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Difesa limitata dei rapporti tra realismo e metafisica

di Michele Marsonet.

Ogni volta che prendiamo in considerazione i rapporti tra linguaggio e realtà – e tra linguaggio e metafisica – ci muoviamo in una sorta di circolo praticamente inevitabile. Afferriamo il concetto di verità soltanto quando possiamo comunicare agli altri i contenuti delle esperienze condivise, e per far questo abbiamo bisogno del linguaggio. Ma solo allora, cioè quando la comunicazione viene stabilita, possono svilupparsi in modo compiuto linguaggio e pensiero. Quali sono, infatti, le condizioni necessarie affinché ci sia del pensiero – ivi incluso il pensiero dell’essere – e ci siano degli individui in grado di pensare? Sembra difficile credere che il pensiero sia nato in una mente totalmente isolata, in assenza di altre menti con le quali condividere un mondo.
Le posizioni anti-realiste si manifestano in molte forme e in diversi contesti. Nel pensiero filosofico dei nostri giorni, per esempio, spesso si sottolinea che non possiamo riferirci a enti che si situano oltre la nostra capacità di riconoscerli in un tempo finito. Se si imbocca questa strada, si può ammettere che ci sia “qualcosa” nel mondo che rende veri i nostri enunciati, aggiungendo al contempo che questo “qualcosa” deve essere accessibile a noi dal punto di vista epistemico. Ciò implica che un’intuizione realista diventa accettabile anche per un anti-realista, qualora i termini coinvolti vengano re-interpretati. Non è quindi scontato che la definizione classica della verità come corrispondenza conduca necessariamente a sostenere il realismo. Per ottenere tale risultato dobbiamo aggiungere che la realtà non dipende da alcunché al di fuori di essa per la sua esistenza e, in particolare, occorre aggiungere che essa non dipende dalla mente. Già a questo livello iniziale, tuttavia, si può notare che basare sull’indipendenza dagli esseri umani la definizione della realtà causa problemi, poiché sembra quasi implicare che noi non siamo parte della realtà.
Dunque, appena limitiamo la definizione di realtà a ciò che siamo in grado di riconoscere, la teoria della verità come corrispondenza può ancora essere accettata, ma perde i suoi connotati realisti. Si verifica, cioè, il passaggio dalla “realtà” senza ulteriori specificazioni alla “realtà-per-noi”. Secondo un’opinione diffusa, tale passaggio conduce immediatamente dal realismo all’anti-realismo, ma non è così.
Se ciò che esiste è auto-sussistente, non può dipendere dall’osservazione o da altre attività di riconoscimento per essere ciò che è. Ne segue che potrebbe esistere anche senza che nessuno fosse in contatto – dal punto di vista mentale e concettuale – con esso. Questo è il nucleo del realismo metafisico, ed è precisamente quello che l’anti-realista nega. Si tratta indubbiamente di una disputa circa ciò che si può dire che esista, ma il realista metafisico si sente obbligato ad aggiungere: è una disputa circa ciò che potrebbe esistere anche quando non fossimo in una posizione tale da dire alcunché a questo riguardo. Siamo insomma di fronte a un problema di metafisica, piuttosto che ad un’argomentazione concernente una definizione linguistica. Dobbiamo decidere che cosa si può ammettere come “reale”, ancor prima di sapere in virtù di che cosa i nostri enunciati sono veri.
La verità è, nella filosofia contemporanea, un concetto essenzialmente semantico. Tuttavia le restrizioni riguardanti il significato, riguardanti cioè ciò che può essere ammesso come vero in un linguaggio, presentano sempre implicazioni metafisiche.

Una teoria verificazionista del significato attribuisce alla metafisica la patente di non-senso, poiché i suoi enunciati non risultano verificabili adottando “certi” criteri scientifici (lo si noti: “certi” equivale a “relativi a un particolare periodo storico”). In ultima istanza, tuttavia, le considerazioni che riguardano quello che si può dire in modo significante, comportano necessariamente il prendere in considerazione ciò che si può dire tout court. E’ importante notare che l’adeguatezza del linguaggio nel descrivere la realtà, e lo status della realtà indipendentemente dal linguaggio, non sono questioni linguistiche. Perfino l’adozione di una posizione anti-realista volta a giustificare il fatto di concentrarsi sul linguaggio non è, di per sé, un problema linguistico. E’ possibile che una preoccupazione esclusiva per il linguaggio conduca ad avvicinarsi all’idealismo. Accade quando si afferma che nulla esiste a meno che non possa essere espresso nel linguaggio. La realtà diventa la realtà-così-come-viene-rappresentata dal linguaggio. E quando la “mente” viene equiparata a “capacità linguistica”, la somiglianza con l’idealismo diventa evidente.
Il problema è che risulta errato identificare “anti-realismo” e “idealismo”. Un conto è dire che le entità che compongono il mondo sono mentali; un altro è sostenere che il nostro accesso alla realtà è sempre mediato da fattori epistemici. A differenza del realista, per l’anti-realista non è possibile attribuire alcun senso plausibile agli enunciati metafisici senza la presenza di supporti gnoseologici. Si deve insomma notare che rifiutare il realismo metafisico non equivale automaticamente ad affermare che “non vi sono nel mondo oggetti indipendenti dalla mente”.
Ancora una volta: è scorretto spingere troppo in là il paragone tra l’idealismo tradizionale e l’anti-realismo che nasce da considerazioni linguistiche. Non è necessario che l’anti-realista odierno neghi l’auto-sussistenza della realtà come viene descritta dal linguaggio. Egli può limitarsi a negare che la realtà possa essere compresa come qualcosa di diverso da ciò che è esprimibile linguisticamente. Tuttavia, anche se il linguaggio può in questo caso essere inteso come qualcosa che parla del mondo, è pur sempre esso a determinare per noi ciò che il mondo è. A ciò che si colloca al di là della portata del linguaggio non possiamo fare alcun riferimento.
Si tratta di una posizione ambigua. Certo l’anti-realismo linguistico non è soltanto una specie dell’idealismo. Esso ammette che gli aspetti della realtà che siamo in grado di determinare appartengono al mondo; ma quegli aspetti sembrano costituire “il” mondo, dove per “aspetti” si devono intendere le caratteristiche della realtà che possiamo esprimere. In altre parole, la realtà può essere oggettiva, ma i suoi limiti vengono fissati dal linguaggio. La “realtà” è ancora una “realtà-per-noi”. Ma risulta controverso affermare che possiamo parlare in modo intelligibile soltanto di ciò che può essere determinato in modo conclusivo. Questo significa limitare la portata del linguaggio. Più plausibile sarebbe dire che il mondo è costituito da tutti gli aspetti che possono essere determinati in maniera conclusiva. Si tratta di una tesi metafisica, che restringe la realtà a ciò che è accessibile (a noi, ovviamente).