Sorpresa elettorale a Taiwan

di Michele Marsonet.
Destando una certa sorpresa tra gli osservatori internazionali, nelle elezioni amministrative che si sono tenute a Taiwan il “Partito Progressista Democratico” (PPD) dell’attuale presidente Tsai Ing-wen ha subito una pesante sconfitta.
Il nuovo sindaco di Taipei, il 43enne Wayne Chiang Wan-an, appartiene infatti al “Kuomintang”, partito che negli ultimi anni si è contrapposto al PPD sul fondamentale problema dei rapporti con Pechino.
Le sorprese, tuttavia, non finiscono qui. Il “Kuomintang” è l’erede diretto – e porta lo stesso nome – del partito nazionalista che, sotto la guida del Generalissimo Chiang Kai-hek, governò la Cina dal 1928 al 1949. Fu poi sconfitto dall’esercito comunista di Mao Zedong e, dopo la presa di potere dei comunisti di Mao, i suoi esponenti e le sue truppe si rifugiarono per l’appunto a Taiwan (la ex Formosa), mantenendo la vecchia denominazione di “Repubblica di Cina” (contrapposta alla “Repubblica Popolare Cinese” fondata da Mao).
Oltre a questo, il nuovo sindaco di Taipei è pure pronipote di Chiang Kai-shek, anche se sussistono dubbi circa la sua discendenza diretta dal Generalissimo.
Il problema è che il nuovo “Kuomintang”, il quale in teoria e per ovvie ragioni storiche dovrebbe essere il più deciso fautore dell’indipendenza dell’isola, negli ultimi anni ha invece adottato un approccio più morbido, sostenendo la necessità di non inasprire troppo le relazioni con il potente vicino comunista, soprattutto a causa degli intensi rapporti economici tra i due Paesi.
Come se non bastasse, il “Kuomintang” ha vinto anche in altre città dell’isola, battendo spesso di larga misura il “Partito Progressista Democratico” il quale, comunque, mantiene un’ampia maggioranza nel Parlamento nazionale. Come conseguenza Tsai Ing-wen ha subito lasciato la direzione del Partito. Resta in ogni caso presidente della Repubblica (il suo mandato scade nel 2024).
Si potrebbe osservare che, trattandosi di elezioni locali, alla vicenda non si dovrebbe attribuire eccessiva importanza. In quelle nazionali, infatti, Tsai Ing-wen ottenne una maggioranza molto ampia, e questo nonostante le pressioni dirette e indirette di Pechino, che avversava nettamente gli indipendentisti. Senza contare che, per la leadership comunista cinese, tutte le elezioni a Taiwan non hanno alcun valore legale, giacché l’isola è considerata parte integrante della Repubblica Popolare.
In ogni caso l’esito della tornata amministrativa pone parecchi problemi tanto a Taipei quanto agli Stati Uniti, che hanno promesso di difenderla in caso di invasione da parte della Cina. Se i taiwanesi – come sembra – non sono compatti nel rivendicare l’indipendenza, e se, addirittura, si manifestasse una “quinta colonna” favorevole a Pechino nell’isola, tale difesa diventerebbe assai problematica.
L’approccio “morbido” adottato dagli eredi di Chiang Kai-shek desta sospetti. Tempo fa, per esempio, Xi Jingping ha proposto all’isola il vecchio schema di Deng Xiaoping “Un paese, due sistemi”, lasciando intendere che, anche dopo la riunificazione, Taiwan potrebbe mantenere un sistema di governo democratico con ampia autonomia e libere elezioni.
Come fidarsi, tuttavia, della buona fede del nuovo imperatore di Pechino dopo la brutale repressione della rivolta di Hong Kong e la “normalizzazione” coatta della ex colonia britannica?
In effetti il mondo politico taiwanese è in piena fibrillazione. In attesa di vedere come si comporteranno i vincitori del “Kuomintang”, si registrano tensioni anche nel “PPD”, ora non più guidato da Tsai Ing-wen. Al suo interno potrebbero prevalere gli indipendentisti più estremi, il che causerebbe un aumento delle pressioni cinesi.
Una bella gatta da pelare per Joe Biden, se la compattezza della popolazione taiwanese venisse meno. A quel punto Xi Jinping avrebbe buon gioco nel dimostrare che l’isola appartiene alla Repubblica Popolare senza “se” e senza “ma”, ponendo Washington in una situazione ancora più difficile di quella attuale.