LA BARBA DI DIOGENE, Dublin (EIRE) – 21 Years Online. Leggi l'ultimo pezzo pubblicato...

Karl Popper e la presunta fine dello storicismo (Parte prima)

Karl_Popperdi Michele Marsonet. Ogni volta che in filosofia si parla della “fine” di un’idea o di una certa corrente, si corre il rischio di essere smentiti dagli sviluppi successivi della storia del pensiero. Né occorre insistere sul fatto che, in passato, tali sviluppi richiedevano decenni o addirittura secoli per manifestarsi, mentre ai nostri giorni l’accelerazione costante degli avvenimenti ha finito col coinvolgere anche un campo - come quello degli studi filosofici - che almeno in teoria dovrebbe essere stabile. Dunque, più che dare per scontata la fine dello storicismo occorrerebbe chiedersi: “E’ davvero finito lo storicismo?”. Non è difficile vedere che la risposta al precedente quesito dipende in sostanza dal punto di vista adottato. Un seguace di Popper darebbe una risposta positiva. Ma le critiche popperiane allo storicismo - come avrò modo di constatare - contengono oltre a preziose illuminazioni anche dei limiti evidenti. Pare quindi azzardato affermare, come molti autori dei nostri giorni fanno, che l’epistemologo austriaco ha definitivamente sconfitto lo storicismo. D’altro canto le tesi storiciste hanno trovato negli ultimi decenni sostenitori  nell’ambito del cosiddetto pensiero “post-moderno” dove, per esempio, Richard Rorty ha lanciato un’originale sintesi di storicismo e pragmatismo.

Ciò detto, occorre pure chiarire che cosa s’intende non solo per “storicismo”, ma anche per “filosofia della storia”, dal momento che la corrente storicista ha sempre insistito sulla necessità di sottoporre gli avvenimenti storici a un’analisi di tipo filosofico, senza ridurre la storia stessa a semplice elenco di date, personaggi ed eventi. Intesa nel senso storicista la filosofia della storia è la riflessione sulla “natura” della storia. Il termine venne già usato nel XVIII secolo da Voltaire per indicare il pensiero storico di tipo “critico”, in quanto tale contrapposto alla semplice raccolta e ripetizione di dati concernenti il passato. La fiducia dell’Illuminismo nella capacità della scienza di superare barbarie e superstizione portò quindi ad attribuire alla storia un carattere intrinsecamente progressivo e in seguito, grazie all’influenza di Herder e di Kant, quest’idea conobbe grande successo, al punto che la filosofia della storia venne identificata con l’elaborazione di grandiosi sistemi in grado di farci comprendere i successivi stadi di sviluppo della razionalità. Tutti sappiamo che spetta all’idealismo il merito (o il demerito: dipende, ancora una volta, dal punto di vista adottato) di aver identificato nei concetti il motore del mutamento storico. A questo risultato, dovuto a Fichte, l’idealismo assoluto aggiunse l’identificazione del mondo naturale con quello del pensiero. In Hegel, infatti, la filosofia della storia altro non è che storia universale o “storia del mondo”. Il progresso morale dell’umanità diventa la libertà “entro” lo stato, vale a dire lo sviluppo dell’auto-coscienza dello spirito, il cui cammino logico può essere rintracciato in una serie di stadi successivi e necessari. La struttura logica hegeliana è nettamente rintracciabile negli scritti di Marx e di Engels, nei quali il raggiungimento del fine della storia viene rimandato a un futuro in cui si daranno le condizioni socio-economiche per il conseguimento della libertà; dunque non più la “ragione”, ma i fattori economici rappresentano il volano dinamico dell’intero processo.

Tuttavia, tranne alcune eccezioni come la celebre opera di Oswald Spengler “Il tramonto dell’Occidente”, pubblicata nel 1918, a partire dagli ultimi decenni del secolo scorso le grandi opere sistematiche di filosofia della storia sono state sostituite da lavori più limitati, volti ad accertare la natura della conoscenza storica e i fattori che la differenziano da altri tipi di conoscenza. I rappresentanti dello storicismo del tardo ’800 come Windelband e Dilthey, ad esempio, intendevano dimostrare che le scienze umane, pur essendo oggettive al pari di quelle naturali, se ne differenziano per una ragione di fondo. Dal momento che lo storico si occupa del pensiero e delle azioni di soggetti vissuti nel passato, ciò che gli serve è la capacità di immedesimarsi con tali soggetti, ri-vivendone il pensiero, le azioni e le deliberazioni. Ne consegue che la spiegazione storica è diversa da quella delle discipline naturali, poiché le leggi generali, in base alle premesse appena menzionate, hanno un ruolo di scarso rilievo nelle scienze umane.

Tornando ora alle diverse accezioni del termine “storicismo”, va notato che esso assume nel dibattito contemporaneo due significati diversi. Il primo è proprio quello che ho brevemente esaminato prima, vale a dire un approccio che sottolinea l’unicità dei fenomeni storici. Ogni epoca dovrebbe quindi essere interpretata in base ai suoi stessi principi ispiratori, il che significa che le azioni dei soggetti vissuti nel passato non vanno spiegate facendo riferimento ai principi e alle credenze del periodo in cui vive lo storico che se ne occupa. Ciò che lo storico deve proporsi di conseguire è la “comprensione”, e non una spiegazione concepita sulla falsariga di quella vigente nelle scienze naturali, dal che consegue inoltre che ogni tentativo volto a dar vita a delle “scienze sociali” che usino lo stesso metodo delle discipline naturali è votato al fallimento. E’ interessante notare che lo storicismo, inteso in questo senso, conduce al relativismo storico e culturale. Se infatti credenze e principi sono validi soltanto qualora vengano riferiti a una ben determinata epoca, allora non vi sono principi di validità universale, né è possibile parlare di “verità” in quanto tale.

A questo punto, tuttavia, è necessario rilevare che un’altra accezione oggi usuale del termine “storicismo” è stata elaborata da Karl R. Popper, per il quale esso si identifica con la credenza in leggi dello sviluppo storico di portata universale, siano lineari o di tipo ciclico, come quelle rinvenibili nei grandi sistemi di filosofia della storia elaborati da Hegel, Marx e Engels, Comte e Spengler. Il filosofo austriaco vede in tali sistemi i fondamenti intellettuali delle ideologie totalitarie del secolo scorso, sia di sinistra sia di destra. A suo avviso il corso della storia è influenzato in modo essenziale dalla crescita della conoscenza umana, mentre lo sviluppo della conoscenza stessa è in larga misura imprevedibile.

Gli storicisti avevano ipotizzato una netta separazione fra scienze della natura e scienze dello spirito. L’opera di Popper rappresenta il primo tentativo, compiuto da un filosofo che si muove nello stesso orizzonte del neopositivismo, di prendere posizione di fronte allo storicismo, e di avviare una discussione approfondita delle sue problematiche. L’atteggiamento di Popper è reso possibile dall’abbandono di alcune “chiusure” caratteristiche dell’impostazione del Circolo di Vienna il quale, sorto con un preciso programma di filosofia scientifica, risultava da un lato condizionato dal rapporto con la logica matematica, e dall’altro orientato verso un empirismo che identificava nella fisica il modello della conoscenza in quanto tale. Basandosi sulle idee difese da Ludwig Wittgenstein nel “Tractatus logico-philosophicus”, i neopositivisti sostenevano infatti due tesi fondamentali:

(l) La negazione della significanza degli enunciati non riconducibili a un fondamento empirico, con il conseguente rifiuto di una teorizzazione filosofica che non fosse analisi logico-1inguistica delle strutture della conoscenza empirica.
(2) D’altra parte, il modo in cui tale criterio di significanza veniva enunciato restringeva l’ambito delle proposizioni dotate di senso, e quindi l’ambito di impiego dell’analisi logico-linguistica, alle discipline fisico-matematiche.

Entrambe le implicazioni suaccennate vengono respinte da Popper. Fin dalla sua “Logica della scoperta scientifica”, egli sottopone a esame critico il criterio neopositivistico di significanza. Popper rifiuta nettamente la tesi dell’origine empirica come fondamento della significanza delle proposizioni: la ricerca scientifica si configura per lui come costruzione ipotetico-deduttiva, per cui non è mai possibile pervenire a una verificazione definitiva. Ecco allora che il rifiuto del criterio neopositivista di significanza consente a Popper di eliminare la distinzione tra problemi “dotati di senso” e no. La questione fondamentale è quella di definire l’ambito della scienza in base alle sue regole metodologiche; ma, al di fuori di tale ambito, restano altri problemi forniti di senso, per quanto si tratti di un senso inteso in termini diversi.

Quando la dispersione dei filosofi di tendenza scientifica austriaci, tedeschi e polacchi lo condusse a Londra dopo l’annessione nazista dell’Austria, Popper si occupò sempre più intensamente della metodologia delle scienze sociali e della storiografia, entrando così in contatto con lo storicismo. Al 1944 risale “Miseria dello storicismo”, e al 1945 la sua opera più celebre: “La società aperta e i suoi nemici”. Quest’ultima, in particolare, costituisce lo sforzo più rilevante da parte della filosofia scientifica del secolo scorso di estendere la propria analisi alle scienze storiche e sociali e alle loro implicazioni metodologiche. Da un lato, quest’opera si propone di mostrare l’erroneità dell’impostazione storicista e il carattere fittizio di molti dei suoi problemi; dall’altro, si traduce nello sforzo costruttivo di un’analisi metodologica delle cosiddette “scienze umane”.

Il saggio “Che cos’è la dialettica?”, risalente al 1940 e contenuto in “Congetture e confutazioni”, costituisce la formulazione primaria del criterio falsificazionista popperiano per le scienze storiche e sociali. Esso denota lo sforzo di stabilire gli aspetti specifici del loro procedimento, nel quadro dell’unità di fondo attribuita al metodo scientifico. Il raffronto tra metodo scientifico e metodo dialettico diventa così la base della critica a quest’ultimo. Il metodo scientifico – afferma Popper – consiste nella formulazione di ipotesi esplicative che vengono continuamente e senza fine sottoposte a prova sperimentale, e che possono essere eliminate su tale base; la formulazione delle ipotesi e la loro (eventuale) eliminazione possono anche venir caratterizzate come momenti di tesi e di antitesi tra loro complementari. Tuttavia, nell’ambito di questo processo, non vi è una produzione “necessaria” di sintesi, né la conservazione necessaria dei due momenti iniziali nel suo ambito (come invece sostiene la dialettica). Il metodo dialettico rappresenta pertanto tanto un fraintendimento quanto una assolutizzazione del metodo scientifico. La dialettica hegeliana poggia sul presupposto di una ragione “incorporata” nella realtà e nella storia, e di una conseguente coincidenza fra la struttura dello sviluppo reale e la forma del ragionamento speculativo; la dialettica marxiana, a sua volta, conserva il presupposto hegeliano, sulla base di un semplice rovesciamento.

L’analisi viene ulteriormente affinata in “Miseria dello storicismo”. In questo libro, diventato presto famoso, Popper prende posizione nel dibattito concernente il rapporto fra scienze storico-sociali e scienze naturali, e in particolare sulla tesi secondo la quale le discipline storico-sociali sono “arretrate” rispetto a quelle naturali, per cui sarebbe necessaria la trasposizione degli strumenti delle seconde entro le prime. Popper afferma che lo storicismo adotta sia (l) tesi anti-naturalistiche sia (2) tesi pro-naturalistiche. In particolare:

(l) Lo storicismo sostiene che è impossibile rintracciare nella vita sociale uniformità analoghe a quelle accertate nel mondo della natura: le uniformità sociali sarebbero valide soltanto nell’ambito di una particolare situazione storica, e ogni avvenimento si presenterebbe quindi con caratteri di “unicità”. Da ciò deriva l’impossibilità di compiere esperimenti, nonché la difficoltà di formulare previsioni attendibili all’interno delle scienze storiche e sociali. In questo settore, infatti, l’interrelazione tra osservatore e oggetto o evento osservato si configura in modo tale da rendere ineliminabile la presenza di valutazioni soggettive, il che limita in maniera decisiva l’oggettività di tali discipline. Affermando la storicità della vita sociale e dello stesso procedimento delle scienze storiche, si fa uso della categoria di “totalità” per qualificare la struttura del loro oggetto d’indagine: il popolo o l’epoca storica costituiscono un “tutto” irriducibile alla somma delle parti.

(2) Ma d’altro canto, e questo costituisce il suo aspetto pro-naturalistico, lo storicismo sostiene pure il compito “esplicativo” delle scienze storico-sociali: esse sarebbero in grado di determinare le leggi dello sviluppo storico a cui ricondurre la successione concreta degli avvenimenti, e in base alle quali formulare previsioni ad ampio raggio sulla storia futura. Le scienze sociali vengono dunque ridotte a elementi della conoscenza storica, intesa come conoscenza delle forze che determinano la vita sociale nel suo sviluppo inevitabilmente deterministico. Tuttavia Popper nota che, in questo suo aspetto pro-naturalistico, lo storicismo assume come termine di riferimento un modello di scienza naturale che non corrisponde ai caratteri reali del metodo scientifico. In ultima analisi esso approda a una scienza dogmatizzata, alla quale viene attribuito un compito che potremmo definire metafisico.

Ecco allora che la polemica popperiana si indirizza contro la pretesa eterogeneità radicale tra scienze sociali e naturali; la difesa della scientificità delle discipline sociali è, per un verso, la difesa della sostanziale unità del metodo scientifico, e per l’altro il rifiuto di introdurre elementi dogmatici al loro interno. Le scienze storico-sociali devono procedere, come qualsiasi altra branca della conoscenza, mediante l’elaborazione di ipotesi sottoponibili alla prova dell’esperienza. Tali ipotesi costituiscono delle “generalizzazioni” al pari di quelle che troviamo nelle scienze della natura, e possiedono dei limiti di validità analoghi. La contrapposizione fra i due gruppi di discipline si basa su un’immagine delle scienze naturali che l’analisi metodologica contemporanea ha mostrato essere inadeguata e che deve essere respinta. Ciò tuttavia esige l’abbandono del ricorso alla categoria della totalità, e della concezione organicista della vita sociale che da questo ricorso discende. In altri termini, le scienze sociali non prendono mai come oggetto il tutto di una situazione o di un processo, ma lo indagano da una certa prospettiva, scegliendone gli aspetti rilevanti in rapporto a determinati criteri assunti come guida della ricerca. La storiografia, ad esempio, non è mai la storia dello sviluppo “totale” dell’umanità, bensì la storia di un certo settore individuato in base a un insieme di scelte metodologiche.

Con tali premesse, il ricorso a leggi dello sviluppo storico, capaci di fondare previsioni “ad ampio raggio”, costituisce in realtà una spiegazione in base a tendenze evolutive che non hanno – né possono avere – il carattere di leggi scientifiche; e la previsione che ne deriva non è giustificata da uniformità ripetibili, ma si risolve in una mera profezia (di qui l’appellativo di “falsi profeti” applicato a Hegel e a Marx). La sola forma di spiegazione legittima, anche per le scienze storico-sociali, è quella che fa riferimento a leggi generali di carattere ipotetico, alle quali occorre riportare l’avvenimento singolo da confermare o smentire alla prova dei fatti. La spiegazione storica, ad esempio, è sempre la spiegazione causale di un fatto singolo, preso nella sua individualità e considerato quale caso specifico di un comportamento uniforme.

Rilevo, per inciso, che lo storicismo contro cui Popper si batte è quello romantico, il quale fa leva sulla comprensione “intuitiva” assente nelle scienze naturali e sull’esistenza di “leggi dello sviluppo storico” come fondamento esplicativo. Ma l’obiettivo polemico del nostro autore non può certo essere Max Weber il quale, pur conservando notevoli reminiscenze della scuola storica romantica, si svincola dai suoi assunti di base. La critica della contrapposizione fra scienze della natura e discipline storico-sociali è, infatti, già presente in Weber, congiuntamente alla rivendicazione della costante presenza anche in queste discipline di un apparato teorico-concettuale che deve fornire i criteri di scelta del dato. Max Weber non è certamente un organicista. Popper, tuttavia, è più vicino di Weber all’eredità positivista, in quanto sostiene pur sempre l’unità del metodo scientifico.

Il contributo di Popper si può valutare ancor meglio se riprendiamo in considerazione l’aperto atteggiamento riduzionistico dei neopositivisti. Otto Neurath aveva enunciato un programma di rigorosa e coerente applicazione del fisicalismo nel campo delle scienze storico-sociali. Se tutte le discipline altro non sono che parti di una “scienza unitaria”, caratterizzata da una struttura linguistica che è sempre la stessa, e se tale scienza unitaria può venir ricondotta alla fisica, anche le scienze storico-sociali altro non diventano che semplici sotto-settori di tale scienza unificata, ed i loro asserti devono essere formulati seguendo le regole del linguaggio fisico. Di qui la ricerca di leggi storico-sociali del tutto analoghe a quelle della fisica, dando per scontata l’omogeneità strutturale di tutte le discipline scientifiche. E di qui, pure, l’indicazione di una pretesa “arretratezza” delle scienze storico-sociali, da superare mediante il loro adeguamento a quelle avanzate come la fisica. V’è in questo caso una totale sottovalutazione della specificità delle discipline storico-sociali, e un costante tentativo di riportarle a una pretesa – e mitica – uniformità.

Continua…

1 Comment on Karl Popper e la presunta fine dello storicismo (Parte prima)

  1. Azzardo un pensiero che mi affiora e che sviluppo prima di leggere la seconda parte per capire se ho capito ciò che ho letto. La mia ricerca iniziò con la complicazione e la complicazione è sempre presente quando leggo e scrivo. Nella mente umana la complicazione si profila dal passato lungo il corso della storia e dal presente corre avanti nel tempo. La linearità di questa spiegazione dovrebbe trovare conferma nella contingenza storica, appena riuscissimo ad eliminare le incrostazioni (oggi quelle romantiche dell’idealismo) che ostacolano le dinamiche del cambiamento, da una parte, e, dall’altra, a riagganciare, adeguandoli, i principi etici sorti nei tempi remoti al fine di ristabilire l’ordine sociale alterato. Insomma, il pensiero corre sul filo delle complicazioni create dall’uomo al sorgere di qualche nuova necessità e dà corpo alla conoscenza che si sviluppa in un ambiente temporale e spaziale sempre più vasto (Oggi c’è chi finanzia un progetto per creare una prima colonia umana su Marte).

    Queste proposizioni, senza citare nessun autore, tende ad accompagnare la filosofia all’epoca contingente perché questa resti sempre viva nel tempo. La filosofia non nasce dal pensiero passato, ma da eventi del passato nel loro trasformarsi in divenire senza mai fermarsi all’essere. In questo contesto è vano cercarvi verità in senso sperimentale.

    Che io sia neo aristotelico o platonico in un contesto di Wittgenstein o di Popper, non credo abbia molta importanza anche se, proprio loro, stimolano la mente verso nuovi confini.

Comments are closed.