uomo solo non può nulla contro le correnti del tempo.”

(L. Boltzmann, Prefazione al II Volume sulla Teoria dei Gas)

“Il martedì e il giovedì mattina, a Villa Borghese, verso le 11.30, passa, a cavallo, una fanciulla bionda. Avrà 16-17 anni. Ne ho l’impressione di una creatura delicata e gentile, ma nello stesso tempo sicura di sé. Appartiene a un mondo diverso dal mio, al quale io non oserò mai accedere”.

Questa confessione ‘intima’, tratta da alcune pagine di diario di Ettore Majorana[1], delle quali faremo adesso largo uso, ci sembra uno dei modi migliori per aprire questa sezione, nella quale intendiamo approfondire la conoscenza personale dello scienziato. Se nel precedente capitolo abbiamo cercato di arricchire il dibattito sulla sua scomparsa, mettendo insieme alcuni particolari che dovrebbero essere sufficienti a edificare quello che abbiamo più volte chiamato uno scenario alternativo, esamineremo adesso alcuni altri aspetti riguardanti la sua personalità e le sue opinioni, scientifiche e filosofiche, perché sia possibile anche solo intuire meglio le eventuali ragioni di una decisione, che non può essere stata comunque che molto sofferta. Alla domanda perché non avrebbe accettato anche lui, come tutti gli altri, di andare a lavorare in America, si è dianzi fornita una possibile risposta generica, accennando a quelle che evidentemente erano, almeno al momento in cui si svolsero i fatti[2], le sue ‘simpatie’ politiche. Ma, conoscendo Majorana, e il di lui distacco da tutti quegli elementi che costituiscono viceversa il fondamento della realtà quotidiana per la maggior parte delle persone, non sarebbe stato naturale aspettarsi che, nonostante quanto sapeva – e che comprendeva forse, oltre alle sue conoscenze fisiche, anche un vago sentore di quello che andava bollendo in pentola in certi ambienti – se ne sarebbe rimasto semplicemente in disparte, a guardare, come tanti? O che, al limite, avrebbe abbandonato anche lui la fisica, esplicitamente e ufficialmente, come Rasetti? In questa direzione, del resto, sembrava che andassero tutte le sue azioni di quegli ultimi tempi, compreso il progetto, manifestamente più che meditato, di una propria ‘fuga’ personale. Si tratta allora di cercare di comprendere eventuali ulteriori possibili ragioni di una sorta di conflitto intellettuale e psicologico irrimediabile, di una incompatibilità morale e culturale tra modi antitetici di intendere il mondo, e il senso di condurvi l’esperienza della vita[3]. Potrebbero essere stati questi gli elementi più profondi alla radice di incomprensioni e diffidenze insuperabili, le quali, unite alla consapevolezza dell’incapacità di cedere a ‘compromessi’ da parte di Majorana (che, non va dimenticato, era stato soprannominato dai suoi colleghi “il Grande Inquisitore”[4]), avrebbero potuto ispirare anche decisioni estreme, soprattutto in momenti tanto gravi, ed emotivamente concitati.

   “Quel ch’è certo è che i nostri docenti non colgono mai l’essenziale delle questioni e infilzano un teorema dietro l’altro, senza minimamente preoccuparsi di chiarire criticamente quel che di mutante sta avvenendo nella concezione della scienza moderna. Ma se andassi a esporre queste cose all’Università, potrei solo fare, se ne avessi il coraggio, la fine di Boltzmann: suicidarmi”[5].

   Queste parole mostrano uno scienziato profondamente incapace di essere soddisfatto della sua scienza, un vero ricercatore che non resta appagato da ciò che basta agli altri suoi colleghi per essere contenti di se stessi, del proprio ruolo, del proprio lavoro. Majorana cerca di approfondire sul serio gli spesso impenetrabili misteri della natura, svolgendo attorno ad essi un’indagine che non trascura nessun particolare, neppure quelli che i fisici respingono di solito un po’ sdegnosamente con l’appellativo di “filosofici”. Al giovane talento non basta essere un ‘professore’, possedere da sempre la tranquillità economica, essere invidiabile agli occhi di tutti perché è tra i migliori, perché ‘è uno che è arrivato’. Non gli basta neppure di godere della stima indiscussa del suo ambiente, ancorché ‘a doppia faccia’, come presto vedremo, perché quello che cerca, e lo appagherebbe, è ben altro. É lo sfuggente frutto della conoscenza quello a cui aspira, e tutte le altre mete raggiungibili nel corso della vita non possono che esserne un pallido surrogato.

   “Il Grande Inquisitore è un metafisico”[6], così lo etichettano i suoi amici, non senza un pizzico di rimprovero, e di disapprovazione, che la sua acuta sensibilità non poteva certo non percepire, ed egli si sente una volta di più solo. Solo, nel suo disperato sforzo di cercare di capire, nella consapevolezza di non poter comunicare, di essere anche frainteso oltre che incompreso. Solo, nell’amara rassegnazione di dover rimanere a soffrire in un “mondo diverso” da quello degli altri, un mondo del quale gli resterà sempre precluso l’accesso. E non soltanto nel campo femminile – “Ma io stesso, siciliano e chiuso, non potrò mai trovare il modo di far capire a una ragazza del Nord come sotto i nostri modi scostanti si può nascondere una infinita tenerezza. Quasi una sollecitudine religiosa”[7] – sebbene anche in quello più esclusivo della ricerca, che costituisce lo scopo principale a cui ha deciso di sacrificare la propria esistenza. Imputa generosamente l’esistenza di un siffatto stato di cose alla sua “scarsa capacità di comunicazione. Non scarsa simpatia umana perché io alle persone che mi stanno vicine, voglio molto bene”[8], o alla sua “pusillanimità”[9], ma la sofferenza naturalmente rimane, e per trovare qualche forma di conforto può ricorrere soltanto all’esercizio solitario della lettura, in particolare del suo “amato Schopenauer”[10].

   “Sono tornato a Roma, ma non vado più affatto in via Panisperna. Trascorro le mie giornate in casa, consumando ore e ore a leggere, di tutto, e a prendere appunti”, così scrive al suo ritorno dalla Germania[11], e altrove: “Perciò scrivo qui quello che non oso dire a nessuno”[12]; tristi ammissioni di un intellettuale isolato, che si sente “straniero al [suo] tempo”[13]. Da queste ‘confessioni’, Majorana appare interessarsi alla fisica principalmente sotto l’aspetto per cui essa può essere definita filosofia naturale, cercando di comprenderne soprattutto le basi concettuali, i fondamenti, senza condividere quindi l’entusiasmo concreto delle persone che lo circondano[14]. “Intanto le scienze, specializzatissime, ritengono di non aver da preoccuparsi minimamente di tali questioni che con disprezzo dichiarano psicologiche. Né hanno da preoccuparsi di questioni logiche e di problematiche filosofiche”[15]. E ancora, “La certezza di essere completamente ignorato non mi sottrae al sentimento di sentirmi irrimediabilmente attratto verso questioni che in qualche modo sovrastano le ricerche fisiche e matematiche”[16].

   Majorana appare perfettamente consapevole del fatto che una teoria dipende tutta “dalla scelta degli assiomi che la costituiscono”[17], e di queste scelte, della loro congruenza con altre considerazioni, principi, desidererebbe discutere, mentre Fermi appare “in definitiva indifferente a tutto quello che non [riguarda] direttamente il suo perfetto lavoro di fisico-matematico”[18], ed “Emilio Segré [sic] ha un profondo sentimento del valore inalienabile della tecnicità”[19].

   Majorana è convinto che “la fisica era su una strada sbagliata”, come ricorda la sorella Maria[20], e dietro questa enunciazione generica i ‘romantici’ a tutti i costi hanno voluto vedere, come abbiamo spesso ricordato, una sorta di infausta premonizione degli orrori della seconda guerra mondiale, dell’apporto che i fisici avrebbero dato, con i loro studi sull’energia nucleare, all’elaborazione di terribili strumenti di sterminio. Dalla lettura delle pagine che stiamo esaminando, la questione appare invece del tutto diversa, e stenterà a crederci chi sia convinto, dalla martellante propaganda messa in atto a favore della “fisica moderna”, e delle sue eclatanti applicazioni in campo tecnologico, che lo stato della conoscenza in questa disciplina sia arrivato a livelli che fanno esprimere a un grande matematico, René Thom, considerazioni come questa: “I fisici in genere sono delle persone che, da una teoria concettualmente mal messa, deducono dei risultati numerici che arrivano alla settima cifra decimale, e poi verificano questa teoria intellettualmente poco soddisfacente cercando l’accordo alla settima cifra decimale con i dati sperimentali! Si ha così un orribile miscuglio tra la scorrettezza dei concetti di base ed una precisione numerica fantastica […] purtroppo pretendono di ricavare un risultato numericamente molto rigoroso da teorie che concettualmente non hanno né capo né coda[21].

   In effetti, nella pratica scientifica attuale si apprezza maggiormente la produzione di ricette efficaci per lo sviluppo della tecnologia, o la proposta di sempre più complicate variazioni, anche del tutto marginali, sulle teorie di moda, che non l’attenzione agli elementi di base su cui tutto il resto delle speculazioni si fonda, o lo sforzo dedicato alla formulazione di descrizioni sia pur parziali della ‘realtà’ che siano tra loro logicamente consistenti. Tale compito resta riservato a un’élite, intorno alla quale fioriscono edificanti leggende, e nei cui confronti la maggior parte degli altri componenti della comunità scientifica si comporta come il suddito davanti al regnante. Così, ci si accontenta comunemente di fondamenti che non si capiscono troppo bene, o dei quali non si conoscono quanto si dovrebbero le motivazioni, e si esprime illimitata fiducia nell’immagine della scienza come impresa collettiva, nella quale sempre ad ‘altri’ (che nessuno sa bene chi siano, dove siano, e come riescano a svolgere questo compito istituzionale) sono riservate le decisioni fondazionali, l’indicazione delle linee di tendenza, la demarcazione tra gli argomenti di ricerca che sono considerati interessanti in un certo momento, e quelli che non lo sono. Si va avanti così, stancamente, a ‘produrre’ conoscenza in modo meccanico (tale produzione costituisce del resto titolo essenziale per la progressione della carriera dei docenti), e ad insegnare a studenti per lo più interessati solo a superare l’esame finale con il minimo sforzo, con un atteggiamento gnoseologico che può ben farsi rientrare nel deprimente quadro generale descritto dall’espressione: epistemologia della rassegnazione[22]. I rischi di un siffatto stato di cose per tutto il mondo dell’istruzione, a partire da quella “superiore”, e poi via via più giù, a coinvolgere tutti gli altri ordini e gradi, in una sorta di reazione a catena spirituale, sono stati splendidamente delineati dal già nominato Federigo Enriques, alcune parole del quale non resistiamo alla tentazione di riproporre all’attenzione dei lettori.

   “Infine, giova enunciarlo nella forma più generale: pei valori dello spirito come per quelli materiali dell’economia, sussiste una legge di degradazione: Non si può goderne pacificamente il possesso ereditario, se non si rinnovino ricreandoli nel proprio sforzo d’intenderli e di superarli, e per ciò non esiste alcun criterio strettamente logico”[23].

   Per tornare al nostro discorso, i grandi leaders della fisica di questo secolo hanno ormai persuaso tutti (o quasi) che riuscire a prevedere di tanto in tanto con le nostre formule gli effetti quantitativi di certi fenomeni ci deve bastare. Come ammonisce l’illustre fisico Richard P. Feynman, premio Nobel 1965: “Ciò di cui adesso vi parlerò è ciò che noi insegniamo ai nostri studenti di fisica […] ma credete che ve ne parlerò in modo che voi possiate capire? No, non sarete in grado di capire […] É mio compito persuadervi a non andare via perché non capirete. Perché vedete, i miei studenti di fisica non capiscono neppure loro. E questo accade perché neppure io capisco. Nessuno capisce. […] É un problema con il quale i fisici hanno imparato a convivere. Hanno imparato a rendersi conto del fatto che la questione essenziale non è tanto se una teoria possa piacere o non piacere. Piuttosto, che una teoria dia, oppure no, delle previsioni in accordo con gli esperimenti. […] La teoria dell’Elettrodinamica Quantistica descrive la Natura come assurda dal punto di vista del senso comune. Ma va pienamente d’accordo con gli esperimenti. Così, io spero che voi possiate accettare la Natura così come Essa è – assurda”[24].

   Questo tipo di argomentazioni – che Feynman ribadisce all’inizio delle sue celebrate lezioni di Meccanica Quantistica[25], insistendo sull’assoluta impossibilità di comprendere certi fenomeni in modi conformi alla razionalità ordinaria – mostra chiaramente che si impone definitivamente nel nostro secolo una filosofia naturale (dalle radici peraltro lontane) che rinuncia a ogni tentativo di spiegazione per analogie, e scredita gli sforzi di edificare una scienza qualitativa che si accompagni a quella quantitativa. Il favore va tutto a una fisica puramente formale – nella migliore tradizione delle più attuali e vincenti concezioni sui fondamenti della matematica – per valutare le cui teorie sono sufficienti da un canto l’impeccabilità della struttura ‘logica’, dall’altro la corrispondenza delle previsioni numeriche con le osservazioni sperimentali.

   Majorana sembra già del tutto consapevole di questo stato di cose al suo tempo: “C’è nella filosofia della scienza d’oggi quasi un’immensa diffidenza della natura. Forse, direbbe Federico Nietzsche, un nuovo spirito apollineo che ha paura della verità naturale, e vuole costruire qualcosa di puro, di razionale, di immateriale, per cui il rigore logico, la dimostrazione matematica, il calcolo sublime darebbero la misura del vero. In questo modo si riduce il problema della scienza a mera costruzione ipotetico-deduttiva, la quale conduce a conclusioni necessarie e forzose sulla base di asserzioni ipotetiche ritenute sicure e incontestabili. […] Ogni biologismo, ogni psicologismo, viene considerato ignobile inquinamento delle matematiche perfezioni: di quel distaccato ‘razionale’ che è considerato, di per sé, verità perché non è mai contraddittorio con se stesso. […] Ma specialmente la scienza è progettualità: fiducia, quindi, e speranza”[26].

   “Ben raramente ho sentito Majorana apprezzare il lavoro di qualcuno; anche i più grandi fisici teorici di quell’epoca erano trattati da Majorana così: con un certo disprezzo”[27], e in effetti l’atteggiamento del “Grande Inquisitore” può apparire a prima vista ispirato da snobistica superbia, da altezzosa presunzione. Bisogna andare dietro la facciata per riuscire a rendersi conto che ci si trova invece di fronte alle manifestazioni di un malessere profondo, perché “tutto in giro, sembra che tutte le idee invece di chiarirsi stiano intorbidendosi e subentri una sorta di tristezza, di malinconia della volontà non più capace di dare unità di ragione alle scelte del possibile”[28]. Non si potrebbe descrivere meglio l’epistemologia della rassegnazione di cui si parlava prima, e deve essere stata tale consapevolezza, e l’impossibilità di condividerne il peso con qualcuno, a opprimere il suo animo di scienziato. Uno scienziato, del resto, che sapeva ragionare da sé, in modo indipendente da mode e da dogmi di scuole, e cercava di rendersi ragione di tutto in prima persona. “Mi dicono che sono troppo severo nel giudicare i nostri ‘Maestri’. Ma lo sono prima di tutto, e sempre di più lo sarò, con me stesso”[29]. Precisa conferma di questo atteggiamento ipercritico, e di richiamo all’autonomia del pensiero, la ritroviamo in una lettera (già citata nel Capitolo II) all’amico Gentile, del 21.11.37, scritta ai tempi del famoso concorso: “Ho visto il lavoro di Racah, ma solo nelle bozze. Nella seconda parte vi è qualcosa di reale: cioè l’effettiva applicazione alla teoria b e le critiche che mi rivolge. La prima parte non è originale e anche come matematica è traballante: Racah non sa, o non crede, che gli spinori hanno due valori e ne trascura le conseguenze. Cose che succedono sempre quando si impara da altri (Pauli) piuttosto che da se stessi”[30].

   Per quanto riguarda il giudizio nei propri confronti, non è da meno: “Ho deciso di distruggere i capitoli del libro sulla Teoria dei Gruppi [..] Penso infatti che avrò a soccombere molto prima di aver portato a un sufficiente livello di completezza un’opera che è superiore alle mie forze fisiche, e non ho voglia di lasciare frammenti e note sparse…”[31].

   Majorana appare isolato con la sua sete di sapere, con i suoi bisogni epistemologici, e pur conoscendo bene il valore, e la necessità, della “speranza”, anche in campo scientifico, sembra non poterne nutrire alcuna per se stesso, e l’ambiente in cui vive. Le seguenti parole, che spiegano anche la sua ritrosia a ‘pubblicare’, appaiono significative: “Per ora io non vedo neppure la possibilità di redigere un protocollo in cui queste idee possano essere organizzate ed esposte coerentemente. Ci vorrebbe una volontà collettiva comune alla quale per ora non c’è neppure da pensarci. E le cose andranno sempre peggio. Del resto sono certo che anche i lavori che sto ora pubblicando rimarranno praticamente sconosciuti. Scrivo in italiano e perciò sarò completamente ignorato, dentro e fuori casa. Nessuno dei nuovi emergenti uomini di scienza mi citerà. Per questo, anche, parlo poco. Mi porterebbero via – per altro senza malignità – quello che dico. Il contributo di Majorana alla scienza sarà completamente ignorato. Quattro scrittarelli; Majorana non è mai esistito. Accetto volentieri di scomparire”[32].

   E il primo ‘appunto’ di Ettore Majorana all’assetto della conoscenza del suo tempo (e ancora oggi del nostro!), non poteva che essere per la teoria che segna l’inizio del descritto moderno approccio della fisica alla comprensione dell’intima struttura dell’universo: la teoria della relatività di Albert Einstein, del 1905. É questa teoria, con le sue interpretazioni ‘privilegiate’, che apre in effetti la strada a una scienza sempre più matematizzata, dove è difficile farsi un’idea esplicativa dei fenomeni nei termini delle categorie ordinarie di spazio, tempo e causalità[33]. É qui naturalmente impossibile dare anche solo pochi cenni di quali siano i problemi fisici (meglio sarebbe forse dire il problema) alla base della celebrata teoria, e le sue eventuali alternative. Non possiamo fare altro che rimandare il lettore ad altri scritti[34], e limitarci a prendere atto dei pensieri di Majorana in proposito.

   “Io so che dovrò rivedere radicalmente le false idee esposte da Einstein a fondamento della Relatività Ristretta; ma sarò mai capace di vivere tanto da dimostrare quel che intendo dimostrare e di farlo in modo così sicuro da vincere questa mia ritrosia o insicurezza nel parlarne?”[35].

   La teoria appare già allora non soltanto apprezzatissima, ma addirittura indiscutibile: “il fatto che la Relatività Ristretta di Einstein sia logicamente coerente e inattaccabile dal punto di vista matematico non giustifica che il grande matematico tedesco Hadamard presiedendo la sezione Relatività del Congresso Filosofico di Napoli 1924, abbia fatto accettare il principio che qualunque argomentazione di carattere puramente logico contro la prima relatività einsteiniana non debba più venir neppure presa in considerazione e messa in discussione. Però anch’io non dovrei parlarne più, se non voglio dare le dimissioni da fisico teorico[36]. E ancora: “Mi accusano di dare giudizi troppo severi e ciò fa sorgere il sospetto di una mia eccessiva presunzione. Certe cose, oggi, non si possono dire esplicitamente! E per due opposte ragioni. La prima è che Einstein gode di un tale sicuro prestigio che nessun dubbio può essere sollevato circa la giustezza delle sue impostazioni concettuali, senza correr rischio di dover essere considerato un improvvisatore. Certo il mio giudizio sulla coerenza dei ragionamenti di Einstein in fatto di cinematica relativista è piuttosto negativo e credo che anche Einstein debba aver contezza di certe difficoltà riguardanti il concetto di sistema inerziale”[37].

   E la seconda ragione, per la quale “Einstein è diventato un idolo intrasgredibile, un tabù”[38]? Si tratta di una ragione che esula dal campo scientifico, ed impedisce la libertà di pensiero e di critica, tanto più oggi dopo i tragici avvenimenti della guerra: “E poi, disgraziatamente, sembra che si vogliano inquinare codeste discussioni con balorde idee antisemite. Sarebbe veramente grande disgrazia – che Dio tenga lontana da noi – se fra me e i miei carissimi amici ebrei, come Segré [sic], per esempio, dovesse anche lontanamente insinuarsi un dubbio di reciproca incomprensione atavica”[39].

   Sarebbe certamente fuori tema dilungarci qui troppo su tale delicata questione, ma quanto sottolinea Majorana fa apparire come fatto che risale già alla sua epoca un modo di affrontare certi temi che è purtroppo tuttora operante, e forse oggi anche di più che negli anni Trenta. La discussione sulla relatività, sulla plausibilità fisica delle sue assunzioni di base (i suoi famosi princípi), fu in effetti inquinata anche da considerazioni di questo genere, e una particolare ostilità alla teoria fu manifestata proprio in Germania, nei difficili tempi del nazionalsocialismo. “Ci sono due fisiche – hanno deciso gli scienziati tedeschi – una fisica ebraica e una fisica ariana. A Berlino, Einstein è stato fischiato da studenti nazionalsocialisti durante una lezione sulla teoria della relatività, il ‘colossale bluff ebreo’, come l’ha definita il premio Nobel e nazista Stark”[40]. Va tenuto comunque presente che non furono solo dei fisici tedeschi ad opporsi alla teoria della relatività su basi (anche) ideologiche. La stessa cosa accadde per esempio in Unione Sovietica, dove alla teoria fu contestata l’accusa di “idealismo”[41], mentre numerose critiche agli aspetti ‘formalistici’ delle concezioni einsteiniane, venivano anche dal campo inglese e da quello francese, da parte dei fisici più legati alla ‘concretezza’ dei laboratori, e che giudicavano quindi poco fisiche le astratte elucubrazioni matematiche di Einstein sulla natura dello spazio e del tempo[42]. Sta di fatto che anche oggi, quando determinati rapporti di forza ideologici appaiono ancora più consolidati, l’assurda connessione della teoria della relatività con la questione generale della II Guerra Mondiale, del nazismo e dell’antisemitismo, dissuade purtroppo molti ‘spiriti prudenti’ dall’approfondire talune particolari questioni fondazionali della fisica, e risulta utilissima a tutti coloro che non hanno troppa voglia di affrontare le difficoltà, e le fatiche, che comportano affrontare certi problemi. Questi si considerano infatti pienamente autorizzati o a non rispondere affatto alle obiezioni che provengono dalla parte meno ‘integrata’, o addirittura, nei casi più rozzi, a utilizzare il semplice espediente di assimilare tout-court gli autori di eventuali critiche, o i ‘portatori di dubbi’, che assomigliano troppo a quelli dei ‘fisici nazisti’[43], ai responsabili dell’Olocausto, e di emarginarli quindi immediatamente dagli ambienti accademici nei quali ci si fa un punto d’onore di essere “politicamente corretti”, a prezzo talvolta anche della ‘verità’, della morale e dell’obiettività scientifica[44].

   Il noto epistemologo “anarchico” Paul K. Feyerabend illustra bene come certi argomenti hanno soprattutto “l’intento di sottoporre l’avversario e i suoi possibili alleati a pressioni morali e di impedire loro di sviluppare ulteriormente le loro idee. Hitler, la seconda guerra mondiale, Auschwitz e recentemente anche il terrorismo emergono qui con tediosa regolarità”, e più oltre: “Contro il metodo e Adolf Hitler contengono ‘formulazioni in parte sorprendentemente simili’ […] E allora? Devo forse tagliarmi il naso perché anche il signor Hitler ne aveva uno?”[45].

   Per tornare a Majorana, la situazione complessivamente descritta poteva urtare in diversa misura coloro che gli erano vicini. Essere bonariamente considerata come la manifestazione di uno spirito un po’ eccentrico, eventualmente da commiserarsi perché nutriva ambizioni che potrebbero dirsi faustiane, in un mondo della scienza che insegna presto la sua dura lezione, e ricusa inesorabilmente chi non la accetta: “Perfino la fisica, lo standard della precisione per tutta la scienza sperimentale, non è altro che una mitologia, creata da menti umane sotto l’influenza del paradigma del giorno. […] Brillanti studenti con i più alti punteggi in attitudini matematiche arrivano avidi di apprendere tutte le meravigliose verità della scienza, e per i primi due anni ci credono davvero […] Ma scoprono poi che si tratta nient’altro che di un mito. É un mito con alte capacità predittive, e non è stato trovato nessun altro mito che sia più accurato […] Quando si trovano di fronte a questa consapevolezza la maggior parte degli studenti attraversa una profonda crisi emotiva, dalla quale alcuni non si riprendono mai più […]”[46].

   In altri, invece, il suo atteggiamento poteva apparire particolarmente fastidioso, indisponente, come sa bene per esperienza personale chi scrive, fatto segno diverse volte di ingiustificate aperte ‘aggressioni’ culturali per avere espresso alcune considerazioni critiche sulla fondatezza di talune opinioni comuni, in situazioni che richiedevano più approfondimento che non disprezzo, o sarcasmo. Ecco che ha origine così la spiegazione più semplice, quella della follia. Dichiarare qualcuno ‘demente’ diventa un modo per esorcizzare il ‘diverso’, per allontanare dalla propria coscienza il dubbio che egli possa ‘avere ragione’. Del resto, nel caso che ci interessa, tutte le testimonianze di alienazione di Majorana provengono esclusivamente da coloro con i quali era in aperto contrasto, e le considerazioni di Sciascia al riguardo di questa pretesa nevrosi (vedi Capitolo II) sembrano quanto mai appropriate.

   Ne consegue per esempio che da una parte può darsi il caso di un Fermi che esprime su Majorana (al Prof. Giuseppe Cocconi, allora assistente incaricato a Roma per un periodo di alcuni mesi, subito dopo la scomparsa del fisico siciliano) il parere che abbiamo riportato in epigrafe al Capitolo II[47], e che non c’è ragione per dubitare di insincerità. Esso è infatti confermato da tanti altri particolari, per esempio da una testimonianza di Pontecorvo, secondo il quale: “Majorana possedeva già una erudizione tale ed aveva raggiunto un tale livello di comprensione della fisica da potere parlare con Fermi di problemi scientifici da pari a pari. Lo stesso Fermi lo riteneva il più grande fisico teorico dei nostri tempi. Spesso ne rimanevo stupito”[48]. Non dimentichiamo del resto che, in occasione del ‘famoso’ concorso del 1937, quando sembra che i rapporti personali tra i due non fossero proprio dei migliori, Fermi avrebbe potuto anteporre a quella di Majorana altre candidature, con l’accettabile giustificazione agli occhi di tutti che quegli aveva pochi lavori, e un lungo periodo di inattività (o di non documentata attività); ma questa circostanza non si verificò, segno di una ammirazione sincera e invincibile. Invece, il giudizio su Majorana da parte di altri colleghi del giovane appare a volte radicalmente diverso, tanto da non potersi evitare di fare ricorso alla categoria esplicativa della “gelosia”. Per esempio, l’alta considerazione in cui Fermi teneva Majorana non era da tutti condivisa a via Panisperna, “tanto che (come ci ha raccontato Piero Caldirola) una volta Bruno Pontecorvo rimproverò Fermi di ‘umiliarsi’ troppo di fronte ad Ettore”[49]. Riportiamo infine, e ancora una volta integralmente, tenuto conto della loro rilevanza, le considerazioni che Segrè aggiunse a chiusa della pubblicazione della lettera inedita di Majorana, di cui abbiamo largamente discusso nel capitolo precedente.

   “Aggiungo alcuni commenti. Nel 1931-32 io ero stato a lavorare ad Amburgo nel laboratorio di Otto Stern; da lì chiesi aiuto a Majorana per alcuni calcoli relativi a un’esperienza che avevo portato a termine in quel laboratorio. Tali calcoli formano oggetto del lavoro di Majorana: Atomi orientati in campo magnetico variabile, in “Nuovo Cimento”, vol. 9, 1932, p. 43.

   La situazione tedesca mi era pertanto nota e certo non la vedevo come Majorana; non ricordo se e come ho risposto alla sua lettera[50].

Sorprende che una mente così acuta e critica come quella di Ettore, abbia accettato tutto ciò che leggeva nei giornali della propaganda di Goebbels, senza rendersi conto che, anche se alcune delle critiche (ben poche) non erano completamente infondate, il tutto aveva uno scopo iniquo e sinistro ed era solo un preludio a orrori nefandi.

   Tra i pochissimi amici che Majorana frequentava in Germania c’erano i fisici ebrei F. Bloch e G. Placzek, che erano stati a lavorare con noi a Roma, parlavano bene italiano ed erano amicissimi di tutto il gruppo romano. Ettore li menziona frequentemente nelle sue lettere. É strano che dalla loro conversazione Majorana non abbia capito meglio la situazione, ed è anche strano che abbia diretto la lettera sopra riportata a me, che certo non la gradii[51].

   Voglio infine credere che, se Ettore Majorana avesse vissuto più a lungo, avrebbe visto le cose ben altrimenti e avrebbe ripudiato il suo scritto.

   Nel 1975, scrivendo a proposito di pubblicazioni uscite allora, mandai un articolo al quotidiano “Il Giornale” che lo pubblicò in data 17 dicembre 1975 col titolo Fra mito, mistero e realtà: il giudizio del Nobel Segrè. Lo riproduco qui perché esso riassume tuttora le mie idee su Majorana, ivi compresa la conclusione dell’articolo.

   Ettore Majorana, distinto fisico della mia generazione, è stato oggetto di una seria biografia scritta da Edoardo Amaldi nel 1966 e di innumerevoli articoli, drammi televisivi e racconti più o meno sensazionali e fantastici nonché di un recente “Giallo filosofico”.

   Perché tanto interesse? Vi sono stati in Italia grandi scienziati, nel loro campo per lo meno altrettanto importanti di Ettore Majorana, di cui nessuno ha mai fatto il nome in un rotocalco.

   La ragione è abbastanza ovvia: Ettore Majorana è scomparso ancor giovane, a circa 31 anni, in modo misterioso secondo alcuni; non tanto misterioso secondo altri[52].

   Sono sempre stato riluttante a scrivere in proposito perché credo che Ettore non avrebbe desiderato commenti o narrazioni sulla sua persona. Era un individuo assai geloso della sua privacy, come si dice in inglese, e benché sentisse fortemente il vincolo della amicizia si apriva con grande difficoltà anche agli amici. Amava peraltro la verità e l’onestà intellettuale, spinta fino all’estremo, di una eccessiva critica di se stesso e altrui.

   É in questo spirito di oggettività che vorrei scrivere, per rendere onore e giustizia a un amico e collega che ho avuto la ventura di conoscere dal tempo in cui era studente fino alla fine.

   Amaldi ha riportato i fatti da lui conosciuti fino al 1966 in modo completo ed esatto. Non c’è molto da aggiungere se non si vuole lavorare di fantasia o fomentare infondati pettegolezzi di bassa lega[53].

   Si è ritrovata qualche lettera che si inquadra bene e conferma la narrativa di Amaldi. Tra queste alcune relative agli ultimi giorni prima della scomparsa che collimano con l’analisi fatta da Amaldi. Lo stesso ha ritrovato alcuni appunti di Ettore da studente in cui si dimostra, una volta di più, la sua ben nota perizia matematica e una lettera (altre affondarono in un pacco che viaggiava sull'”Andrea Doria”) scrittami da Lipsia in cui, tra l’altro, faceva favorevoli apprezzamenti politici sul regime hitleriano mostrando che il suo senso politico non era pari a quello matematico[54].

   Il rispetto per la memoria di un amico che, se fosse vissuto, credo fermamente avrebbe rimpianto e ripudiato quelle parole, mi consigliano a non entrare in dettagli.

   É stata stabilita, a cura del professor Recami, la cronologia dei manoscritti di Majorana da cui risulta che gli ultimi scritti di fisica, pubblicati nel 1937, risalgono al 1932 e furono esaminati in occasione del concorso universitario alla cattedra di fisica teorica all’Universìtà di Palermo.

   Tutto ciò non cambia le cose già risapute. Forse la più notevole è che gli scritti sulla teoria di Dirac risalgono al 1932. Da allora fino alla scomparsa non c’è più nulla, pur essendosi conservati alcuni quaderni di appunti. Ciò può essere interpretato pensando che la sua facoltà creativa fosse diminuita, un fenomeno comune tra matematici e fisici teorici per cui la vena si esaurisce presto. Dato poi lo spirito critico di Majorana è più che probabile che non si sarebbe accontentato di cose di minor importanza delle precedenti.

   Il fatto delle date è certo; io credo alla mia interpretazione, ma chi vuole costruirne altre, anche romanzesche, è naturalmente libero di farlo purché separi i fatti dalle interpretazioni[55].

   La leggenda di Majorana è stata alimentata sino a dotarlo di qualità quasi soprannaturali. Vorrei dare un’idea di ciò che si sa in proposito.

   Egli era certo un cervello di prima forza; aveva una abilità analitica, nonché numerica, eccezionali e una grande fantasia matematica. Ciò gli permetteva di risolvere problemi difficili in modi sorprendenti (e godeva della sorpresa). Tuttavia non ha lasciato lavori di matematica pura. Probabilmente essa non lo interessava abbastanza, anche se ricordo che mi vantò la vastità e libertà della matematica paragonata alla fisica, vincolata ai fatti sperimentali.

   In fisica, Majorana utilizzò la sua abilità matematica per inventare o sviluppare metodi che vedevano matematicamente molto lontano. In particolare, era un esperto in teoria dei gruppi quando ben pochi ne avevano capito l’importanza.

   Il modello nucleare con le “forze di Majorana” è un lavoro bellissimo, fatto, credo, indipendentemente da quello di Heisenberg sul modello nucleare a neutroni e protoni, anche se pubblicato dopo. I lavori astratti sul neutrino sono profondi e precorrono i tempi.

   Nel complesso, si tratta di lavori di primo ordine che farebbero onore a chiunque. Non sono però della stessa classe dei grandi lavori, non dico di Einstein, ma nemmeno di Heisenberg, Pauli, Dirac, Fermi eccetera, e, nel suo campo specifico dei gruppi, von Neumann e Wigner lo precedono e lo superano. Ora l’opera maggiore di questi altri autori fu compiuta in età inferiore a quella della scomparsa di Majorana. Naturalmente ciò, [sic] non autorizza a presumere che non avremmo visto qualche grande scoperta da parte di Majorana, ma le probabilità sono contrarie a questa ipotesi.

   Che Majorana poi potesse pensare specificamente a bombe atomiche, o cose del genere, può essere supposto solo da chi non conosce la fisica nucleare[56]. Basti dire che anche dopo la scoperta della scissione dell’uranio, avvenuta un anno dopo la scomparsa di Majorana, non si era in alcun modo certi della possibilità di una reazione a catena e tanto meno di una bomba[57].

   Che Majorana, pessimista come era, potesse pensare che la scienza in genere fosse un male per l’umanità, è un’altra cosa.

   Chi poi vuole servirsi di Majorana per interpretare la storia “con goffa barbarie”, come ebbe a dire Carducci, creando santi e diavoli e falsando intenti e fatti, non ha certo cara la di lui memoria. Chi la rispetta non dovrebbe fomentare miti e storie romanzesche così aliene dal carattere di Majorana e dovrebbe lasciarlo dormire in pace.”

   Non si possono non avvertire latenti in queste parole, come peraltro in quelle che abbiamo visto precedere la lettera a mo’ di presentazione, dell’avversione, del dispetto, ancora perduranti, e non sopiti, pure a distanza di tanti anni…

   Ci sembra che quanto fin qui esposto abbia sufficientemente illustrato il punto di vista che volevamo sviluppare, e che sia tempo ormai di avviarci verso l’Epilogo della nostra indagine, ma bisognerà pur prima affrontare una questione che, peraltro già promessa in Avvertenza, abbiamo finora anche troppo rinviata. Si tratta della affidabilità di quell’eventualmente importante fonte di conoscenza della ‘vera’ personalità di Majorana costituita dal libro di Valerio Tonini, che soprattutto in questo capitolo abbiamo utilizzato in modo essenziale. Sono autentici i ‘ricordi’ di Majorana ivi contenuti? Ci siamo davvero avvicinati al Majorana intimo, o piuttosto a Valerio Tonini, che ha usato un comune espediente letterario per mettere in bocca d’altri delle opinioni sue? Perché, in caso di risposta affermativa alla prima domanda, un testo così importante per gli studi su Majorana non è neppure citato, per esempio nel libro di Recami?

   La risposta a quest’ultimo interrogativo è molto semplice. Come ha avuto modo di comunicare direttamente il Prof. Recami al presente autore, l’opera di Tonini è stata da lui considerata un lavoro di pura fantasia, un tentativo di decifrazione personale dell’enigma di una scomparsa, condotto inventando una possibile situazione di disagio scientifico ed esistenziale, che potrebbe anche per caso essere vera, ma non ha più probabilmente alcun riscontro nella realtà. Ecco che dobbiamo allora affrontare la ‘storia’ del libro in discussione, e per far questo cominceremo a far parlare, come doveroso, l’autore, a partire dall’epigrafe apposta al suo scritto: “Questo racconto del pensiero di Ettore Majorana è dedicato ai giovani studenti di scienze, d’ingegneria e di filosofia”. Un “racconto del pensiero”, dunque, come sottolinea subito dopo l’autore, dichiarando di non aver inteso “redigere una biografia in senso stretto, quanto rivivere un pensiero”. Dovrebbe bastar questo per far comprendere che, con siffatte premesse, aver invece raccontato il pensiero di altri, contrabbandandolo per quello dello scomparso, sarebbe stata opera poco onesta, nella quale dubitiamo che Tonini avrebbe potuto restare coinvolto.

   Si potrebbe obiettare: ma come, dopo aver fin qui dubitato di tutto e di tutti, dopo aver evidenziato fino all’eccesso la possibile ‘insincerità’ di tante dichiarazioni, proprio in questo frangente dovremmo rinunciare all’esercizio del dubbio metodico, finora costantemente esercitato? In risposta, si può dire che appare subito una differenza notevole tra i casi che abbiamo dianzi esaminato con l’ottica dell’investigatore, che deve per necessità di ruolo diffidare di tutto e di tutti, e quello di cui ci stiamo presentemente occupando. E la differenza consiste in ciò che in precedenza si aveva a che fare con persone che erano (avrebbero dovuto essere) direttamente coinvolte nelle indagini[58], presumibilmente interessate quindi in prima persona agli effetti prodotti dalle loro dichiarazioni (anche dal solo punto di vista dell’immagine, e del prestigio) mentre nel caso attuale no. Ovvero, mentre esistevano prima delle possibili ragioni logiche per dubitare, genericamente e a priori, senza offesa per nessuno, della veridicità di certe ‘testimonianze’, dovremmo adesso preliminarmente chiederci invece: perché Tonini avrebbe mentito? Perché avrebbe voluto mettere in atto un espediente simile, a quasi 50 anni dalla scomparsa di Majorana? Non si tratta comunque di un nome, e di una storia, di così grande richiamo, da poter considerare verosimile che Tonini sia stato indotto nella tentazione che, attraverso un siffatto collegamento, la sua opera avrebbe ottenuto maggiore attenzione. Il non riuscire a vedere alcuna ragione per un ‘imbroglio’ non significa evidentemente che l’imbroglio non ci sia, e allora andiamo pure avanti con questa nuova indagine, dando ancora la parola all’indagato.

   “Certamente il lettore si porrà la domanda se in tutta la mia esistenza abbia fatto qualche cosa che mi autorizzi a intraprendere questa narrazione. M’induce ad essa il semplice fatto che parte della mia ormai lunga vita – sono nato nel 1901 – comprende gli anni (1906-1938) della breve vita di Ettore Majorana, e che, in quei lontani anni, ho anche incontrato persone che pur hanno vissuto in familiarità con Ettore; se di familiarità si può parlare nei confronti di un giovane scontroso e restio. Di queste persone alcune hanno nomi assai illustri: Enrico Fermi e Franco Rasetti, che ebbi compagni di corso al Biennio Matematico di Pisa negli anni 1919-1921. […] Poi io proseguii la Scuola di Applicazione per gli Ingegneri di Pisa, dove mi laureai nel 1924 […] [quindi] andai a lavorare, come ingegnere, in Sardegna. Ettore Majorana, come vedremo, passò dagli studi di ingegneria a quelli di fisica. Dunque qualche vicenda in comune c’è stata che può spiegare alcune cose che possono essere di particolare interesse, ancorché si tratti di destini assai diversi, fra i quali, naturalmente, non è neppur possibile istituire un confronto; così come non sono mai parallele, la breve vita di un soldato morto in guerra, la povera vita di un disoccupato, la intensa vita di uno scienziato o di un filosofo, la dedizione amorosa di una donna per la sua famiglia”.

   Ci siamo dilungati in citazioni dall’Introduzione di Tonini perché il lettore possa sentire, come noi, vibrare nelle sue parole quel ‘suono della verità’ di cui parlavamo alla fine del Capitolo II, ma questo naturalmente non è tutto. Come avrebbe potuto un ingegnere, seppur con tali illustri ex compagni di studi, che esercitava duramente sul campo in Sardegna, avere trovato qualcosa di nuovo e di interessante da raccontare su eventi che si svolgevano così lontano da lui, sia geograficamente che intellettualmente? Facciamo allora parlare ancora l’autore.

   “Mentre Majorana così pensava, io, ingegnere in Sardegna, apprendevo il duro lavoro delle bonifiche. Imparavo, fra spaccapietre e lavoraterra, a conoscere le rocce, le acque, la materia, gli uomini. Appresi, allora, che la realtà non è un sillogismo della ragione; a fronte di questa realtà dovevo misurare il valore delle mie convinzioni. Ed ecco il fatto strano. Qualche tempo fa mi giunsero in modo misterioso, da un anonimo, alcuni disordinati appunti, su cartaccia consunta e quasi illeggibili. Dopo un po’ mi accorsi che si riferivano in modo assai preciso a specifici argomenti trattati da Ettore Majorana. Incuriosito, cercai di mettere un certo ordine a questi appunti scritti con calligrafia falsata e quindi probabilmente apocrifi. Pensai allora che il fatto stesso che sulla sorte di Ettore Majorana si fosse esercitato, negli anni scorsi, uno scrittore di grande fama, potesse aver provocato in qualcun altro una certa suggestione a inventare qualche altra storia. Ma non mi spiegavo perché poi tutto questo fosse finito in mie mani. Senonché a un certo punto un preciso accenno a un certo tragico avvenimento che credevo ignoto, mi spinse a mettere ordine a questi disordinati appunti”.

   Ecco dunque spiegato, almeno in parte, come presto diremo, tutto il ‘mistero’. Il riferimento evidente al libro di Sciascia, edito nel 1975, farebbe pensare che gli appunti siano stati ricevuti da Tonini diciamo intorno al 1978, e che egli avrebbe quindi aspettato, o impiegato, quattro o cinque anni per metterli a posto, e presentarli infine in una forma abbastanza unitaria e organica, possibilmente precisa anche cronologicamente, giovandosi per far ciò, come riconosce, delle memorie di Amaldi: “Devo altresì esplicitamente dichiarare che per metter ordine a quegli appunti mi son servito, a piene mani, dell’importante e già citato volume La vita e l’opera di Ettore Majorana, curato, come ho detto, da Edoardo Amaldi…”.

   Questa storia basterebbe da sola a destare qualche curiosità: quale mano anonima, a distanza di tanto tempo, avrebbe mai pensato a una simile operazione? Come conosceva così bene Majorana, o viceversa come poteva aver l’ardire di inventarsene uno a proprio uso e consumo, da aver potuto improvvisare tante riflessioni aventi il sapore della verosimiglianza? Si noti poi che costruire un Majorana tanto critico, e con tali ben sviluppate argomentazioni, non è impresa alla portata di chiunque; particolarmente poi, descrivere un Majorana anti-relativista ‘in segreto’[59]. Un competente, in qualche modo, dunque, ma, escluso Tonini stesso, perché avrebbe scelto proprio l’ingegnere, ex collega di Fermi, per divulgare il parto della sua fantasia scientifico-letteraria? Come poteva conoscerlo, per quali vie? E quale sarebbe stato quel “tragico avvenimento” che avrebbe persuaso Tonini a prendere finalmente sul serio il materiale ricevuto, e a farcelo in ogni caso per fortuna pervenire?

   Va detto allora che, successivamente al colloquio avuto con Recami sul valore storiografico del libro in oggetto (avvenuto un numero di anni fa che non saprei oggi purtroppo precisare), cercai di approfondire la questione con qualcuno dei familiari dell’ingegnere, purtroppo già da qualche anno scomparso (mi si perdoni la comprensibile genericità), e venni a conoscenza di una storia leggermente diversa, che esporrò qui come mi è stata raccontata, sperando che la memoria non mi abbia nel frattempo giocato qualche brutto tiro (ma sulla corrispondenza di quanto riferirò a quello che mi fu raccontato, almeno nelle grandi linee, potrei giurare). Le carte di cui parla il compianto ingegnere non gli arrivarono nei tardi anni 70, ma subito dopo la scomparsa di Majorana, comunque prima della guerra. Andarono disperse durante un bombardamento che ebbe luogo sulla città di Cagliari verso la fine delle ostilità, e il loro contenuto restò per tanti anni impresso soltanto nella sua mente. Il tragico avvenimento che lo aveva tanto colpito, e al quale si faceva cenno nelle carte ricevute, è presto detto: “M’ha colpito il fatto di quel giovane studente Giulio T. che si è suicidato gettandosi dall’alto della Torre Pendente di Pisa, alla vigilia di laurearsi in giurisprudenza, con esito che sarebbe stato certamente brillantissimo. Era un giovane tranquillo, assennato, intelligente, studioso. Lo avrà fatto per un disperato incompreso amore? Nessuno sa niente. Ha saputo morire inaspettatamente. […] Mi hanno detto che il fratello, ingegnere, è andato a lavorare in Sardegna, in opere di bonifica”. Così riportano le ‘memorie’ di Majorana pubblicate da Tonini alla p. 56, e il lettore avrà ormai compreso che Giulio T. non era altri che lo sfortunato fratello di Valerio Tonini, che si volle togliere tragicamente la vita, in un anno che non saprei precisare, ma comunque tra il 1927 e il 1931, almeno stando alla coerenza interna del testo esaminato. Ecco dunque forse spiegato perché qualcuno, che aveva ricevuto le carte direttamente da Majorana, o che le aveva sempre conservate presso di sé (o che le aveva addirittura scritte, o trascritte, lui stesso, così come si prendono appunti da un professore, o da una persona della quale si abbia comunque stima, e forse anche qualche soggezione?!), abbia pensato al fratello dell’amico di Ettore, ed a lui abbia deciso di consegnare, in forma anonima, quel materiale, certo disordinato, quasi illeggibile, ma sicuramente destinato ad avere un effetto sorprendente sull’inconsapevole destinatario. Impressionato dal criptico riferimento familiare, sul quale per pudore sorvola nell’Introduzione, Tonini avrebbe sempre conservato un vivido ricordo di quegli appunti, ma solo molti anni più tardi, quando una volta andato in pensione poté con animo sgombro da altre cure dedicarsi agli studi ‘puri’ che avrebbe sempre desiderato svolgere (o almeno in modo parallelo alla sua attività professionale), ecco che decise infine di liberarsene la mente, di divulgarli, come “cose che possono essere di particolare interesse”. Nel compiere tale operazione si sarà certamente preso molte libertà, sia pure senza malizia, la memoria è ingannevole, come ci si rende purtroppo ampiamente conto invecchiando, e può far credere ciò che non è stato. Tonini ci avrà pur messo qualcosa di suo (ricordi, voci,…), e riconosce del resto esplicitamente di avere “integrato” quegli appunti (i suoi ‘ricordi’ di essi) con la biografia di Amaldi. É quindi più che possibile che, in qualche punto laddove sembra che parli direttamente Majorana, si tratti soltanto in realtà di un’eco dei ricordi di Amaldi, rivisitati attraverso quelli che conservava nella sua mente Tonini. Tra questi, pensiamo, il caso della storia del ‘famoso’ concorso, “Fermi e gli altri amici vogliono che io concorra” (p. 103), o il ricordo, dubbio per i motivi a suo tempo spiegati, secondo il quale “Giovanni Gentile, Emilio Segrè ed Edoardo Amaldi mi vogliono far uscire di casa, almeno per andare dal barbiere” (p. 99); ma sono del parere che il ‘complesso’ di quanto riportato nelle pagine di Tonini dovrebbe considerarsi, almeno fino a prova contraria, frutto né di un ‘imbroglio’, né di un espediente letterario, e quindi parzialmente affidabile, ed utile per un’ulteriore conoscenza del ‘vero’ Majorana, del Majorana ‘segreto’ (del resto, quanto riferito ‘attraverso’ Tonini si inquadra assai bene in un contesto del quale avevamo già potuto autonomamente tracciare le linee principali).

   Un’ultima domanda, infine. Se quanto dianzi ricordato fosse vero, perché quella piccola ‘bugia’ da parte di Tonini nella sua Introduzione, a proposito della vera storia di quelle carte? Pudore, riserbo, discrezione, desiderio di non suscitare troppo clamore, o perfino timore di essere criticato per avere così a lungo sottratto delle informazioni importanti ai fini degli studi sulla persona di Majorana? Chissà, non sapremo mai quale movente possa avere ispirato certe decisioni, o se viceversa non sia stato erroneo il ricordo di chi ha fatto al presente autore le sopra citate confidenze (ma ovviamente, anche in questo caso, senza che sia facile immaginare qualche possibile interesse alla propagazione di una menzogna in modo consapevole e volontario). Quale che sia la verità, il resto del presente libro è in qualche modo indipendente da questo Capitolo V, che verrebbe soltanto a definire ulteriormente alcuni contorni di un certo quadro, ma non a costituirlo in modo essenziale, anche se, bisogna ammetterlo (ciò che verrà fatto anche nella successiva Postfazione), l’incontro con le ‘rivelazioni’ di Tonini è stato comunque determinante per il presente autore, perché si formasse nella sua mente un’opinione sul ‘caso Majorana’ quale quella che è stata qui illustrata.


[1] VT, p. 33.

[2] In ER, p. 49, è riportata, con evidente sollievo, una testimonianza del fisico tedesco Rudolf Peierls, secondo il quale Majorana, da lui conosciuto verso la fine del 1932, era allora “veramente contrario al fascismo”. Di Peierls abbiamo avuto modo di dire qualcosa nel capitolo precedente.

[3] Anche Sciascia ha la stessa impressione, quando riconosce onestamente che “Qualcosa c’era, in Fermi e nel suo gruppo, che suscitava in Majorana un senso di estraneità, se non addirittura di diffidenza, che a volte arrivava ad accendersi in antagonismo. E per sua parte, Fermi non poteva non sentire un certo disagio di fronte a Majorana”, rompendo così il fronte di ‘omertà’ caratteristico di certi ambienti, da cui provengono autodescrizioni che hanno gli accenti più della favola che dell’esposizione storico-informativa (LS, p. 20).

[4] É Majorana stesso a ricordare esplicitamente tale circostanza (VT, p. 51), facendo richiamo in quest’occasione agli analoghi appellativi di Fermi e Rasetti, ma non a quello di Segrè.

[5] VT, p. 69. Il fisico tedesco Ludwig Boltzmann, celebre per le sue concezioni sulla termodinamica e la teoria cinetica dei gas, si suicidò nel 1906 per l’ostilità che incontrava nei confronti delle sue idee, proprio nello stesso anno in cui nacque Majorana, e questa coincidenza non mancò di colpire il fisico siciliano (VT, p. 44).

[6] VT, p. 69.

[7] VT, p. 87. Il corsivo è del presente autore.

[8] VT, p. 26.

[9] VT, p. 32.

[10] VT, p. 93. Anche i ricordi della sorella Maria confermano questa predilezione, con l’aggiunta di Pirandello e di Shakespeare (ER, p. 54).

[11] VT, p. 93.

[12] VT, p. 69.

[13] VT, p. 103.

[14] Anche di questo particolare aspetto psicologico della vicenda di Majorana ben si rende conto Sciascia, che anzi attribuisce ad esso la ragione del fatto che, tra tanti difficili rapporti di Majorana con i fisici della sua generazione, soltanto quello con Heisenberg sia stato di sua soddisfazione: “Con Heisenberg il rapporto era del tutto diverso. E la ragione crediamo di intravederla, retrospettivamente, nel fatto che Heisenberg viveva il problema della fisica, la sua ricerca di fisico, dentro un vasto e drammatico contesto di pensiero. Era, per dirla banalmente, un filosofo” (LS, p. 37).

[15] VT, p. 100.

[16] VT, p. 93.

[17] VT, p. 22.

[18] VT, p. 101. La circostanza è in qualche modo confermata da Emilio Segrè, nella Nota Biografica citata nella precedente Nota N. 81. Ricordando un periodo di studio di Enrico Fermi a Göttingen (vedi la successiva Nota N. 251), presso Max Born, nell’inverno del 1923, Segrè ricorda che: “Fermi non trasse molto profitto da quel soggiorno. Non è facile capirne il perché, ma è probabile che il suo amore per i problemi concreti e definiti e la sua diffidenza per le questioni troppo generali […] l’abbiano distolto dalle speculazioni, a quel tempo certo alquanto nebulose e peggio ancora miste di filosofia, che dovevano però poi portare alla meccanica quantistica” (p. xxvi).

[19] VT, pp. 23-24. Nei confronti della figura di Rasetti, invece, Majorana sembra avere una particolare ammirazione: “Altrettanto concreto e preciso, Franco Rasetti è uno sperimentatore dall’occhio attentissimo e dalla mano sapiente; però in lui si alternano armonicamente interessi diversi, tutti concretamente programmati, dalla raccolta di coleotteri che faceva da ragazzo, all’alpinismo di alto livello: passioni che rivelano intensi interessi umani, direi perfino poetici” (VT, p. 101). Questa descrizione sembra bene armonizzarsi con la scelta di Rasetti di cui abbiamo parlato nel capitolo precedente. Per contro, ci è rimasta la sensazione che l’apprezzamento di Majorana non fosse particolarmente ricambiato. In una lettera a Erasmo Recami (ER, p. 28), Rasetti declina cortesemente ma fermamente l’invito a far pervenire qualche ricordo personale di Majorana, nei confronti del quale non mostra alcun sentimento, e invita il richiedente a rivolgersi ad altri: “Tra i fisici di via Panisperna sono certamente la persona che lo ha meno conosciuto” (ER, p. 28).

[20] ER, p. 63.

[21] Da Parabole e catastrofi – Intervista su Matematica Scienza Filosofia, a cura di Giulio Giorello e Simona Marini, Il Saggiatore Ed., Milano, 1980, p. 27 (i corsivi sono aggiunti dal presente autore). René Thom ha ricevuto la medaglia Fields per la matematica, che è l’analogo del premio Nobel per questa disciplina, la quale non è compresa nell’elenco delle materie (Fisica, Chimica, Medicina, Letteratura, Economia – a parte il caso della Pace) per cui si può essere insigniti della massima onorificenza scientifica da parte dell’Accademia svedese delle Scienze.

[22] Per citare un’espressione quanto mai efficace a descrivere la situazione (Franco Selleri, La causalità impossibile – L’interpretazione realistica della fisica dei quanti, Ed. Jaca Book, Milano, 1987, p. 13).

[23] F. Enriques, loc. cit. nella Nota N. 105, p. 153. I corsivi sono nel testo.

[24] QED – The strange theory of light and matter, Princeton University Press, 1985, pp. 9-10. I corsivi sono nel testo.

[25] The Feynman Lectures on Physics , Addison-Wesley Publ. Co., 1965.

[26] VT, pp. 36-37.

[27] Secondo un ricordo di Franco Rasetti, riportato in DM, p. 46.

[28] VT, p. 55.

[29] VT, p. 94.

[30] ER, p. 161.

[31] VT, p. 57.

[32] VT, p. 89.

[33] Vedi per esempio del presente autore: “La svolta formalista nella fisica moderna”, Quaderni Progetto Strategico del CNR Tecnologie e Innovazioni Didattiche, Epistemologia  della Matematica, a cura di Francesco Speranza, N. 10, 1992 (cfr. anche la successiva Nota N. 309).

[34] Vedi per esempio il libro del presente autore citato nella precedente Nota N. 157, alcuni capitoli del quale sono dedicati a un’esposizione molto divulgativa sia del punto di vista relativistico sia di quello ad esso rivale, e a un loro confronto.

[35] VT, p. 32. L’aggettivo “ristretta” distingue qui una prima teoria della relatività, quella appunto proposta da Einstein nel 1905, da un suo successivo ampliamento (1916), che prende il nome di teoria della relatività generale. Quest’ultima è il fondamento di tutte le moderne teorie cosmologiche, quale quella divulgatissima del big-bang.

[36] VT, p. 54. Il corsivo è nel testo.

[37] VT, p. 55.

[38] VT, p. 66.

[39] VT, p. 55.

[40] DM, p. 70. Il citato Johannes Stark fu premio Nobel 1919. Anche un altro premio Nobel (1905) si distinse nelle critiche alla teoria di Einstein, Philipp Lenard. Sulla particolare situazione della fisica tedesca nel periodo del III Reich si veda l’interessantissimo testo di Alan D. Beyerchen, Gli scienziati sotto Hitler – Politica e comunità dei fisici nel Terzo Reich, Ed. Zanichelli, Bologna, 1981.

[41] Vedi per esempio i ricordi del fisico russo George Gamow, uno dei primi teorizzatori della teoria del big-bang, in My World Line – An Informal Autobiography , Viking Press, New York, 1970.

[42] Un ottimo testo che affronta proprio la questione delle risposte ‘nazionali’ alla teoria di Einstein è quello di Stanley Goldberg: Understanding Relativity – Origin and Impact of a Scientific Revolution, Clarendon Press, Oxford, 1984. Per quanto riguarda la situazione in Italia, nella quale la teoria della relatività ebbe pure ferventi illustri oppositori, anche se in realtà quasi esclusivamente nei ‘primi tempi’, si può consultare l’ottimo lavoro di Roberto Maiocchi già citato nella Nota N. 46.

[43] E sorvolando per esempio sul fatto che certe opinioni assomigliano anche a quelle di illustri fisici inglesi (o italiani) degli ultimi anni del secolo scorso, e dei primi decenni di quello presente, per non dire che possono in qualche caso essere fatte addirittura risalire a Cartesio, o ad Aristotele!

[44] Maggiori approfondimenti su tale questione, assieme a una testimonianza personale dello scrivente, si possono trovare nel libro citato nella Nota N. 157, dal quale sono state estratte, senza esplicito rinvio, alcune considerazioni.

[45] Da P.K. Feyerabend, La scienza in una società libera, Ed. Feltrinelli, Milano, 1981, pp. 61 e 85. Contro il metodo – Abbozzo di una teoria anarchica della conoscenza è invece una precedente opera dello stesso Feyerabend (edizione italiana Feltrinelli, Milano, 1979), contro la quale si sono scagliati molti difensori dell’ortodossia scientifica a tutti i costi.

[46] Citazione da John F. Sowa, Conceptual Structures – Information Processing in Mind and Machine, Addison-Wesley P.C., 1984, pp. 355-356. É l’immagine stessa della verità, ancorché parziale, o anche solo dell’aspirazione alla verità da parte della ricerca scientifica, ma non soltanto, che viene messa in dubbio da queste parole, ed è sintomatico che per coloro che a tale ‘categoria’ restano invece affezionati si usi l’analogia del malato. Come ci si è chiesti all’inizio di questo libro, con la domanda “Chi ha paura della storia?”, ci si potrebbe chiedere adesso: “Chi ha paura della verità?”, ma in fondo si tratta sempre della stessa domanda!

[47] É curioso osservare come Sciascia, evidentemente anche lui ‘vittima’ della propaganda scientifica, ha qualcosa da obiettare nei confronti del giudizio di Fermi: “Se […] è stato esattamente riportato, è evidente una dimenticanza: un genio come Galileo e Newton in quel momento c’era al mondo, ed era Einstein” (LS, p. 70). Conformemente a quanto detto altrove nel presente libro (e in particolare nella precedente Nota N. 236), quella di Fermi invece non era affatto una dimenticanza…

[48] ER, p. 22.

[49] Secondo una testimonianza dello stesso Erasmo Recami (ER, p. 51). Piero Caldirola è il noto fisico italiano di cui abbiamo già detto qualcosa (vedi la Nota N. 131).

[50] Che, tra tanti indelebili ricordi, proprio questo particolare si sia cancellato dalla mente dello scrivente, resta in verità difficile crederlo.

[51] Per una conferma più generale di quella che fu l’accoglienza riservata alle considerazioni di Majorana da parte dei suoi colleghi romani, vedi il commento di Amaldi riportato nella prima parte dell’articolo di Segrè, nel capitolo precedente (presente anche in ER, pp. 212-213).

[52] Questa espressione non può non essere sentita come particolarmente ‘sibillina’, dal nostro punto di vista. Chiaro che la prima impressione è che sia stata immediatamente fatta propria da diversi dei fisici di via Panisperna l’ipotesi del suicidio, di contro alle ingenue speranze dei familiari di Majorana, e anche alle convinzioni della polizia. Come avremo a dire meglio nel prossimo capitolo, tanta ‘certezza’ appare degna di attenzione critica, tanto più che, come si evince da un passo successivo, Segrè era stato già in contatto con Recami, e quindi probabilmente al corrente delle ‘nuove ipotesi’ che avrebbero corroborato la tesi di un Majorana sopravvissuto lontano dal nostro paese.

[53] Quali sarebbero stati senz’altro giudicati dai protagonisti di questa vicenda quelli contenuti nel presente studio.

[54] Si presti attenzione al fatto che questa parte dello scritto risale al 1975, e che in tale momento la famigerata lettera viene data come già ricomparsa, per merito di Amaldi (ma dove l’avrebbe ritrovata? possibile che l’avesse sempre conservata lui?!). Nella prima parte dell’articolo, scritto nel 1988, si afferma in effetti che essa era stata ritrovata “parecchi anni” prima (quindi forse tra il 1966 e il 1975), ma si dice anche: “la ritrovai”. C’è da credere che, almeno su questi dettagli, le dichiarazioni di Segrè possano essere abbastanza reticenti, o che il tempo ne abbia cancellato la memoria.

[55] A questo proposito, il presente autore spera che tale distinzione risulti sempre chiarissima nel corso delle sue argomentazioni!

[56] Su questo particolare punto vedi la discussione che è stata fatta al capitolo precedente.

[57] Qui probabilmente Segrè confonde la consapevolezza postuma con quanto alcuni già al tempo, tra i quali forse Majorana stesso, potevano immaginare. Un conto è essere certi di qualcosa, altro è nutrire delle speranze. Sulla questione torneremo nel prossimo capitolo.

[58] Non per loro colpa, o demerito, naturalmente. Lo ripetiamo, basta la contiguità con un fatto delittuoso per entrare a pieno titolo nella categoria dei “sospetti”. Non ci si può adontare per questa circostanza, o prendersela con chi è incaricato delle indagini. Semmai, con la cattiva sorte, che ci ha collegato a certi avvenimenti…

[59] La circostanza è peraltro meno incredibile di quanto possa sembrare a tuttaprima (tenuto conto del consenso così ampio e incondizionato nei confronti delle teorie di Einstein da parte della quasi totalità dei fisici). Lo zio Quirino Majorana è infatti noto, a chi si diletta di certi studi, per il suo coraggioso atteggiamento di critica nei confronti delle teorie relativistiche, e potrebbe avere influenzato il nipote. Dei rapporti, continui nel tempo, tra Quirino ed Ettore, concernenti soprattutto argomenti scientifici, ci restano numerose lettere, alcune delle quali comprese nel saggio di Recami, ma la maggior parte inedite (vedi quanto ne viene detto in ER, p. 154). Di questo originale atteggiamento di Quirino appare ben edotto Sciascia, il quale così ne parla: “per tutta la vita si adoperò a dimostrare fallace la teoria della relatività, senza mai riuscirvi e onestamente riconoscendo di non riuscirvi: il che non gli impediva di continuare ostinatamente a combatterla”, aggiungendo di essere curioso di sapere “quali fossero i rapporti, quali le discussioni in ordine alla teoria della relatività, tra zio e nipote: tra Ettore che ci credeva e Quirino che rifiutava di accettarla” (LS, p. 68). É chiaro che il quadro descritto da Sciascia si differenzia molto da quello qui precedentemente delineato, e anche per quanto riguarda gli ‘onesti riconoscimenti’ di Quirino avremmo qualche dubbio. Questi infatti, al termine di diverse sue ricerche sperimentali che gli sembrano contraddire i principi della relatività, si trova costretto a scrivere: “Penso che i relativisti dovrebbero prendere in considerazione il mio punto di vista, decisamente contrario alla relatività di Einstein. Se il loro silenzio dovesse continuare, mentre io da anni manifesto il mio pensiero, ciò dovrebbe interpretarsi con l’impossibilità di dimostrare l’inesattezza dell’insieme delle mie considerazioni. Invece, la serena discussione, potrebbe chiarificare una questione, che tanta importanza avrebbe per il progresso della scienza” (“Considerazioni sulle forze nucleari”, Rend. Sci. Fis. Mat. e Nat., Acc. Naz. Lincei, Vol. XIII, 1952, p. 103). Queste parole potrebbero confermare l’opinione che Ettore Majorana avrebbe potuto essere dissuaso dal rendere pubbliche le proprie considerazioni al riguardo, tenuto conto dell’esperienza personale così negativa dello zio (immutata anche tanti anni dopo gli avvenimenti che stiamo ricordando).

Continua….